Siete d’accordo con me sul fatto che Don DeLillo meriti pienamente il premio Nobel per la letteratura? E subito. Quest’anno, per esempio?
I meccanismi interni dell’Accademia svedese sono opachi, ma l’unica cosa certa è che le loro scelte dei vincitori del premio per la letteratura sono atipiche, nel migliore dei casi, mentre in altri, ottuse e scandalose (vedi Peter Handke). I loro peccati di commissione (quando è stata l’ultima volta che qualcuno ha scritto qualcosa sugli autorevoli Rudolf Christoph Eucken, Carl Spitteler, Frans Eemil Sillanpää, Pearl S. Buck, Nelly Sachs, o Dario Fo?) sono meno gravi solo dei loro peccati di omissione. Alcuni degli autori sui cui l’Accademia ha sorvolato includono: Lev Tolstoj, Henry James, Edith Wharton, Henrik Ibsen, Virginia Woolf, James Joyce, Jorge Luis Borges, Graham Greene, Vladimir Nabokov e, più recentemente e clamorosamente, Philip Roth.
Eppure il premio Nobel continua a superare il Booker, il Pulitzer e ogni altro riconoscimento letterario, in prestigio, impatto globale e spinta verso l’immortalità. Mentre il fatto che, anno dopo anno, Roth continui a essere ignorato è diventato un mesto tormentone per la stampa, io non smetto di mormorare tra me e me “e Don Delillo allora? Non è un’ingiustizia ancora maggiore?”. Anche quando Roth era in vita, ritenevo DeLillo il più grande scrittore americano vivente, e ora la questione non è minimamente discutibile. Roth era senza dubbio un personaggio pubblico di risalto e ha mantenuto un accorto controllo sulla propria carriera e la propria reputazione, mentre DeLillo, sebbene non fosse affatto l’eremita pynchoniano per cui fu un tempo scambiato, si tiene alla larga dai riflettori e gli stipendi da star non lo attirano. Nella misura in cui il Nobel a DeLillo venga discusso, l’opinione diffusa è che sì, forse dovrebbe vincerlo, ma non succederà perché beh… è troppo cerebrale, rimane nell’ombra… un tempo, questo tiepido consenso verso di lui e la sua opera mi deprimeva. Ultimamente però mi sta facendo infuriare. Non solo è un ozioso insulto a DeLillo, ma anche un rifiuto di tutto ciò che la letteratura americana ha raggiunto e ha detto sul proprio popolo e sul mondo, negli anni del dopoguerra.
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Qualsiasi siano i metodi di misura che possiamo usare per determinare la grandezza letteraria, compresi risultato complessivo, varietà e portata degli argomenti, stile compiuto e d’impatto, lunghezza della carriera, originalità e innovazione formale, influenza in patria e all’estero, realizzazione di capolavori, costanza nell’eccellenza, pertinenza dei temi, consistenza del commento critico e dignità nello svolgimento della carriera letteraria, Don DeLillo, ora ottantatreenne, raggiunge il più alto punteggio possibile. Alla sua prima pubblicazione del 1971, Americana, un romanzo fervido e intriso di cinema (provate a immaginare se Mad Men le avesse effettivamente realizzate, le sue pretese letterarie, invece di rappresentarle e basta), sono seguiti sedici romanzi e una raccolta di racconti, nessuno dei quali privo di grande valore e interesse, e molti dei quali annoverati tra i monumenti supremi della narrativa americana del dopoguerra. Una critica ricorrente alla letteratura americana vede una certa arretratezza dei suoi scrittori, per quanto riguarda sviluppo complessivo e realizzazione della carriera, a causa dell’aridità del suolo culturale, contrapposto al più fertile e maestoso modello europeo. Grazie a una carriera così feconda e abbagliante (da qualsiasi parte vogliate esaminarla), marcata da una crescita così evidente: dalla promessa degli esordi alla maestria sbalorditiva della maturità, fino alla fase finale, una varietà crepuscolare e personale, DeLillo mette a tacere tale critica. Oserei affermare che nessun altro scrittore della storia letteraria americana riesca a eguagliarlo per coerenza abbinata a produttività. Persino Roth, nonostante il notevole scatto finale, ha prodotto un discreto numero di fiaschi.
