Nonostante le cupe atmosfere da terreo, eterno inverno, The Crow uscì in sala nel maggio del 1994. Il film diventò immediatamente ‘di culto’: celebrava l’amore oltre la morte, la speranza al di là dell’orrore, una vita nottambula. Fu il manifesto – a tinte manichee – del dark anni Novanta, una disperazione androgina, dal volto pitturato a pierrot, con i Cure in sottofondo, i Rage Against the Machine in endovena. A conferire al film – in verità, piuttosto didascalico – un crisma leggendario fu la morte, sul set, di Brandon Lee, tragica incarnazione del protagonista, Eric Draven. Quanto al regista, Alex Proyas, continuò ad approfondire il genere – senza deviare nei dintorni del capolavoro – con Dark City (1998) e Io, Robot (2004).
Il film, tratto dalla graphic novel di James O’Barr uscita nel 1988, racconta la storia di due fidanzati, Shelly e Eric, sul punto di sposarsi, violati, violentati e uccisi da una banda di criminali. Un anno dopo, per tramite di un corvo, Eric rinasce, facendo vendemmia di vendetta, con costume slabbrato e nero, in sinfonia di chitarre elettriche e pistolettate. L’atmosfera, naturalmente, è gotica; i caratteri sono binari: i buoni sono buoni, i cattivi sono cattivi. La fonte primaria del film – oltre ai generici arcangeli della decadenza dark, del sulfureo nichilismo, della disperanza – è Il Corvo, il poemetto di Edgar Allan Poe, dal ritmo ipnotico, dai toni enigmatici e tombali, con quell’inquieto gracchiare, Quoth the raven, “Nevermore”.
Perigli ornitologici del linguaggio. Il film di Proyas s’intitola The Crow, la poesia di Poe s’intitola The Raven; che differenza c’è tra corvo e corvo? Nella mitologia dei nativi americani, Corvo (tradotto come Raven) è il trickster, il mago degli imbrogli, il co-creatore, abile nell’arte retorica, custode dei segreti del primo giorno, capace nell’assumere ogni foggia, mediatore tra i vivi e i morti, tra i terrestri e i celesti. Il suo ruolo, nell’armamentario leggendario dei nativi, è pari a quello del Coyote. Tuttavia, gens du corbeau, genti del corvo, Crow, sono stati chiamati dai francesi gli Apsaroke. Per capire l’intelligenza del corvo bisogna leggere un libro di Bernd Heirich, La mente del corvo, stampa Adelphi. Tra Raven e Crow c’è la stessa differenza che passa tra corvo e cornacchia? Non lo so. Cornacchia, cornacula, vuol dire piccolo corvo; per capire il genio della cornacchia devo leggere un aforisma di Kafka (nella gabbia del suo nome, in effetti, è appollaiato un corvo): “Le cornacchie affermano che una sola cornacchia potrebbe distruggere il cielo. Questo è indubbio, ma non prova nulla contro il cielo, poiché i cieli significano appunto: impossibilità di cornacchie”.
La Bibbia è piena di corvi: “Dio li nutre” dice di loro Gesù (Lc 12, 24). Di “cornacchie fra il cielo e la terra” parla invece Baruc (6, 53), in modo sinistro, però: riferendosi agli idoli fasulli, agli “dèi bugiardi” forgiati “da artigiani e da orefici”. Il corvo che vuol farsi dio retrocede in cornacchia, il miraggio di un aquila, uccello che proclama e non mantiene; il corvo seguace di Dio viene da Lui nutrito. Le cornacchie sono gli uccelli più prossimi alla terra: al posto delle ali, sembrano avere delle zampe – sembrano rospi, gli anfibi del cielo.
Non credo che tra le fonti di The Crow ci sia Crow, il libro più bello e tumultuoso e complesso di Ted Hughes. Uscito per la Faber nel 1970, con la copertina disegnata da Leonard Baskin, è una specie di immane, polifonico, imperfetto poema sulla caduta dell’Occidente. Hughes adotta un linguaggio assertivo, scabro, violento, che mescola i miti dei nativi americani, le bibliche mattanze, i simboli della fiaba britannica. Il poeta giustificò le intenzioni di Crow così:
“…è la storia dell’Uomo Occidentale. È la storia della sua sempre più disperata ricerca di sicurezze meccaniche e razionali e simboliche, con cui sostituire la fiducia spirituale nella Natura che ha perso… Quando qualcosa abbandona la Natura o viene abbandonato dalla Natura, perde contatto con il creatore, ed è evoluzionisticamente un vicolo cieco. Da questo punto di vista, la nostra Civiltà è un errore evoluzionistico”.
