«Perché è proprio questo quel che qui si va cercando: il momento in cui la cosa nasce. La fecondazione e il suo esistere quando un istante prima non era».

Filippo Tuena

Thomas Stearns Eliot, con il poema The Waste Land, ha dato un nome nuovo alla decadenza, alla malinconia, all’impotenza, alla sterilità spirituale che ha avvolto la terra “guasta”. Un testo che è diventato il simbolo della poesia nell’era della frantumazione, la cui vicenda editoriale ed artistica è il centro dell’ultimo libro di Filippo Tuena, La voce della Sibilla (il Saggiatore). L’opera dell’autore di Ultimo parallelo racconta i turbamenti e i cambiamenti che hanno portato alla  nascita del The Waste Land, raccontando la storia di amicizia tra T. S. Eliot ed Ezra Pound, dalle peregrinazioni parigine agli incontri con Virginia Woolf e Wyndham Lewis, fino al successivo distacco verso la fine degli anni Venti.  Un testo metamorfico tra critica letteraria, romanzo di formazione e biografia poetica, che raccontando l’amicizia tra questi due grandi maestri realizza un apologo straordinario su cosa sia il mestiere dello scrivere, attraverso una storia che indaga i tanti riferimenti, le voci, i personaggi, le inquietudini che hanno permesso la nascita del capolavoro eliotiano, dal primo fatidico incontro fino all’ampia e visionaria revisione de La terra desolata fatta da Pound (che ridusse i quasi mille versi originari ai quattrocento attuali) che ci ha consegnato l’opera nella sua veste attuale.

Una storia di addii, solitudini, smarrimenti, di complicità e amicizia che verso dopo verso, parola dopo parola viene evocata, costruendo una genealogia dell’opera d’arte e del genio artistico, delle tante vite e dei tanti libri che fanno germogliare un capolavoro. Attraverso un viaggio onirico in cui Tuena stupisce, affascina, sfuma, allude e suscita un mondo di sogni e ricordi, di libri e ritratti, in una Parigi gaia ed efferata, sonnambula ed eccentrica, dove al fermento di gioia, di vita, di genio, si alterna l’ostilità della realtà, la durezza del quotidiano, gli odi degli intellettuali. Con La voce della Sibilla, Tuena ha redige un testo che non vuole raccontare pedantemente ma ricordare e abbozzare piccole sfumature di sogno (non cadendo nel vizio erudito di voler spiegare tutto) che solo l’immaginazione di colui che legge può colmare di mistero.

Secondo lei lo scrittore può solo descrivere un amore lontano, essere testimone di una estraneità, sognando un mondo perduto da cui prendere congedo?

La distanza tra lo scrittore e la storia da raccontare è in qualche modo necessaria. È una distanza temporale – la vicenda che si racconta è lontana nel tempo –; è una distanza affettiva – occorre che lo scrittore provi desiderio per qualcosa che non può possedere. È un tema che avevo affrontato in maniera diffusa ne Le galanti e che qui ho cercato di concentrare ragionando su una sola opera – un’opera che affronta il tema dell’abbandono, della desolazione. In questo senso la Grande guerra vissuta solo attraverso le vicende e le morti degli amici di Eliot e Pound è emblematica. I due poeti sono fisicamente lontani dagli eventi fondanti il ’900 e li vivono attraverso i lutti personali, le morti in battaglia degli amici.

Perché La voce della Sibilla, come nasce l’idea di scrivere questo testo?

Il libro in un primo momento doveva essere semplicemente la prefazione a una edizione del manoscritto originale del poema di Eliot. Venuta meno questa possibilità ho pensato che avrei potuto raccontare un’altra vicenda, inserire le parti prosodiche, aggiungere i ricordi personali, insomma far emergere la voce del narratore e metterlo in comunicazione con i due poeti. Dunque una narrazione ibrida, non un testo di critica letteraria.

Questo testo può essere letto come una grande metafora di cosa voglia dire scrivere, della genealogia dell’opera d’arte…

Devo ammettere che non avevo un progetto così ambizioso. Certamente m’interessava trovare l’origine, il moto generativo di quell’opera d’arte; come era apparso a Eliot; quanto era stato facile o difficile riuscire a dar forma alle sue malinconie e come queste malinconie individuali si accordassero al senso diffuso di disillusione che emerge dall’arte di quel periodo.

Raccontando la genesi di The Waste Land, mostra le anime che hanno evocato questa poesia. Quali sono secondo lei i protagonisti o gli ispiratori, occulti o menzionati del poema eliotiano?

Come ho detto sopra, non era nelle mie intenzioni scrivere un testo di critica letteraria su The Waste Land. Non ho le competenze per un lavoro di questo genere, soprattutto su un testo in inglese. Ma m’interessava molto andare a ragionare sulle origini affettive di quell’opera sulla base anche di quanto suggerì a Virginia Woolf un’amica, Mary Hutchinson, una delle prime persone a cui Eliot aveva letto il poema. “It’s an autobiography. A melancholy one”; è un’autobiografia, ma di quelle malinconiche. Dunque era in quell’humus di rimpianti che andavano cercate le origini del testo. Credo che la morte di Jean Verdenal abbia avuto un peso decisivo nel moto creativo di Eliot. Verdenal e le aspirazioni giovanili vissute nel primo periodo parigino dell’autore.

Come è già accaduto ne Le variazioni Reinach e Le galanti, il testo mescola seconda, terza, prima persona, articoli e fotografie, alterna saggio e romanzo. Come nasce questa fusione di elementi e innovazioni letterarie che culmina nella presenza del narratore come protagonista paritario?