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Se avessi tempo e spazio, riempirei un numero intero con canti di lode a DeLillo e ai suoi romanzi. È dai primi anni ’70 che leggo le sue opere, dedicandogli la massima attenzione e ammirazione e penso dobbiate sapere che ho curato il suo capolavoro supremo Libra, un’esperienza esaltante, il sogno di un editore. Ma per ora concentriamoci sulle motivazioni principali per il Nobel a DeLillo. A mio parere la tesi si basa su quattro argomentazioni.
DeLillo ha sempre negato di aver scritto con l’intento di costituire una sorta di epopea americana enciclopedica alla Dos Passos; tra tutti gli scrittori più rilevanti del nostro tempo, è il meno programmatico e il più intuitivo e guidato dalla parola. Eppure, il risultato finale è enciclopedico ed epico. Tali intuizioni e parole lo hanno condotto nelle regioni chiave e inesplorate della nostra psiche più a fondo di qualsiasi altro scrittore contemporaneo e ad argomenti che, sommati insieme, hanno dato origine a una rassegna completa dell’esperienza americana. Una lista parziale dei suoi temi e delle sue inquietudini include: il cinema e il potere dell’immagine sulla parola, la Guerra Fredda e l’ansia nucleare, l’ossessione americana per lo sport, la tecnologia e la sua spesso sinistra ubiquità (vedi “l’evento tossico aereo”), le conseguenze devastanti dell’assassinio di Kennedy e le domande rimaste senza risposta, le conseguenze, misteriosamente simili, degli attacchi dell’11 settembre, gli squilibri mentali di chi ha celebrità e fama, le sottocorrenti comiche e inquietanti della “vita ordinaria” della classe media, la brama di capitale finanziario, la delirante ricerca plutocratica di una soluzione tecnologica al problema della mortalità e, prolettica e persistente, la centralità indissolubile del terrorismo nella visione che gli americani hanno di sé stessi e del mondo in generale. Come scrisse nella nota riflessione in Mao II, adesso sono gli uomini armati e i bombardieri, non gli scrittori, che danno forma ai nostri racconti e “fanno irruzioni nella coscienza umana”. L’intuizione più sconcertante e indiscutibile che ci abbia offerto uno scrittore del nostro tempo.
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La seconda motivazione per cui DeLillo merita il Nobel risiede nell’incredibile e ineguagliabile sequenza di quattro capolavori compiuti a metà carriera: Rumore bianco (1985), Libra (1988), Mao II (1991) e Underworld (1997). Romanzi per sempre incastonati nella storia dell’eccellenza letteraria americana. I tropi, le frasi, il ritmo di queste opere si sono irradiati in una cultura più ampia, hanno assunto forme diverse e in modalità che l’alta letteratura raramente sfiora. Pafko at the wall. Gli Hitler studies. Gli uomini in mylex. Sette secondi che hanno fatto il Secolo Americano. Tutte le trame tendono ad andare verso la morte. Uomini in piccole stanze. Il futuro è delle folle. Strage della follia. Mi sono messo a rileggere Rumore bianco per la prima volta dalla pubblicazione ed è talmente geniale, cosciente, e terribile e originale e infestato dalla morte e così tanto divertente da aver riconfermato la mia convinzione del fatto che è questo il romanzo chiave della storia post anni ’60, ancor più de L’arcobaleno della gravità.
Il pensiero e la parola americani non sono mai stati resi con registri così ironici e autoriflessivi, il monologo interiore del nostro tempo. Ogni frase è marchiata dall’inconfondibile timbro del suo autore. Rappresenta meglio di qualsiasi altro testo letterario la misura in cui il terrore dell’apocalisse sia adesso l’inevitabile nota di fondo della vita quotidiana.
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La terza argomentazione si basa sull’effettiva, sebbene difficile da misurare, estensione dell’influenza dei suoi lavori. Stando al suo agente letterario, le opere di DeLillo sono attualmente disponibili in quarantatré lingue e/o stati. Un vero e proprio fenomeno globale. Azzarderei col dire che il devoto lettore di Bucarest, di Montevideo, di Riyad o di Seul, davanti ai testi di DeLillo, avrebbe una comprensione degli sconvolgimenti, delle contraddizioni e delle follie degli Stati Uniti uguale a quella dello studioso medio con un dottorato in American studies. E tali intuizioni sono state diramate per gentile concessione di un grande artista integralmente radicato in America. La consegna di un inestimabile messaggio contrastante. Per quanto incasinato, questo paese ha comunque creato un DeLillo in grado di comprenderlo e spiegarcelo.
