Claudia potrebbe essere mia madre. L’anno di nascita è lo stesso. E, in parte, anche il loro percorso di vita: sono state colleghe, nel periodo della scuola infermieristica, per un anno. Poi, Claudia è rimasta incinta e ha lasciato. Adesso, ha cinque figlie. La prima partorita a diciannove anni – ora madre anche lei – e l’ultima nemmeno dieci anni fa.
Tutte insieme vivono a Fiumicino, in una casa molto grande. Le pareti, come in certi sogni, sono pitturate di un rosa in alcuni punti così sfumato da sembrare bianco. Il marito di Claudia è morto nel 2013.
Claudia: Dopo la nascita di Nadia (l’ultima figlia, ndr.) mio marito si è distaccato completamente, non si trovava più insieme a noi. Glielo leggevamo in faccia in ogni cosa che diceva. Era sempre meno presente. Rimaneva a lavorare fino a tardi, nonostante non fosse necessario. Desiderava almeno un figlio maschio – e così, alla quinta femmina, qualcosa dentro di lui si è rotto. Sembrava non avesse più nulla da dirci, da condividere. La mattina usciva senza salutarci e la sera tornava dopo che avevamo cenato.
GG: Voi come avete reagito al suo distacco? Come vi siete comportate nei suoi confronti?
Claudia: Come si comporterebbe qualunque famiglia: standogli vicino. Ma più vicino gli stavamo, più lui si scansava. Non c’era verso di instaurare un dialogo che andasse oltre le necessità elementari. Lo avessi mai visto fare un gesto di tenerezza nei confronti di Nadia. Sì, chiaro, le preparava la pappa quando c’era da farlo. Poteva cambiarle il pannolino o farle il bagno. Ma… hai presente un automa? Uguale. Alla fine è stato inevitabile: lui si è isolato e noi ci siamo unite. Non contro di lui, sia chiaro. Ma, se c’è una perdita, si cerca sempre di compensarla in qualche modo, di riempirla, no? È umano.
GG: Com’è morto, tuo marito?
Claudia: Una stupidaggine. È caduto dalla scala, mentre puliva la grondaia, e si è rotto l’osso del collo. È stata Nadia a correre dentro casa e ad avvisarmi, pensa. Quando tu dici il destino… Posso dire una cosa, senza che mi giudichi?
GG: Certo, vai.
Claudia: Lo so che è brutto da dire. Però è stata quasi…
GG: …una liberazione?
Claudia: Ecco. Non volevo dirlo. Però sì, una liberazione.
GG: Una liberazione per lui, dici?
Claudia: (ride) Sì, immagino soprattutto per lui. Mai visto qualcuno di così infelice come mio marito negli ultimi anni.
GG: Non avete mai pensato di separarvi?
Claudia: Lui sì, molto probabilmente.
GG: Tu?
Claudia: Io no. Ero già ammalata, quando lui ha iniziato ad alienarsi. Non avrei avuto le forze per una separazione.
GG: Come l’ha presa la tua malattia, lui?
Claudia: Se possibile, si è allontanato ancora di più. Comprava i farmaci. Mi accompagnava dal medico, quando non doveva lavorare. Si era anche trasferito dal letto al divano, dicendo che ognuno sarebbe stato più comodo con i propri spazi. Diceva che tanto ci saremmo visti di giorno. Tutto qui. Però, nessuna dimostrazione di amore o di vicinanza. Mi guardava in silenzio e col silenzio quasi mi faceva… come posso dire… mi faceva pesare la malattia come una colpa, un ulteriore fastidio per lui. Un pomeriggio l’ho trovato in bagno che piangeva. Ma piangeva per se stesso, che ti credi, mica per me. Magari, a chiederglielo, nemmeno avrebbe saputo dire agli altri del mio cancro: “Mia moglie? Sì, ha qualcosa dentro. Dove? Boh. Dentro. Che cambia il dove?”.
GG: Va beh, alla fine tutto il corpo è paese.
Claudia scoppia a ridere. E guardarla ridere è bello, perché ridendo si copre sempre la bocca, timida, e a me ricorda una bambina. E quasi la abbraccerei. Solo per ricordare tutta la vita in queste pareti rosa e l’odore del suo pigiama appena lavato. Lavanda, credo.
GG: Porti molto rancore a tuo marito, almeno sembra.
Claudia: No, proprio rancore no. Guarda: lì tengo pure la foto del nostro matrimonio. Se ripenso al suo comportamento degli ultimi anni, mi viene rabbia. Perché ti dici: “Ma possibile che, con tutta questa vita, un uomo debba chiudersi così tanto da rovinare qualcosa di bellissimo?”.
