Per intenderci, non aveva nulla della donna cosmopolita à la Victoria Ocampo, danarose sudamericane cinte da figuranti che hanno bisogno – con genio, per carità – di raccogliere figurine, piume di pavone utili a decorare il proprio collier: oggi Drieu, domani Virginia Woolf, dopodomani Camus, con il cortigiano Borges sempre fido, al fianco.
Ovvio, non si parla di superfluità ma di gente stigmatizzata dal desiderio di tosare i cieli.
Ecco: se gli altri volevano ascendere, Susana Soca dava l’idea di essere appena discesa dai regni celesti: e di non capire bene, dunque, cosa fosse questo mondo, cosa questo uomo. La sua bellezza, virginea, pare spiazzare; il candore, più che altro: ne furono trafitti a frotte. Boris Pasternak, su cui convergevano gli interessi di mezzo mondo intellettuale, il puro seduttore, ne fu sopraffatto, fino a consegnarsi: è a lei che chiede di custodire una delle copie occulte del Dottor Zivago, romanzo dai romanzeschi esiti. Perfino Emil Cioran, capace di distingue ciò che perturba dagli imprevisti, fugaci turbamenti, ne seppe cogliere l’enigma, la totale estraneità: “Chi è lei? Da dove viene?, era la domanda che si sarebbe voluto rivolgere a bruciapelo. Non avrebbe potuto rispondere, a tal punto si identificava con il proprio mistero o riluttava a tradirlo. Nessuno saprà mai come faceva a respirare, per quale smarrimento cedeva ai sortilegi del fiato, né che cosa cercava fra noi. Quello che è certo è che non era di qui e condivideva la nostra caduta soltanto per educazione e per qualche curiosità morbosa. Solo gli angeli e gli incurabili possono ispirare un sentimento analogo a quello che si provava in sua presenza. Fascinazione, sovrannaturale malessere!”. Così scrive in Elle n’était pas d’ici.
Nata a Montevideo nel 1906, Susana passa la gioventù a Parigi, ed è lì che fonda, ispirata, tra gli altri, da Paul Éluard e da Roger Callois, “Les Cahiers de la Licorne”: la rivista esce in Francia nel 1947 – tirata in 2200 copie, publiés sous la direction de Susana Soca – accogliendo contributi, tra gli altri, di Maurice Blanchot, Pablo Neruda, Thomas S. Eliot e René Daumal; dal 1953 l’opera si trasferisce come Entregas de La Licorne a Montevideo. Tra i tantissimi, si pubblicano testi di Pierre Jean Jouve e di Cioran, di Thomas Mann e di Dylan Thomas, di Pasternak, di Pasolini, di Martin Buber e di Thomas Merton. Susana Soca è sensibile alla poesia più che alla narrativa, al sacro più che al mondano, alle confraternite più che ai salotti, al mistero di chi scompare più che alle apparizioni dei grandi nomi della letteratura del tempo. È donna dalle mille sottigliezze, dalle vindici fragilità, dai rivoli irrisolti. Per tutti, diventò “la dama dell’unicorno”: figura che commuove e atterrisce, inattingibile. Praticava, nel segreto, la poesia.
La morte, violenta – forse prevista – in aereo, sul volo Lufthansa 502 partito l’11 gennaio del 1959, preso ad Amburgo, che si schiantò poco prima di atterrare a Rio de Janeiro, ne sigilla, in qualche modo, la conchiusa sacralità, il tragico dei beati.
Nel 1961 la rivista “Entregas de La Licorne” dedica un numero speciale a Susana Soca. Tra gli omaggi, spicca quello di Marcel Johuandeau, straordinario scrittore francese:
“Amiamo le persone, senza ammetterlo, nella misura in cui ci disorientano. Chi l’ha fatto più di lei, meglio di lei, così fragile, così poco adatta alla terra? Indossava la sua maschera d’oro, ti guardava con le lunghe ciglia, l’aria gelosa, un po’ al di sopra, chiedendosi dov’eri davvero. Ho conosciuto pochi esseri così inclini a spezzarsi. Si muoveva come un uccello che rifiuta di spalancare le ali, non è in grado di tenere il passo, barcolla, va alla deriva, levita e cade. In quale sogno viveva questa carmelitana piumata, figura di ancestrale levigatezza?… La Bibbia parla di un certo Enoch, che il Signore ha levato a sé. Penso abbia fatto lo stesso con Susana. Il fuoco non è ciò in cui crediamo. Il retro è un affronto, il recto semplice e puro”.
