05 Luglio 2024

“In una diaspora celeste”. Dialogo con Elisa Longo

L’incontro con la poesia di Elisa Longo è avvenuto prima con una voce, come nel Canto del buio e della luce di Moresco. Percorrendo il Viaggio d’Inverso, in un’istallazione dedicata a Gioacchino da Fiore al Mabos – Museo d’Arte del Bosco della Sila. Sarebbe potuta restare la sola voce declamante il componimento Anamastosi Impossibili, poi va che prendo qualcosa nell’area caffetteria, mi complimento per quanto ascoltato e mi indicano una giovane donna che lavora a un tavolino, ed è così che la poesia ha assunto un corpo e un volto. Il libro non era ancora cosa fatta, era l’estate scorsa. Allora la promessa di un altro incontro tra le parole per quando il libro avrebbe potuto camminare fino alle mani di chi avrebbe voluto leggerlo. Di seguito quello che è stato raccolto passeggiando in Sanasàna, per Tralerighe libri.(a.c.).  

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Iniziamo dalla fine, dai versi: “Io mi metto/ nelle mani degli altri/ sanasàna”.

Ho visualizzato da subito il libro come l’oggetto che va tra le mani degli altri, entrando nelle case e nella sensibilità di chi lo accoglie. Ho immaginato di diventare questo libro, che mi contiene in maniera esatta. Il libro è la sintesi di come io mi concedo realmente agli altri sanasàna, che nel mio dialetto significa in maniera integrale, dove l’integrità è anche morale. Integrità che entra direttamente in contraddizione formale con le poesie, con il loro essere e offrire frammenti. L’integrità è l’aspirazione e la premessa.

Altri versi dalla sezione finale, Ricognizione del dolore: “Sono una donna/ dagli stipiti scollati”. Presente e rivelante nella tua poesia è la casa, le sue parti spesso in sgretolamento.

Evoco la casa per il suo rappresentare l’ambiguità tra la dimensione privata, intima, e la dimensione pubblica, esposta. La casa sta per il mio combattimento continuo tra il chiudermi e l’aprirmi agli altri. Io resto, vacillo, tra le due dimensioni, e il contrasto diventa poesia: “le mie porte/ che s’aprono e si chiudono/ senza clemenza.

Eppure tutto collassa, come nei versi: “Ho esaurito i miei argomenti/ in una diaspora celeste.”

Il mio rapporto con la poesia è nato come nasce una storia d’amore. Al primo momento fortemente idealizzante, dell’innamoramento, è seguito la realtà più cruda e crudele: stare con la poesia significa stare con la vita e i suoi inciampi, i drammi dei miei ultimi anni. Non è un esercizio stilistico, la poesia è lo strumento più spontaneo tramite il quale ho potuto assimilare, filtrare e restituire un vissuto molto violento, una realtà che mi è arrivata addosso e che mi ha fatto sentire l’urgenza di ridurla in piccoli pezzi, in versi. È un libro che non si era dato presupposti, men che meno quello di valere come un nuovo manifesto femminista, lo stesso è molto femminile, è l’indagine che faccio a partire soprattutto da me stessa, dalla mia sensibilità, dal mio corpo di donna e dalle sue esperienze, compresa la violenza e lo sforzo di metabolizzarla e trasformarla in un credito d’amore. Nella mia poesia invoco Penelope, che è stato un modello di femminilità che ho voluto conoscere così come poi ho voluto superarlo. Nel continuo contrasto tra il restare e l’andare oltre quei confini che sono sia spaziali e culturali, profondamente legati ai miei territori, che biografici, personali. Confini e modelli che costa uno sforzo incredibile il varcare.

Modelli ellenici, modelli cristiani. “Alla madre di Cristo/ è bastato il miracolo/ alle madri ignote/ serve l’amore.” L’amore è più di un miracolo?

L’amore nel suo essere estremamente umano va al di là del divino. Affidarsi al divino è più semplice che affidarsi all’amore degli uomini e delle donne. L’amore è difficile, non basta avere fede.

Ancora da Ricognizione del dolore: “Si alimenta/ a partire dal suo vocabolario/ l’amore in esubero”.

Con i versi della poetessa Francesca Tuscano: “No, non è d’amore che parlano i poeti./ Ma è l’amore che li fa parlare.” Sono versi su cui ho riflettuto tanto. L’amore ci muove e ci mette in ricerca delle parole che ne giustificano la presenza. L’amore per esserci deve essere nominato. Nel suo essere un fatto umano, un oggetto tra gli oggetti come lo è il linguaggio stesso, esiste finché viene detto.   

