12 Luglio 2022

“Non sono diversa dalle altre donne...”. Gertrude Bell, la regina dei deserti

Gertrude Bell amava viaggiare da sola, in regni inospitali, cruenti, camuffandosi con le vesti dei beduini. Così, era riuscita a entrare nelle grazie dei Drusi, a emergere per audacia tra gli emiri, a scoprire rovine di chiese dissacrate, templi disossati, mutili, su cui albeggiava la polvere, il millenario obolo all’oblio. Nata nella contea di Durham da famiglia benestante – il nonno era magnate del ferro e imprenditore nel carbone – Gertrude Bell fece del Medio Oriente la propria liturgia privata: Aleppo, Alessandretta, Gerusalemme, Antiochia furono il suo salotto; preferiva le città perdute, i viaggi senza speranza, le avventure meridiane. Amava i deserti pietrificati e il loro contrappunto, le montagne, perché comunque di ascensione si tratta: tra il 1899 e il 1904 conquistò la Meije, il Monte Bianco e diverse cime dell’Oberland, inaugurando nuovi sentieri; nell’agosto del 1902 restò sospesa, in corda, sul Finsteraarhorn, falciata da una tempesta di grandine, per un giorno e mezzo: rischiò la vita e ciò la costrinse a riprendere a scalare con maggior vigore.

Non vide roveti ardenti, non descrisse trasfigurazioni, non aveva timore del digiuno, la paura, per lei, era un conforto, un eccitante. Stava a suo agio con le genti del deserto, irriconoscibile; quando i generali dell’impero britannico la convocavano per sapere qualcosa di quei mondi, pericolosi, fanatici, famelici, pura pupilla di un dio violento, lei si presentava ai party elegantissima. Nelle fotografie è spesso circondata da uomini in divisa: la sua bellezza è stranita, ostile. Di certo, destava timori. “Partita da Aleppo, sola, fece un viaggio lungo il medio Eufrate e per il paese malsicuro di Deleim, fino al castello di Ukhaidir, rudero imponente in mezzo al deserto; poi, per Kerbela e Babilonia si recò a Baghdād, proseguendo l’esplorazione dei monumenti architettonici nell’alta valle del Tigri, e nella regione curda di Tur Abelin” (Filippo De Filippi).

Conobbe T.E. Lawrence a Karkemiš, in Siria, nel 1910, mentre scavava per conto del British Museum; lei vagava da tre anni lungo l’Eufrate, impegnata a disseppellire lacerti di civiltà millenarie. Parlarono degli Ittiti, intuì, in Lawrence, l’ansia del mitomane, l’entusiasmo della falena, dell’eroe nottambulo. Ingabbiati dalle spire tentacolari dell’Impero britannico, che li arruolò, entrambi, nell’intelligence, durante la Prima guerra, agirono in Arabia, Palestina, Siria – Lawrence –, in Persia – la Bell. Indifferenti alle mire coloniali inglesi, fautori di un governo dei popoli, indipendenti, entrambi uscirono dal groviglio della guerra traditi, sconfitti, infelici. Lawrence divenne un’icona, e sparì; Gertrude lavorò con energia da ossessa, praticando la via di un inquietante martirio, col contrappunto di ambizioni contraddittorie. Entrambi venivano da Oxford – la Bell con un carnet di risultati ben più eccellenti di Lawrence –, entrambi amavano i classici, tradotti con sapienza extracanonica: Lawrence scoprì l’Odissea durante la missione (specchio di un esilio interiore) in Pakistan; il primo lavoro di Gertrude Bell è la traduzione dei Poems from the Divan of Hafiz (1897), il poeta più importante della letteratura persiana. Il lavoro, miliare – di cui forniamo in questa pagina alcuni esempi –, ha interessi stratificati: Gertrude Bell descrive la sapienza del sommo Hāfez rispecchiando la propria:

“È inutile interpretare la poesia di Hāfez come totalmente mistica o compiutamente logica. Egli ha scritto del mondo come lo vedeva. Nella sua esperienza privata, il piacere e la religione, l’eros e la preghiera sono i motivi principali di ogni azione umana; non ignorò né l’uno né l’altra. Dal nostro punto di vista, occidentale, la sua filosofia pare essere questa: di nulla siamo certi se non del desiderio. Ciascuno si metterà alla cerca del proprio oggetto del desiderio in modo diverso; ricerca infinita, impossibile; fatica non priva di compensi lungo la via, comunque. D’altronde, Chi può sondare i segreti del velo? Come molti saggi, avventati e coraggiosi, anche io credo, inseguendo il poeta, che bisogna fidarsi sbadatamente della speranza più vasta”.

