È facile immaginare che la letteratura sia altrettanto crudele in America come in Italia. Chi emerge e chi sprofonda nel gorgo della storia, senza che riconoscimenti e condanne siano necessariamente fondati. L’ultima consolazione che resta è la possibilità della riscoperta, il salvataggio eroico da parte di chi sente di non potersi limitare a quel che gli viene proposto dal mercato.
Se c’è un autore che, pur non essendo esattamente scomparso, non ha forse avuto il seguito che avrebbe meritato, questo è Andre Dubus. Fortunatamente oltreoceano si è da poco dato inizio a una ristampa integrale della sua produzione – tutti racconti, eccezion fatta per un romanzo –, preceduti in ogni volume da una prefazione d’eccellenza. Eppure dai suoi testi sono stati tratti anche dei film, produzioni importanti, e lo scrittore in questione non ha niente da invidiare a Raymond Carver come qualità della prosa e capacità di guardare al cuore della realtà intorno a sé.
Nel disperato tentativo di imprimere una svolta e suscitare un maggiore interesse nel pubblico italiano, siamo andati a sentire Nicola Manuppelli, che in Italia rappresenta per Dubus quel che Riccardo Duranti è stato per Carver, ovvero il suo traduttore e massimo estimatore. Manuppelli ha scoperto e proposto l’opera dell’americano all’editore Mattioli 1885 – un editore eccellente sotto tutti i punti di vista – e questo ha raccolto la sfida. Speriamo che il lettore, per ciò che gli concerne, voglia fare altrettanto.
C’è qualcosa che, a tuo avviso, è fondamentale conoscere della vita di questo scrittore per comprenderne l’opera?
Ci sono un paio di cose interessanti che non si possono ignorare. La prima è che Dubus è principalmente un autore di racconti. Scrisse un solo romanzo. Questa scelta gli è costata a livello economico, perché molti editori avrebbero voluto pubblicargliene uno – dato che i racconti, come si sa, vendono meno – e lo pressavano continuamente affinché accettasse. Ma lui, dopo una prima esperienza, si è sempre rifiutato, un po’ perché i suoi miti letterari, per esempio Cechov, l’avevano convinto della superiorità del racconto e più di tutto perché questa era la sua forma ideale. C’è anche da sottolineare che l’autore è sempre rimasto fuori da un certo mondo editoriale, perché rifiutava le inevitabili correzioni che le riviste come il “New Yorker” avrebbero voluto apportare ai suoi scritti. Preferiva essere libero e guadagnare da altro. Si tratta di una scelta profondamente diversa rispetto a quella fatta, per esempio, da Salinger e Carver che invece tolleravano queste condizioni pur di vendere e vedersi pubblicare. L’altro aspetto importante da conoscere, in merito alla vita di Dubus, riguarda la sua provenienza. I racconti hanno nel settanta percento dei casi il Massachusetts, Boston e zone limitrofe, come ambientazione. Ma lui non è nato da quelle parti, vi si è semplicemente trasferito, essendo originario della Louisiana. Si tratta quindi di un autore del sud e ciò si evince dall’uso poetico di certe immagini, come per alcune questioni che ogni tanto emergono sottotraccia nella sua narrativa, quali ad esempio quella razziale. La sua origine gli conferisce una voce potente, molto diversa da quella degli autori un po’ standardizzati legati al mondo cittadino, per esempio quello newyorkese. Biograficamente è interessante anche che lui abbia frequentato per un certo periodo il corso di scrittura creativa nell’Iowa che, con Stanford, è uno dei due poli più importanti. Qui stringerà delle amicizie letterarie fondamentali: la prima è con Doctorow, la persona che lo aiuta a pubblicare il suo primo romanzo; poi quella con Richard Yates, con cui si ruberanno a vicenda la donna pur restando comunque vicini; Kurt Vonnegut, James Baldwin e James Crumley. Dubus è sempre stato circondato da scrittori, questo è bene sottolinearlo, sia a livello di amicizie che in famiglia. Non possiamo dimenticare che suo figlio per esempio, Andre Dubus III, è a sua volta un autore (lo ricordiamo, in particolare, per La casa di sabbia e nebbia). E, tanto per citare un altro nome, suo cugino è James Lee Burke – la cui figlia, Alafair Burke, è a sua volta una scrittrice di discreto successo. Ci sono inoltre gli allievi: Peter Horner, o Dennis Lehane (quello di Mystic River), che è stato tra i suoi preferiti, e ha dedicato il noto Pioggia Nera proprio a Dubus, nell’anno della sua morte. Personalmente, a ogni modo, quando io l’ho scelto e l’ho proposto agli editori, l’ho fatto malgrado in quel periodo ci fosse una moda minimalista. Mi piaceva che Dubus fosse invece un autore massimalista, capace, partendo da un piccolo particolare, di scavare nei suoi personaggi senza risparmio.