Il ciclo di Crow inizia con una pistola (“Quando la bocca della pistola fu alzata”), su una pistola finisce (“…mantenne così pulita la sua coscienza che diventò nero// Più nero// della pupilla// di una canna di pistola”). Corvo è Edipo ed è Ulisse, è tirannosauro e King of Carrion (“Il suo palazzo è fatto di teschi.// La sua corona è fatta delle ultime schegge/ del vaso della vita.// Il suo trono è la forca delle ossa, l’ultimo letto di tortura dell’impiccato.// Il suo mantello è il nero dell’ultimo sangue”; cito sempre dalla traduzione di Nicola Gardini, in: Ted Hughes, Poesie, Mondadori, 2008), “era talmente più nero/ dell’ombra della luna/ da avere stelle”. Le Due canzoni eschimesi sono molto belle; in generale, lo sciamanico Hughes tenta parole rituali nell’era dal rito estratta, disfatta:
“L’uomo correva senza faccia sulla terra
Senza occhi e senza bocca a faccia nuda correvaSapeva di pestare la pietra della morte
Sapeva di essere un fantasma nient’altro sapeva”.
Difficile riprodurre in italiano l’anatomia della ballata, l’andatura di una lingua tutta tamburi e colpi di selce (“Il grido dell’uomo si fece più affilato. La neve più alta”).
“Il mio Corvo è stato creato dall’incubo di Dio”, tenta di spiegare Ted Hughes; il suo Corvo si esprime “in corvolingua – che è la lingua più bassa, più rozza, più semplice e più brutta che io riesca a immaginare”. L’euforia – la danza – durò qualche anno: le poesie sorgevano a fiumi nel corpo del poeta, pieno della sua kamlanie. Poteva domare i morti; poteva mutarsi in volpe. Ne uscì sconfitto. “La lunga bella saga è finita in un nulla di fatto”, scrive a Peter Redgrove. “Ci sono stati momenti in cui ho veramente avuto l’impressione che mi si aprissero le ossa”. Rimase in silenzio per un po’, il poeta: Cave Birds, la raccolta del 1975, varia sul tema; perduta è ormai la lingua ambigua e albina, di rovo e di rovina, di Crow.
D’altronde, era accaduto il massacro. Crow è la raccolta nata dopo la morte di Sylvia Plath, sotto l’aura di Assia Wevill, nata Gutmann, la bella (e triste) amante di Hughes. Il 3 marzo del 1965 avevano avuto una figlia, Alexandra Tatiana Elise, ‘Shura’, registrata sotto il nome del terzo marito di Assia, David Wevill. Preda di una depressione devastante, Assia si uccide poco dopo il compleanno della figlia, il 23 marzo del 1969. Si uccide a Londra, ossessionata dallo spettro di Sylvia Plath, dalle maldicenze della società dei letterati, dalla ciclopica figura di Ted. Si uccide in cucina, con il gas, portandosi con sé la figlioletta, ignara, ‘Shura’. I corpi di Assia e di ‘Shura’ vengono cremati; Ted Hughes sparge le ceneri in un luogo sconosciuto del Kent – di loro, a cui il poeta dedica Crow, per sempre si perdono le tracce. Una pietra ricorda il passaggio terreno di Assia e di una figlia senza carità, dal cognome falsato; a mo’ di epigrafe, la frase imposta da lei, Here Lies a Lover of Unreason and an Exile. Che l’amore sia sempre irragionevole.
Dopo la morte di Assia e della figlia, Ted Hughes acquista Lumb Bank, una grande casa nei pressi di Heptonstall, dove va ad abitare con i figli e la nuova compagna, Brenda Hedden. Poco lontano, nel cimitero del borgo, una lapide ricorda il nome di “Sylvia Plath Hughes”. L’anno dopo, Hughes sposa Carol Orchard, un’infermiera ventenne, “è molto giovane, non si interessa granché alla letteratura… è in parte zingara… l’ideale per me”, scrive a un amico, il poeta.
Questa è una storia in cui i corvi sono latori di morte; una storia in cui l’amore si compie nella vendetta e nella fuga. Il poeta – figura ambigua e transfuga, con il becco e le penne finanche intorno alla lingua – non può dare la vita ai morti, non può placare la loro ansia. Traffica con parole pari a un azzardo. Altri, più tardi, tornino al suo canto, ma con cautela. Proteggere, a volte, vuol dire arretrare, ammutinare. Alcune parole imbrogliano la sorte in una strettoia piena di trappole.