Ci sono donne che sono belve assassine. Non ci nascono, ci diventano, ve le fanno diventare. Sono donne che usano il loro corpo come esca, il sesso come arma. Donne che violentano gli uomini, li seviziano, li torturano, poi li uccidono. Quando non li uccidono li evirano, gli staccano i testicoli, glieli fanno mangiare. Chi lo fa, torna libero. Fino alla prossima imboscata.
Chissà se è successo davvero, deve essere successo davvero, da qualche parte in questo momento, forse sta accadendo. È quello che ho pensato leggendo un velenoso libretto erotico, sconosciuto, roba forte per pornografi d’élite, si chiama “Stalin loves”, e se lo vuoi te lo trovi sui siti di libri vecchi, usati, rigettati. Un libro piccino, color fucsia, e ti svelo subito che quel disegno che vedi in copertina è opera di Andrea Pazienza. Te lo smerciano come anonimo, ma senza padre non è davvero, l’ha scritto Dario Fiori, architetto, direttore della casa editrice che lo ha pubblicato. Tema e intento di “Stalin loves” sono altri, le donne che uccidono sono una storia nella sua storia. Ed è storia di donne in guerra, di qualsiasi guerra che insanguina il mondo, in questo libro precisamente sono donne della seconda guerra mondiale, guerrigliere titoiste: figlie violentate che hanno visto violentare le loro madri, uccidere i loro padri, e hanno fatto un giuramento: ripagare con la stessa moneta ogni uomo nemico caduto nelle loro mani. Come? Attirandolo nel loro letto, tra le loro gambe, per attaccargli una malattia venerea, è vendetta anche questa. Chi si ritrova le piattole è fortunato, ringrazi il suo Dio, perché ci sono uomini sedotti da queste mantidi che, quando li hanno addosso, dentro di loro, che si agitano e ansimano, proprio nel momento di massimo godimento gli infilano un coltello nei reni e, come una carezza, salgono con la lama sulla schiena fino a urtare le scapole. Uomini che muoiono riversi, a occhi aperti, con la loro virilità rigida, piantata verso il soffitto.
Donne con la ferocia in fondo al cuore che, se fanno l’amore con uomini che amano, soffrono di tanto piacere. Donne il cui sperma in bocca è il più delizioso pasto. Son donne che sotto l’uniforme indossano un maglione lungo e sfatto, senza reggiseno, né calze, né mutandine. Donne abituate a dormire sulla nuda terra. Mi ricordano le vietcong, quelle vere, arruolate in battaglia una ogni 5 uomini: nei loro zaini granate e rossetto, pallottole e cipria, ma facevano la guerra come i maschi, alcune li comandavano. Se le catturavi potevi far loro torture inumane, non avrebbero rivelato nulla, piuttosto che parlare si staccavano la lingua a morsi. Erano donne con un’ideale, di guerra e di liberazione, le algerine degli anni ’50, le palestinesi degli anni ’70: trucco e minigonna per uscire, andare a passeggio, flirtare coi soldati di guardia, per poi entrare in un supermercato, allineare un barattolo agli altri, e scappare. Quel barattolo esplodeva, facendo più morti e feriti possibili: una donna, anche una madre, ammazza chiunque le sia nemico, occupi la terra che giudica solo sua. È la guerra.
In guerra le donne non conoscono esecuzioni pulite, uccidono sorridendo sadicamente, dando sfogo a tutti gli istinti peggiori dell’animo umano, scatenandoli, senza la più piccola limitazione. Donne che legano il loro prigioniero a un tavolo, lo spogliano e si danno da fare per sfamare la loro libidine. Appena di quel corpo son sazie, a colpi di martello ne sfondano il sesso, lasciandolo alla morte. Fra un concerto di sangue e urla agghiaccianti.
In guerra, da donne che hanno vendette personali da compiere, puoi aspettarti ogni orrore. Senza vergogna, né pentimento. La Convenzione di Ginevra? Da sputarci sopra. Sono combattenti. Sono soldati femmina. I loro nemici hanno un colore politico. E un pene tra le gambe.
Barbara Costa