Come dobbiamo considerare Dubus in rapporto alla narrativa americana, quale un suo massimo rappresentante?
La sua posizione è quella di un outsider ma, se parliamo del racconto, Dubus è certo uno dei più grandi.
Volevo chiederti, però, come l’America percepisce questo autore, per esempio rispetto a certi nomi più noti da Hemingway a Carver. Lo vede in linea con la sua grande tradizione?
Assolutamente. Nelle antologie che contemplano il meglio del racconto americano, Dubus c’è sempre. Anzi, probabilmente, non essendo stato legato alle mode, è un autore che resisterà più a lungo nel tempo rispetto, per esempio, a un Carver.
Tu hai definito Dubus come “uno scrittore per gli scrittori”. Potresti esplicitare meglio questo concetto?
Biograficamente non ci sono dubbi su questo punto. La sua bravura era riconosciuta soprattutto all’interno della cerchia degli scrittori ed è sempre stato un riferimento per tanti di loro. In media è infatti più conosciuto tra questi che tra il pubblico. Credo che in tutto ciò pesi anche la questione tecnica che, ovviamente, chi scrive è maggiormente portato a considerare. I suoi racconti sono spesso molto lunghi, appartenenti quindi al genere della novella, e presentano una tecnica peculiare basata su una continua apertura, un ingresso nel personaggio, a livello di pancia, che è straordinaria. Qui ti parlo non più come traduttore, ma come autore io stesso di romanzi: lavorare su Dubus significa confrontarsi con una lezione fondamentale per uno scrittore, ovvero quella secondo cui, come disse in una sua intervista, “il mio principio estetico è l’assoluta onestà”. Lui era un autore molto coraggioso e, soprattutto, capace di infondere coraggio. Inoltre spesso nei suoi racconti, non tanto spesso come in King – un altro suo ammiratore –, Dubus parla di scrittori, descrive il mestiere, suggerisce menzionandole delle letture. E, anche quando parla di questa attività, lo fa in modo molto onesto, condannando i vezzi, i tic di quelli come lui.
Un’altra delle definizioni che tu dai di Dubus è quella di “scrittore di storie di solito poco narrate”. Cosa sono le storie poco narrate?
Prendiamo la letteratura minimalista, o un certo tipo di letteratura cool. In essa vi è di solito un personaggio così particolare da risultare quasi un effetto speciale. Oppure, abbiamo la letteratura di genere – come per esempio quella di Stephen King, che pure ha molti aspetti popolari. I minimalisti spesso si vanno a rifugiare in situazioni alto borghesi, alla ricerca di un personaggio o una situazione extravagante, eccezionale. Se scrivo di una modella vegana – figura già di per sé piuttosto singolare –, ti parlo di qualcosa di patinato per dir così. Quando si scende nelle situazioni più comuni, c’è invece il terrore in alcuni di non riuscire a mettere insieme una storia, qualcosa che catturi. Al contrario, la vecchia letteratura in America ricercava proprio questo, almeno quella veramente popolare. Dubus per me è un autore di questo tipo: racconta cose semplici, scava nelle vite dei suoi personaggi alla ricerca di un senso. Il suo principio non è di scegliere quelle più particolari, perché le vite normali sono già di per sé speciali.
Perché la preferenza del racconto rispetto al romanzo? Cosa lo convinceva maggiormente di questa forma?
Dubus è capace, per raccontare una semplice giornata o esaurire un breve momento, di usare anche quaranta pagine. Per una vita non gliene sarebbero bastate ottocento. Ma al di là del numero di pagine, il racconto gli permette di analizzare le piccole cose o determinate situazioni con una tecnica che definirei fotografica. È proprio come se si trovasse di fronte a un’immagine e si interrogasse sui dettagli, sulle storie che vi sono celate dietro. Un romanzo, come sappiamo, implica invece una visione molto più filmica.
Quali sono le peculiarità stilistiche di questo autore?
Sicuramente i paragrafi segnati da queste costanti aperture, un continuo accavallarsi di immagini per poi tornare, magari a distanza di poco, a quella iniziale, come in una matrioska narrativa. Un lavoro sul tempo che non è basato su concetti astratti, ma segue il principio che un secondo di storia ne può contenere tanti altri. A saltare subito all’occhio vi è inoltre la particolare empatia con i personaggi. Vedi il racconto Il padre d’inverno, in cui un genitore divorziato riporta i figli dalla madre e si ferma a guardare il respiro lasciato dai bambini sul vetro. È proprio come trovarsi in auto con lui e vivere quella scena. Infine è interessante il fatto che Dubus non sia mai un autore giudicante, o che forza i suoi personaggi. Lui è con loro. È un po’ come, nel cinema, la differenza tra Fellini e Sorrentino: il primo è empatico, il secondo severo, almeno nel senso che un poco schernisce i suoi stessi personaggi.