Considerata alla stregua di un genio, figura priva di epigoni, ha scritto diversi libri – The Desert and the Sown; Mountains of the Servants of God; Amurath to Amurath – pubblicati, in Italia, da rari editori, senza troppo clamore (da Elliot e da Nuova Editrice Berti). Di recente, Penguin ha pubblicato un repertorio degli scritti di Gertrude Bell come A Woman in Arabia. The Writings of the Queen of the Desert, sulla scia del film di Werner Herzog, Queen of the Desert (2015), con Nicole Kidman: che sia il suo più brutto, qui, poco importa. Piuttosto, uno dei libri più estremi di Gian Ruggero Manzoni, Ultramodum, cresce sotto la tutela di Gertrude Bell. Di lei, Manzoni, esecutore di esoterismo, disse così:

“La Bell faceva parte di una famiglia altolocata, era, stupendamente, di un antifemminismo viscerale, nonché contraria al voto alle donne, infatti, da misogina, era convinta che nessuna femmina fosse all’altezza di un maschio… nessuna donna, ovviamente eccetto lei… inoltre eccelleva in tutto, salvo che in simpatia. Agli occhi di parenti e amici era un’intellettuale snob, molto selettiva, molto elitaria, dotata di un’autostima esagerata e di un’alterigia che scoraggiava i corteggiatori, e i pochi che resistevano a quel suo mirabile carattere venivano respinti, bollati come noiosi e superficiali. Cavalcava come un uomo, vestita con kefiah e soprabito, portava la pistola nella fondina ascellare e i berberi, una volta da lei raggiunti l’Africa e il Medio Oriente, la chiamavano, con deferenza, “El Khatun”, cioè “La Signora”. Il grande successo della Bell fu però la creazione, a tavolino, dell’Iraq. Quando la Prima Guerra Mondiale finì, prese penna, calamaio, squadra e riga, fu proprio Gertrude a tracciare i confini di uno Stato che prima non c’era, sostenendo gli interessi dell’Inghilterra. Divenuta direttrice del Museo Archeologico di Baghdad, una sera, tre giorni prima del suo cinquantottesimo compleanno, ingurgitata una forte dose di sonniferi tracannati con del brandy, si addormentò, per non svegliarsi più. I funerali si svolsero alla presenza di una folla immensa. Il rapporto compilato dalle autorità parlò di morte per cause naturali, ma le ultime lettere di Gertrude testimoniano la sconcertante depressione che l’aveva catturata. Era stata messa da parte dopo essere stata usata, e per una come lei non fu possibile accettarlo”.

Non si è sposata, non ha avuto figli, Gertrude Bell; non desertificò le proprie relazioni, epiche, come candele nella notte. Le lettere – pubblicate, in parte, insieme ai diari, dal “Gertrude Bell Archive” della Newcastle University – testimoniano amori in dissolvenza, arditi, per lo più epistolari. Più di tutti, la Bell amò il colonnello Charles Doughty-Wylie, forse perché tutto li divideva. Quando gli scrisse questa lettera – in verità, lunghissima – aveva da poco attraversato, da sola, il deserto del Nefud, è il 24 marzo del 1914:

“Cuore del mio cuore, le tue lettere, otto, dilagano nella mia anima, parola per parola. Una donna ha mai ricevuto parole simili dacché il mondo è stato creato? Mi bloccano le lacrime, l’amarezza cede allo stupore, alla gioia – desisto dall’annoiato desiderio umano per la verità autentica, preferisco l’autentico fischio dei fantasmi, il rischio dei sogni. Oggi mi sono chiesta se abbia ancora senso andare fino in fondo, fondere la propria anima in quella di un altro. Ti ho incontrato venendo dal deserto; nelle settimane in cui non potevo scriverti, il pensiero di te giaceva nelle segrete della mia mente, coperto dalle sabbie d’Arabia… Mi sono svegliata prima dell’alba, un’abitudine rinforzata dall’emozione di leggerti. Ho acceso la lampada, ti leggo. Le campane di una chiesa – credo che diventerò cristiana grazie a te, per praticare una via in cui passione e devozione abbiano la stessa entità. Eppure, sei tu la mia sponda, il mio paradiso. L’alba rosata tocca le palme del Tigri. Non sono diversa da ogni altra donna, non sono migliore né più saggia, non sono meno buona né meno saggia di altre. Ma sono la donna per te, come tu sei l’uomo per me… e quando il mio desiderio si muta in progetti meschini, crudi rancori, rabbie incrociate, soffialo via da te, salvami, confortami, annienta le lamentele meschine, come i mondi imperfetti vengono sbriciolati dal respiro di Dio”.

La tenerezza e l’abbandono sono oro per chi ha abbandonato tutto. Spoglia di tutto, Gertrude non riuscì più a ricucire il divario tra deserto e mondo, rigore e macchinazione, velo e menzogna. Morì il 12 luglio del 1926; il suo amato Charles era morto a Gallipoli, nell’aprile del 1915, dopo aver condotto un’offensiva presso Capo Helles: l’impresa riuscì, un cecchino gli fracassò il viso.