Negli ambiti anglofono e americano, non esiste scrittore più illustre di DeLillo. L’elenco dei suoi ammiratori scomparsi annovera: Nelson Algren, John Updike, Norman Mailer, Gilbert Sorrentino, Harold Bloom, William Gaddis e Philip Roth, mentre tra quelli in vita appaiono personalità quali Paul Auster, Salman Rushdie, Joy Williams, Martin Amis, David Remnick e Joyce Carol Oates, ed è una lista più che parziale. Tra gli autori più giovani, che da lui hanno imparato importanti lezioni ci sono: Marlon James, Rachel Kushner, Dana Spiotta, Jonathan Franzen, Jennifer Egan, Richard Powers, William Vollmann, Joshua Ferris, Benjamin Kunkel, Rick Moody, Jonathan Lethem, e Garth Risk Hallberg. C’è poi il caso speciale del compianto David Foster Wallace, la cui lettura di Rumore bianco quando studiava all’Amherst College, gli scatenò dentro un miscuglio molto particolare di ammirazione e invidia che, probabilmente, innescò la sua ambizione di grandezza. Nel corso dei decenni, lui e DeLillo hanno portato avanti una corrispondenza contrassegnata da reverenza da parte di Wallace e saggia gentilezza e pazienza da parte di DeLillo. Il lavoro di Wallace è sostanzialmente impensabile senza l’esempio di DeLillo, a guidarlo e ispirarlo.
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E questo mi conduce al quarto e ultimo motivo per cui DeLillo dovrebbe vincere il Nobel: la dignità e la nobiltà che ha apportato alla sua vocazione di scrittore. Potrebbe essere rimasto l’ultimo uomo del tutto libero della letteratura americana. Cerca di evitare il più possibile i fardelli e le strategie della carriera letteraria postmoderna. Le sue apparenze pubbliche a letture e incontri sono rade e rare e, in genere, coincidono con le necessità e i desideri dei suoi editori, all’uscita di un nuovo libro. Protegge con zelo la sua vita privata dall’indiscreta stampa letteraria, ma i suoi conoscenti, agenti ed editori lo definiscono un uomo modesto e affabile, che per caso è anche un genio assoluto. Infatti, nel corso degli anni, ha concesso abbastanza interviste da poterne riempire un libro intero, e in queste interviste racconta la sua storia, le sue intenzioni e ossessioni di scrittore, le sue abitudini lavorative e, soprattutto, tratta del ruolo più ampio che ricopre lo scrittore nella nostra cultura, con spirito epigrammatico e dimessa eloquenza. Se il suo mantra ricorrente è il motto di Joyce “silenzio, esilio e astuzia”, Don DeLillo ha avuto cura di essere perfettamente compreso.
Per combinazione, nel 1997 ho condotto io una di quelle interviste per la Hungry Mind Review, in occasione della pubblicazione di Underworld. Ho scritto di come, nella sua opera, DeLillo abbia “costruito geografie sempre più conturbanti delle stranezze dell’America, catturando, grazie alla sua intelligenza inquieta, sottile e instancabile, le fluttuanti atmosfere di uno stato insicuro, a quanto pare, di ogni cosa, eccetto della sua stessa paura e incertezza”. Alla fine dell’intervista gli ho chiesto perché, paradossalmente, nelle sue stesse opere, la figura dello scrittore è spesso presentata come afflitta da una futilità e un’impotenza quasi comiche. Che è, secondo me, lontano dal modo in cui è considerato o dal modo in cui lui stesso si considera. La risposta di DeLillo è indimenticabile e vale la pena che la riporti: “Lo scrittore ha perso molta della sua influenza e adesso è situato, casomai, ai margini della cultura. Ma non è questo il posto che gli appartiene? Come potrebbe essere altrimenti? E, a mio personal parere, da qui si osserva perfettamente cosa succede nel punto morto delle cose… Non sono particolarmente turbato dallo stato della narrativa e dal ruolo dello scrittore. Più è marginale e forse più diventerà incisivo e attento, tanto che, alla fine, necessario lo diventerà davvero”.
Ventitré anni dopo, Don DeLillo è il più necessario degli autori americani e l’assegnazione del premio Nobel, a giusto riconoscimento di ciò, purtroppo si fa ancora attendere. Si suonino i clacson, rullino i tamburi, si dia inizio subito a questo dibattito. E non ci si fermi fino a quando la giustizia non sarà servita.
Gerald Howard
*Questo articolo è stato pubblicato in origine su “Bookforum”; la traduzione è di Valentina Gambino