Claudia non vuole continuare a parlare della sua malattia. “Sono piena di metastasi”, mi dice. “Adesso ho l’impressione di avere il cancro ovunque. La notte mi sveglio di soprassalto e sento qualcosa pulsarmi dentro, un secondo, un terzo cuore. Non è così, non sta pulsando niente. Ma la notte…”
Claudia: Non è bello sbandierare ai quattro venti la propria condizione di malati. La malattia ti marchia, inevitabilmente. Lo capisci da come ti trattano gli altri, da come cercano di aiutarti anche quando di un aiuto non c’è bisogno. Inizi a fare pena, sei un diverso. Me ne accorgo con le mie figlie. Loro si sforzano di comportarsi come nulla fosse. Però certe gentilezze non posso non notarle, certe attenzioni. Le mie figlie fanno i turni per accompagnarmi all’ospedale. Marta e Giulia si prendono due giorni a settimana dal lavoro. E pensa che le assenze non gliele pagano. Nemmeno per malattia. Un giorno di lavoro mancato sono trenta euro in meno. Adesso che Marta si è pure separata…
GG: Nessun altro può accompagnarti?
Claudia: E chi? Te l’ho detto. I problemi non si devono raccontare troppo in giro. Agli altri parenti non ho detto nulla. Le uniche persone a sapere della malattia sono i medici, le mie figlie e i ragazzi dell’Associazione che mi aiutano. Infatti ti chiedo di non mettere nemmeno il mio nome nell’intervista. Sostituiscilo con uno di fantasia. Non devo essere io, questa.
GG: Va bene, ma se posso chiedertelo, di cosa ti vergogni?
Claudia: Io? Di niente.
GG: E allora? Che ti importa.
Claudia: Non voglio che si sappia in giro della mia malattia. Sapere che a Claudia resta uno sputo da vivere non serve a nessuno. Nemmeno a me serviva saperlo. I medici non avrebbero dovuto dirmelo. Perché poi, una volta che lo sai, vivi di conseguenza. Per esempio, ti piace un vestito e vorresti comprartelo. Però poi pensi che non riusciresti a godertelo abbastanza, per cui a che ti serve? Dovremmo parlare soltanto del bene. C’è già abbastanza male in giro, già abbastanza tristezza. La mia che cosa aggiunge?
GG: Magari nulla. Ma è una testimonianza importante.
Claudia: Bah. Raccontare la fine di una vita è perdere tempo, per come la vedo io. Piuttosto, sarebbe bello intervistare delle ragazze incinte o dei giovani padri. O intervistare dei bambini, ti immagini che bello? Chiedere a coppie di ragazzi cos’è l’amore per loro, cos’è la vita. Ci manca solo che uno si metta a scrivere della morte. La morte la conosceremo tutti, non serve raccontarla o farla vedere. Quanti possono dire di aver conosciuto l’amore? Per morire c’è sempre tempo. Per la vita no. E lo realizzi quando arrivi a contare persino i respiri che fai.
GG: Se la vedi così perché hai accettato di farti intervistare da me?
Claudia non mi risponde, mugugna qualcosa sottovoce. “Ho male qui,” mi dice indicando un punto sotto lo stomaco. Le consiglio di sdraiarsi a pancia in giù, poi realizzo la flebo.
Le sto per proporre un massaggio, ma lei mi anticipa. Al tatto, è più soda di quanto pensassi.
“Non sono cicciona. Solo gonfia. Stringi, pizzica. Vedi? Non è grasso.”
Claudia: La verità è che noi malati ingombriamo soltanto. Non serviamo a noi stessi e non serviamo a chi ci sta intorno. Sai che dovrebbero fare, i potenti? Costruire dei palazzi fuori città soltanto per noi malati senza recupero. Lontani dai familiari, dagli amici. Come se fossimo già morti. Ognuno di noi avrebbe la sua stanza con ogni comodità, luminosa e confortevole. Però, niente visite di parenti o amici, proibito. Nessuno. Solo qualche medico per gli antidolorifici, quando il dolore diventa proprio insopportabile. Per il resto si sta tra di noi, ci si tiene compagnia secondo le possibilità di ciascuno. I nostri parenti continuerebbero a vivere la loro vita e noi smetteremmo di essere a carico loro.
GG: Una specie di ghetto.
Claudia: Io lo vedo più come un centro di aggregazione.
GG: Se fossi un malato all’ultimo stadio, non accetterei mai di stare rinchiuso in un posto simile.
Claudia: Arriva alla mia condizione e poi ne riparliamo, Gabri.
GG: Perché, tu accetteresti di stare lontana dalle tue figlie? Accetteresti la condizione di non vederle più?
Claudia: Sì. Le mie figlie sono tutto per me e io, senza essere presuntuosa, sono tutto per le mie figlie. Ma in questo stato non ha senso continuare a stare loro vicina. Non posso aiutarle, non posso dar loro conforto in nulla. E una mamma che non aiuta e non conforta le sue figlie che mamma è?
GG: Una mamma che ha bisogno di sostegno. La stessa mamma che le ha aiutate e confortate in periodi più felici.
Claudia: Le mamme non hanno bisogno di alcun sostegno. Ecco perché non tutte le donne possono essere o dirsi mamme. Quando una mamma non può più aiutare i suoi cuccioli, muore. Ha terminato il suo compito. E a me sembra giusto. Solo che non capisco tutta questa attesa.
GG: E per i papà vale la stessa cosa?
Claudia: Identica. Pensa a mio marito.
Gabriele Galloni