*

Poems from the Divan of Hafiz by Gertrude Lowthian Bell

Destati, Coppiere, sorgi! Porta
alle labbra sfrangiate dalla sete la tazza
che anelano: sembrava cosa facile amare
ma i piedi hanno incrociato vie selvagge.
Ho pregato il vento di spargere il mio cuore
tra la fragranza del suo volto, mentre dorme,
notte intinta di capelli, ma nessun profumo
permane e lacrima sangue il mio cuore contrito.

Ascolta l’Oste che smercia consigli:
“Con il vino, rosso vino, inebria la preghiera
e il suo tappeto”. Non esiste viaggiatore
più esperto: egli conosce la via e la locanda.
Dove troverò rifugio, mentre la notte tintinna
quieta, Cuore del mio cuore…
Le campane dei cammelli gridano:
“Aggioga il tuo fardello e vattene!”.

Le onde corrono alte, la notte è fosca di paura,
mulinelli vorticosi ruggiscono; la mia voce
da annegato quali navi, leggere come
orecchie, riuscirà a sedurre?
Ho cercato me stesso, un nesso; gli anni crudeli
mi hanno ricambiato con un nome
senza onori. Nessuna tonaca sa celare
la mia miseria; le chiacchiere raspano
nei meandri della mia vergogna.
Oh Hafiz, la lotta non ha mai fine,
ricorda ciò che tramandano i sapienti:
“Se, infine, ottieni ciò che hai desiderato,
fuggi dal mondo, già, abbandonalo!”.

*

Vento dell’Est, Pavoncella del giorno,
ti mando dalla mia Signora, lontana è la via
per Saba, dove ti impongo di andare;
la polvere non inaridisca le tue ali indomate,
ramato dal dolore, ti invio al nido,
Fedeltà.

Vicino, lontano: non c’è sosta
sulla via dell’Amore assente; vedo il tuo viso
sul carro i miei richiami li divora il vento:
ogni mattina, convogli di auguri, in piena festa
ti spedisco.

Straniero ai miei occhi, tu sei,
amico sempre presente nel cuore,
sussurro gonfio di preghiere, lodi intense,
ti spedisco.

Che le armate del Dolore non domino il mio cuore,
ti dono la vita perché consegua la pace
sono io il tuo riscatto! Da questo canto impara
che piange e brucia chi ti desidera
sonetti e verbi spaccati, canzoni, dolcezze impari
ti spedisco.

Dammi la coppa! Un voce si eleva dai carri
cupo lamento: “Sopporta ogni amarezza
sopra ogni male mando grazia celeste.
Dio il Creatore si specchia nel tuo viso
tu vedrai l’immagine di Dio nel vetro che
ti spedisco.

Hafiz, lode solitaria cantano:
affrettati, uomo di dolori!
Onori e un destriero ben bardato
ti spedisco”.

*

Il vero amore è sparito dai cuori;
cosa è accaduto agli amanti felici?
Quando si sono sciolti i legami?
Che fine hanno fatto gli amici?
Perché i piedi di Khizr indugiano?
Le acque della vita sono torbide,
la rosa purpurea è impallidita di terrore,
cosa è successo al vento di primavera?

Nessuno dice, ancora: “Mio era l’amore
leale e saggio, per dissipare i timori”.
Nessuno ricorda la legge divina dell’amore;
cosa è accaduto agli amanti felici?
In mezzo al campo, tra i piedi degli atleti
giunse la misericordia di Dio: ma nessuno
si è fatto avanti per ricominciare il gioco:
cosa è successo a quella massa di cavalieri?

Le rose sbocciano, nessun uccello ne gioisce
nessuna gola vibra nel racconto;
chi può mettere a tacere le cento voci?
Che fine ha fatto l’usignolo?
La musica del paradiso si è attutita, i pianeti
rotolano in silenzio, Zhora ha rotto il liuto.
Nessuno spreme il frutto dalla vite
la ciotola piena di spuma è sparita.

Una città in cui si incoronano gli amanti
un paese in cui l’amicizia si consolida sulla polvere:
chi ha devastato quell’epoca incantata?
Dov’è ora la metropoli degli amanti?
Anni sono passati da quando il rubino
è stato estratto dalla miniera della virilità:
fatica vana, divelta dalla pioggia, ma cosa
è accaduto alla luce del sole?

Hafiz, nessuno conosce i piani di Dio
il terribile, né quali compiti assegni
alla gioventù e alla vecchiaia, eppure
ti chiedi: cosa è successo alle ruote del Tempo?

*Le poesie di Hāfez nella versione di Gertrude Bell saranno pubblicate dalle edizioni Pangea / Magog

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