04 Febbraio 2025

Alejandra Pizarnik o del naufragio tra le ombre

Un atto di giustizia, innanzitutto, com’è sempre quello di rendere onore alla verità. Andrea Ostrov, figlia di León, primo psicoterapeuta di Alejandra Piazarnik, ricostruisce le vicissitudini relative al carteggio negli anni tra il 1955 e il 1966 tra la poetessa e il padre, oggetto di altrui appropriazioni indebite. Edite da poco per Joker nella collana Memoria del viaggio, a cura di Antonio Di Gennaro e Monica Liberatore, ci offrono uno spaccato intimo di Alejandra, alle prese con la violenza irresistibile della disgregazione dell’io, alla radice dello svuotamento di immagini della sua parola poetica. Un supporto “nei momenti di angoscia e disperazione”; così va intesa la figura di León Ostrov, ben presto diventato amico della poetessa, nel solco dei comuni interessi letterari. La psicanalisi rimane una chiave di lettura privilegiata, da non intendersi solo e tanto come una pratica introspettiva volta ad esprimere ciò che si sente, ma vera e propria indagine del soggetto sul dipanarsi del suo cammino esistenziale cui la poetessa, con il suo carico di dolore fisico e psicologico, non si sottrae e affronta armata di una parola che non sempre le è amica. 

Le lettere di Alejandra, dalla prima all’ultima, disegnano un cerchio: dallo stupore di sapersi viva alla scoperta che la morte “è un’iniziazione all’effettivo regno dell’infanzia”. Nel mezzo, un meschino pessimismo che la trascina continuamente nel buco nero del rifiuto della vita, così sinistramente potente da portarla a chiedere al suo stesso sangue se ha ancora qualche possibilità. Alejandra che condivide la solitudine del mare e del sole; che partecipa “molto seriamente” al sogno delle sabbie, accarezza l’idea di smetterla con l’analisi: ma di quale io dovrebbe mai parlare, questo tremulo scoprirsi al mondo, in un esserci continuamente soppiantato da un altro io dalla vita più breve di una farfalla. E intanto, la corrispondenza non cessa affatto negli anni parigini, testimoni dei suoi eccessi tra fumo, alcol e soldi che mancano continuamente, ma di cui poco si cura. Fuori posto a Buenos Aires e fuori posto a Parigi; la parola delle lettere, è la stessa dei diari e della poesia. Un unico flusso creativo, tra estraneità e intimità con il linguaggio. In certi momenti ha più confidenza con il silenzio, sebbene ingaggi un corpo a corpo anche con lui, con una memoria e una coscienza perennemente in cocci. Per esempio, nella poesia dedicata a Cristina Campo – Anelli di cenere – scriverà: 

Una tribù di parole mutilate cerca 
asilo nella mia gola perché non cantino loro 

i funesti, i padroni del silenzio.

Pretende sempre troppo da sé stessa; costretta ad una drammatica guerra allo specchio davanti il quale è despota e vittima insieme. Sa di essere la sua invincibile nemica, anche per questo non si sottrae allo sforzo terribile di parlare di sé con Ostrov, ma forse capisce che più di una tregua armata, non riuscirà a raggiungere. La forma, in poesia, diventa un problema; del resto, le immagini, quando la catena del pensiero si spezza, fluttuano in modo disordinato nella sua mente e a niente vale l’ansia di afferrare le parole. Scrive infatti in una lettera (n.4) che, spesso è assalita dall’evidenza della sua malattia, della sua ferita; scrive di una notte tormentata più delle altre dalla paura di impazzire, a tal punto da inginocchiarsi e pregare “chiedendo di non essere esiliata da questo mondo che odio”.

Il nomadismo della parola, tra un genere e un altro, continuamente sottoposto a riscritture è la ricerca di trarre qualcosa – vita, salvezza – dalle miserie che la consumano. Sprofondare nelle estasi, renderle il corpo delle poesie, visto che il suo le restituisce da sempre un disagio fatto di asma, balbuzie e una leggera scoliosi, “infondendo alla poesia il mio soffio man mano che ogni lettera di ogni parola viene sacrificata nelle cerimonie del vivere”. Anche la sintassi va superata, perché il dire poi diventa sempre la trappola di sé stesso (“Non è questo quello che intendevo”, etc…) e allora il naufragio nelle ombre pare essere l’unico appiglio, ultimo e fatale esito, di un esilio esistenziale irrecuperabile; parola come l’eco che giunge da una lontananza che presto la chiamerà a sé.  

Livia Di Vona

Gruppo MAGOG