Anche María Zambrano invia una memoria, delicatissima. Proprio in quel 1961, Cristina Campo comincia a intrattenere un denso epistolario con la Zambrano – raccolto in: Cristina Campo, Se tu fossi qui. Lettere a María Zambrano 1961-1975, Archinto, 2009 – quasi si trattasse di una sostituzione, di una mistica invasione.
“La scomparsa di Susana è misteriosa quanto lei. L’ho percepita così, emersione di un mistero chiarissimo, e allo stesso tempo indecifrabile. Creatura di un mondo trasparente, dunque visibile a metà. Ha agito sempre con l’efficienza di una mente divinatrice, dunque precisa e imprevedibile, inattesa ed esatta. La sua semplice figura indicava qualcosa che non aveva mai detto, che mai avrebbe rivelato. Ogni suo gesto, ogni parola e reticenza, si compongono come frammenti di un ordine la cui chiave risiede nella morte, cioè nella cifra inafferrabile. Supponiamo che la sua morte sia creativa, un poema…”.
In quel numero tragico e ‘speciale’ de “La Licorne” è raccolto un saggio di Susana Soca, La Nube de la Ignorancia, dedicato a una preliminare lettura de La Nube della non conoscenza, trattato mistico del Trecento inglese, di perigliosa potenza, sconcertante. Dimostra la propensione per gli al di là, la tonsura d’abisso di questa donna velata, per sempre remota. Qui traduciamo larga parte di quel testo.
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La nube dell’ignoranza
Penetriamo con stupore in The Cloud of Unknowing, “la nube della non conoscenza”, un’isola dell’antica lingua inglese; un’isola tra i residui ed eccezionali testi mistici scritti in quella lingua. Testo di pura contemplazione, all’altro lato del mondo di visioni e di gioia trasmesse da Giuliana di Norwich, presenta, piuttosto, concordanze e coincidenze con Ruysbroeck e i grandi mistici renani. Qui siamo nel più austero e nel più logico dei mondi; l’autore della Nube è anonimo come le statue di pietra delle grandi cattedrali europee. È anonimo per lignaggio e maestria: non possiamo dargli un nome che sostituisca il suo, non potrebbe designarlo, ed è dalla nube stessa che sale la singolarità della sua voce, che parla direttamente al lettore, in una prossimità priva di distanze.
Sappiamo che l’autore è vissuto in Inghilterra, all’inizio del Trecento, nel pieno della disputa tra gli attivi e i contemplativi. Si mise, con veemenza, dalla parte di questi ultimi. Traduttore dello pseudo-Dionigi, adattò gli insegnamenti tratti dalla Teologia mistica ad uso di un giovane discepolo, che voleva dedicarsi a Dio senza entrare in monastero, in un’era in cui gli eremiti proliferavano. Per comprendere l’individualità dell’autore della Nube occorre confrontarsi con il “Corpus dionysiacum” e con i vari mistici che da esso hanno ricevuto un’influenza decisiva. Tornando alle fonti dionisiache: mediante Platone e il neoplatonismo (Plotino, Giamblico, Proclo) scopriamo una continuità spirituale nella cristianizzazione operata dal misterioso pseudo-Dionigi.
L’Esodo racconta che gli israeliti usciti dall’Egitto furono protetti da una immensa nuvola, attraverso la quale si scorgeva una vasta oscurità. La tenebra divina dell’Areopagita non è diversa da quella dell’autore della Nube. La conoscenza umana non può ascendere a Dio: soltanto l’amore, se sufficientemente vasto, può realizzare la rivelazione. Poiché la creatura non è in grado di percepire la luce increata, essa appare come tenebra, cioè assenza di luce. Viene in mente la frase di San Bonaventura, che descrive in questo modo l’impossibilità dello sguardo umano di contemplare la luce divina: “all’occhio corporeo, quando vede il sole, la luce stessa, sembra di non vedere nulla”.