“Ora il lògos è una steppa/ e vi crescono rigogliose/ l’assenza e le mutilazioni.” Nel mondo alla fine del mondo la tua poesia è piena dei rintocchi di ciò che non c’è più.

Siamo nella sezione delle Quattro stanze minime. È il primo progetto di poesia sonora scritto a quattro mani con Domenico D’Agostino per il Mabos, il Museo d’Arte del Bosco della Sila di cui curo la direzione. Il progetto nasce in relazione ambientale con la fotografia di Aldo Tomaino in un’indagine improntata sull’assenza. L’intenzione era proprio quella di raccogliere qualcosa che stesse per svanire. Io e D’Agostino prevenivamo dall’esperienza di due perdite, ciascuno la sua, e ci siamo misurati con la casa svuotata da queste due forme di lutto. Il nostro dialogo poetico è stato il tentativo di trattenere quello che stavamo perdendo. In Sanasàna è raccolta solo la mia parte di dialogo.

I poeti non camminano mai da soli.

Lo metto in chiaro in ogni occasione: non mi assumo la responsabilità dell’invenzione. I miei riferimenti si vedono e voglio che si vedano. La poesia è un grande esercizio di disciplina, di studio, di meditazione. Dal primo amore per Saffo e i classici fino agli ermetici e a Ungaretti, passando poi per Bertolucci e Caproni fino ad arrivare alle poetesse confessionali come la Plath e la Sexton. La mia forma poetica attuale deve molto anche a un mio conterraneo, al poeta Franco Costabile, sfortunato in vita e molto vicino proprio a Ungaretti che scrisse per lui l’epitaffio. Costabile è stato un grande poeta dimenticato da tutti perché morto suicida e per questo odiato dalla famiglia che non ha fatto nulla per difenderne e diffonderne l’opera. Quest’anno ricorre il centenario della nascita e finalmente è stato ripubblicato. La sua poesia ha sicuramente contribuito alla formazione della mia. Poi ci sono i poeti più vicini a me, compagni di collana per così dire, altri masnadieri, come Andrea Napoli o come merita di essere Matteo Mazza: con Mazza conversavamo sui poeti russi, a lui devo molto. In poesia non sono mai stata da sola.

“Siamo i depositari/ di un’iconografia dell’abbandono.”

 L’iconografia dell’abbandono è legata a un progetto dedicato a uno dei tanti piccoli paesi dell’entroterra calabrese la cui storia sembra debba concludersi inevitabilmente con lo spopolamento. Chi vive questi luoghi, chi li conosce e li frequenta, gli deve la propria identità. Le case vuote, le strade tra le cui crepe cresce la judaica rediviva perché nessuno più le pratica, sono queste le immagini del mondo che mi appartiene. Bisogna fare i conti con gli spazi vuoti.

La Storia è una sequela di svuotamenti e di ‘manicomi stellati’.

Non è tramite la grande storia presunta ma grazie al dettaglio non perso di vista che possiamo avere un contatto con la realtà. Anastomosi impossibili – la sezione che contiene i manicomi stellati – è l’altro progetto di poesia sonora del Mabos, la Passeggiata poetica. Un lavoro a togliere, a sgravare. Contiene i versi più complessi, più ricercati, più importanti. Uno scrivere che corrispondesse a un camminare, a un andare sempre più verso una nudità integrale con per arrivo l’essenziale. Il peso di un frammento, la responsabilità di una parola. [Il verso conclusivo della sezione Anastomosi impossibili è “la gravita del libero arbitrio”. N.d.R.]

Ci avviciniamo alla fine, cioè all’inizio. Da Esercizio di vicinato: “(…) la vergogna/ di non essere abbastanza.”

Nella Ricognizione del dolore l’io è lirico e invadente, l’io dell’Esercizio di vicinatoè civico, collettivo. Il fallimento e l’inadeguatezza ci riguardano tutti. La poesia allora diventa un esercizio di vicinato, di relazione con l’altro e di responsabilità verso l’altro, compresa la responsabilità di condividere con lui il sentimento diffuso del fallimento d’epoca che attraversiamo.

“Ma a noi piace soffrire/ ben strutturati.” La poesia è la forma data a ciò che non ne ha più nessuna, a ciò che è crollato?

Costruiamo case, legami, società intere, al cui interno possiamo soffrire ben strutturati, in questo siamo molto bravi. Ritorna il contrasto che è la traccia nascosta di tutta la raccolta, tra pubblico e privato, personale e collettivo, in questo caso evidenziando come la risorsa della poesia corrisponda al suo rischio più grande, estetizzare la sofferenza con “le maioliche a surclassare/ i limiti estetici dell’intonaco.”

*L’intervista è a cura di antonio coda

*In copertina: Andrew Wyeth, Winter Carnival, 1985

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