Direi che è inevitabile a questo punto un confronto con Raymond Carver.
Secondo me Dubus è più bravo. Sicuramente lo è rispetto al Carver minimalizzato. Inoltre, quest’ultimo è meno coraggioso. Dubus è più caldo e anche maggiormente rivolto, con lo sguardo, agli altri. Carver osserva, ma non empatizza. È turbato dai personaggi. Dubus è turbato per i personaggi. Con Dubus piangi, con Carver no.
Solo una precisazione sulla questione del coraggio. In che senso lo si deve intendere?
Carver in alcune situazioni si ferma, mentre Dubus va avanti a raccontarle. Non sono del tutto convinto che quell’arrestarsi sia solo per garantire un effetto evocativo. Mi pare piuttosto che sia per evitarlo, o perché non lo si sa descrivere. È un po’ come per Lovecraft, che in media scriveva pochissimi dialoghi: la verità è che non li sapeva affrontare, per cui li evitava. Io non so quanto Carver avesse voglia di farsi chiamare in causa da ciò che narra, ma di sicuro Dubus lo fa.
Si potrebbe definire la scrittura di Dubus, oltre che fotografica, anche cinematografica, visto e considerato che dalle sue opere sono stati tratti film di notevole spessore come I giochi dei grandi e In The Bedroom?
Si, c’è qualcosa di cinematografico, in particolare nel lavoro sui personaggi: uno sceneggiatore è naturalmente facilitato, partendo dall’analisi di Dubus, a comprenderli e svilupparli. Non è invece cinematografico dal punto di vista dell’azione, che manca del tutto nei suoi testi. Non esiste, in sostanza, un susseguirsi di fatti. La sua scrittura è invece caratterizzata da tanti flashback e flashforward. Ma risulta difficile trarne un film. Certo, volendo si potrebbe ricavarne un qualcosa d’autore, ma che diventerebbe per forza di cose diverso da Dubus, più di nicchia dei suoi stessi racconti. Per The Killing, che nella trasposizione diventa In The Bedroom, gli autori del film hanno dovuto costruire tre quarti della trama, perché nel racconto è assente lo sviluppo delle azioni.
Da dove cominciare a leggerlo? È meglio procedere seguendo l’ordine cronologico?
Quando pubblicammo il primo libro scegliemmo Non abitiamo più qui, una raccolta pubblicata anche in America, con tre novelle molto lunghe che hanno per protagonisti gli stessi personaggi e che, considerati nel loro insieme, formano quasi un romanzo in tre atti. Questo perché il racconto allontana i lettori. Quindi, se si è spaventati dalla forma in questione, questo è il miglior modo per approcciare l’opera di Dubus. Se invece si è un lettore che non ha problemi con essa, allora consiglio l’ultimo libro pubblicato in vita, Ballando a notte fonda, che per me resta il vertice massimo della sua produzione, in particolare l’ultimo testo della serie. Un racconto di Dubus, comunque, per quanto si possa essere maggiormente interessati ai romanzi, è bene che si sappia, ti sazia altrettanto.
Perché è così poco noto in Italia?
Perché si è sempre teso a pubblicare un certo tipo di letteratura americana, a seconda dei periodi, guardando per esempio alle tendenze lanciate dal “New Yorker”, e ciò che non rientrava nella moda principale rimaneva escluso. In principio c’è stato il periodo dei beat, poi negli Ottanta quello di Bret Easton Ellis. Tutti gli autori affini risaltavano, mentre gli altri non venivano neppure presi in considerazione. Per fortuna esiste sempre una tendenza a riscoprire chi è fuori dal circuito, come quello che a mio avviso è il più grande autore americano, e che al momento non è neppure ristampato nella sua terra, ovvero Robertson. Adesso verrà pubblicato qui da noi. Anche per lui vale, come per Dubus, lo stesso discorso di essere poco conosciuto, perché trovatosi fuori da certi giri.
Esiste un autore italiano che abbia raccolto la lezione di Dubus?
Spero di essere io (ride). Scherzi a parte, non c’è quel tipo di autore in Italia. Anche senza essere simili a lui e volendo lasciare perdere per un momento la questione della forma racconto, mancano qui da noi autori popolari, che però siano al di fuori del genere, e che raccontino la vita di tutti i giorni. Il fatto è che si sta perdendo la voglia di raccontare. Bisognerebbe in tal senso smettere di fare gli scrittori e cominciare a scrivere. Quando si prova, forse la realtà risulta troppo presente. Si raccontano tutte storie che esistono, biografiche, non ci si avvale della scrittura per narrare vite di personaggi inventati che riescano a parlare alle persone, come fa Dubus.
Matteo Fais