In questo filone connesso alla teologia mistica, la Nube prefigura e annuncia l’esperienza che accadrà due secoli dopo, in Spagna, descritta, con splendore rinnovato, ne La notte oscura. L’incarnazione verbale, la drammatizzazione del processo, la sapienza del vocabolario, che sembra tendere fino agli impossibili il linguaggio umano, perché in esso si manifesti davvero il pellegrinaggio verso Dio: tutto nella Notte oscura ci aiuta a contemplare la nube intenebrata. San Giovanni della Croce ci lascia attoniti, ma non sorpresi. Non ci sorprende neppure l’Areopagita, perché ne saggiamo il processo, il punto esatto in cui si sigilla il rapporto segreto tra umano e divino, il luogo in cui il linguaggio si blocca. Le facoltà dell’intelligenza, affinate dalla Gerarchia e dai Nomi, brillano di un’ultima scintilla prima di annullarsi al cospetto di Colui che le sovrasta.
La Nube della non conoscenza, invece, è una sorpresa permanente. Non vi sono gradazione, stadi, gerarchie. È un frammento isolato, monade di viva contemplazione. D’improvviso, il maestro getta il discepolo tra le fauci della nube. Comincia col dirgli che deve obbedire a tutto ciò a cui la Chiesa lega e obbliga, ma subito dopo indica la via del sacrificio totale; l’abolizione delle facoltà mentali e sensibili. In altre parole, il modo perfetto per rinunciare a se stessi, per scoprire qualcos’altro attraverso la nube. Che tutte le creature debbano essere avvolte nel velo dell’oblio è insegnamento atteso; inatteso è l’ordine di non pensare a nulla, di dimenticare gli attributi divini e ogni sorta di rappresentazione, per quanto alta e sublime.
Bisogna restare sulla più sottile guglia dello spirito per colpire l’oscurità con il dardo d’acciaio dell’amore, incessantemente, finché non si riveli. Il clima della Nube è di spoliazione. Nessun segno, nessuna figura, nessuna premonizione, nessun desiderio di visione. Unico compito: rimuovere gli ostacoli affinché l’Ospite, quando arriverà, possa avere necessario spazio.
Il visibile è lasciato alle spalle, l’invisibile non è ancora manifesto. Nel vocabolario della Notte oscura, è il momento di mandare a morte le tre potenze dell’anima, memoria, intelletto e volontà, affinché possano rinascere, trasformate soprannaturalmente, in fede, speranza, carità. Eppure, San Juan mette in guardia dal prematuro abbandono della meditazione e del discorso. Nella Nube assistiamo a una contrazione di stati. Bruscamente, il maestro colloca il discepolo al terzo grado della preghiera (quella che Santa Teresa chiama orazione di quiete). Ad ogni passo, il maestro sorprende per la forza della sua certezza di fronte a un pellegrinaggio esclusivo. La Passione è la porta per entrare nella Divinità di Cristo, dice al discepolo: scegli se stare alla porta o entrare. Scegli tra la sola salvezza dell’anima e la contemplazione. […]
Un altro motivo di stupore della Nube sta nella difficoltà a definirlo. Crediamo di trovarci di fronte a un trattato contemplativo ed esso ci appare come un’opera ascetica. Anche nei momenti in cui il maestro ordina al discepolo di uccidere concetti e sensazioni, lo intima a trovare una penitenza in questo sforzo, a percorrere una fase ascetica, che precede quella contemplativa.
Altre volte, ci pare di leggere un testo polemico, dove l’autore, pur con superba cortesia, ingaggia una lotta contro gli ‘attivi’. A volte, l’orgoglio di alcuni accenti non accenna ad altro che al senso di una totale umiltà. L’autore della Nube ci pare, di volta in volta, un sistematizzatore e uno psicologo, un moralista e un logico, un saggista di genio. La sua capacità di sintesi rende la Nube un testo inclassificabile: la forza del linguaggio, che invita ad annientarsi nel silenzio, ci domina per la sua chiarezza, per una severa grazia nel navigare nelle oscurità. Così, questa voce ci giunge più vera e diretta di ogni ipotetica santità ascrivibile al suo ignoto autore. È un costante invito a ricordare che “soltanto una cosa è necessaria”.
Leggendo La Nube della non conoscenza, pur non sapendo altro, capiamo perché in molti abbiano preferito non scrivere pur potendolo; perché, secoli dopo, nella stessa lingua, Gerard Manley Hopkins abbia smesso di scrivere le sue poesie più segrete. L’imperio della Nube, il suo lignaggio, schiaccia e divora. La Nube della non conoscenza è uno dei testi più severi e rigorosi mai scritti.
Susana Soca