“Ho voluto essere libertina”. Banine, esteta della dissipazione
Letterature
Fabrizia Sabbatini
Di Cristina Campo contemplo l’abisso che protegge i suoi forzieri. Mi faccio piccolo, prono come un guscio, di fronte alla sua bellezza. Di quel leggendario silenzio ne invidio la potenza. Campo è il regalo più bello che la letteratura italiana potesse farci. Le sue poesie andrebbero studiate a memoria. I suoi saggi dovrebbero essere fotografati come reliquie. Le sue lettere, custodite e protette come diamanti nelle celle di alveari dorati.
C’è un rispetto profondo, che provo, ogni volta che parlo e scrivo di lei. Dacché ne avverto la serietà, la coerenza nella vita, la scelta di stile e di pensiero. La Campo era un cristallo. Così gracile, da potersi infrangere all’istante. Eppure, checché se ne dica, Dio sceglie sempre i più fragili per fare cose grandi. Lei ci ha donato versi e riflessioni appartenenti a un mondo che non era il nostro, ma comunque compenetrato ad esso. Sembrava voler dirci sempre addio. Presente in un’assenza non facile da cogliere. Proprio per questo, voce sempre attesa e potente.
Come mai, allora, si parla sempre poco di lei? Perché la letteratura sembra essersi dimenticata di una delle più grandi voci italiane di sempre?
Campo è la furia dei suoi silenzi. Ma non può averne pagato lo scotto. Semmai la coerenza ricercata in una fede mistico-bizantina, probabilmente. Non sbagliava un colpo. Non rilasciava interviste. Le sue parole ‒ scritte o dette ‒ colmavano il vuoto dei suoi interlocutori.
I suoi versi potrebbero assomigliare a preghiere, a salmi antichi; a favole alle quali bisogna incondizionatamente ritornare, forse sospinti dal flebile richiamo di un flauto.
Di Cristina Campo non posso non ricordare il fatto che lavorasse anche quando era costretta a letto dalla malattia. Indice assolutamente di devozione verso quel mestiere di scrivere, che andava ben oltre il timbrare un cartellino. Le sue parole erano ricercate. Dovevano essere perfette. Indissolubili dall’assoluto. Di lei bisogna stimare le traduzioni: traduttrice pure del sacro, e di quei corpi e riti mistici che presentiva scomparire dal quotidiano moderno.
Il voler pubblicare il meno possibile, non la esentava dal costruire il suo proprio personale giardino. Ogni poeta ne ha uno. E se ne cura come se fosse ciò a cui si tiene maggiormente. Era donna discreta, tanto quanto la ricercatezza delle sue perfette parole.
Non credo che la ricerca ossessiva di questa perfezione l’abbia penalizzata. Piuttosto, occorrerebbe guardare alla sua intera opera come a una primizia, a un dono di natura. Del suo giardino Cristina era il fiore migliore, prodigio di dischiusi turbamenti. Forse scrivere per lei era come pregare. Era quel rito ritrovato da osservare nella clausura dell’anima. Probabilmente il suo dedalo possedeva richiami ben precisi e un unico “filo di sangue” da seguire. Un filo al quale dedicare tutta la sua obbedienza: quell’aristocrazia della forma, emblema di bellezza e silenzi.
Campo compenetrava e si faceva compenetrare dai mondi, pur allontanandosene. Aveva compreso che la poesia e la scrittura erano la sua salvezza. Una salvezza feroce da contrapporre al mutismo parassita del suo tempo.
Tutto porta dunque a un’unica salvezza, a un’unica condanna. Quell’esilio post-mortem che dovremmo avere il coraggio di rompere. Per portare a conoscenza di tutti una donna, una poetessa dalla lingua raffinata e sopraffina, che ha scardinato i canoni per crearne di nuovi. Puntando tutto sul sacro. Avendo il coraggio e la ferocia di dire al mondo: «…ricordati che hai un’anima, e un’anima può tutto». Quasi come a dire che chi ha un destinatario, condivide un destino.
Giorgio Anelli