Amo scrivere storie di altri, di altre persone e di opere d’arte altrui. Ma non per questo mi nascondo. Credo che il narratore debba essere costantemente presente, in maniera discreta o esplicita. Del resto se il racconto verte su terze persone occorre che il lettore stabilisca un rapporto con il narratore. Deve valutare la sua autorevolezza o anche soltanto il suo coinvolgimento nella vicenda che narra. Anche la varietà di forme che intervengono nel testo – prosa, versi, trascrizioni di documenti, immagini – è necessaria per mantenere viva la presenza del narratore, per creare quel che d’inaspettato un testo letterario deve sempre presentare.

Nel libro, parlando di John Quinn, dice “hai mai avuto chi ti rassicurasse” scrivendolo come una figura capace di rompere le insicurezze di Eliot senza però essere un familiare o un collega. C’è stato un Quinn nella sua formazione personale?

È necessario avere una sorta di padre putativo nel momento in cui s’intraprende una carriera, un’arte, un mestiere. È una figura che non entra in competizione con le figure parentali ma che si affianca loro. Nel mio caso, la persona che ha svolto questa funzione di Virgilio nel mondo letterario è stata Giuseppe Pontiggia. Devo a lui anche un certo fatalismo che mi accompagna quando esce un mio libro. Cerco di non avere aspettative, mi contento se il libro suscita una buona accoglienza e corrisponde, più o meno, al progetto originario che era all’origine. Valuto il mio lavoro e sulla base di questo giudizio misuro la mia soddisfazione. Pontiggia mi ha insegnato molto, la sua esortazione “stai sulla pagina” mi accompagna costantemente durante la stesura dei miei testi.

Ezra e Tom, che rapporto lega questi personaggi e come tali incontri e confronti ha definito le sorti di questo romanzo e del The Waste Land?

Eliot e Pound sembrano essere caratterialmente agli antipodi; più vicini sono come poeti. Quel che scrivono, l’uso che fanno delle citazioni per esempio, li accomuna. L’essere altrove – a Londra piuttosto che in patria – ne fa due compagni di esperienze non trascurabili. Poi i ruoli tra i due sono ben stabiliti: Pound organizza, Eliot esegue. Questa distinzione contribuisce a creare un sodalizio ben strutturato. Pound è colui che modella l’ingegno di Eliot e lo mette in comunicazione con l’esterno. Un po’ quello che fa il narratore quando decide di scrivere una storia.

Il tempo, il passato e la nostalgia: come questi temi forgiano i protagonisti e il loro autore ? La poesia è per loro un coltivare fiori imperituri contro l’autunno della vita?

Se l’esito del Vorticismo è svecchiare la poesia, l’origine di questa è sempre collegata al bagaglio di esperienze personali, dunque è rivolta al passato. Diceva l’amica Mary: “è un’autobiografia ma di quelle malinconiche”. Se le esperienze sono sempre individuali il sapore amaro si può condividere e il gioco della poesia, nel momento in cui si fa condivisa è portare il lettore a rammentare, a far riemergere qualcosa che la vita di tutti i giorni aveva fatto dimenticare. Il lettore di poesia è colui che fa esercizio di riconoscimento. ‘Eccomi, sono io. Questa è la mia immagine’ diceva Narciso alla fonte.

“Rafforzare i vecchi sogni impedisce a questo mondo di disamorarsi”: quali sogni tengono in vita questi personaggi a lume spento? E lei ha ancora dei sogni ?

I sogni dello scrittore sono progetti di nuovi libri ma i libri sono effettivamente come i sogni. Per quanto si desideri sognare qualcosa non è possibile determinarlo. I sogni accadono. Anche i libri accadono. Occorre soltanto essere disponibili a recepire e poi mettersi al lavoro.

Questi autori per essere moderni e rivoluzionari citano i classici, Properzio e Dante. Oggi cosa si deve fare per essere veramente e rivoluzionari?

Per me la questione dell’essere rivoluzionari è abbastanza chiara. So cosa voglio fare io e mi ritengo abbastanza rivoluzionario. Non scriverei più un romanzo tradizionale, d’invenzione. Con descrizioni accurate dell’ambiente, dei caratteri dei personaggi e l’orribile e falsa scelta dei nomi. Ecco, scegliere nomi è cosa che non riesco più a sopportare. Poteva andar bene sino al secolo scorso. Oggi mi sembra intollerabile. Riesco a leggere storie inventate se sono scritte da amici (l’amicizia prevale su tutto) ma, se ho in qualche modo una certa capacità di convinzione, cerco di condurli nei miei territori. A volte ci riesco, a volte no. Per quanto riguarda i classici come esempi rivoluzionari sono d’accordo. Tutta la letteratura ha un’origine manierista, che sia Omero, Dante, Cervantes. Studiare i classici è una delle grandi forme di libertà letteraria. Si riconosce subito lo scrittore che esercita questa pratica rivoluzionaria.

Lei voleva iniziare partendo da una poesia che racchiudesse una storia, a quale poesia aveva pensato prima del The Waste Land?

Mi piacerebbe un libro sull’Infinito di Leopardi. Ma non è detto che lo scriva io.

Come si pone nei confronti della finzione narrativa e cosa le interessa creare o mostrare in un suo romanzo?

Osservare e cercare – descrivono abbastanza bene quel che è l’idea di romanzo che perseguo. Tuttavia potremmo ampliare il discorso chiarendo cosa interessa me come lettore, di conseguenza, vado cercando nel mio lettore: un riconoscimento. Mentre leggo, in maniera imprevedibile, inaspettata deve emergere una forma di riconoscimento. Bisogna che interrompa la lettura e commenti: ‘ecco, questo mi riguarda. Lo scrittore sta parlando a me.’ Quando accade questa chiamata in correo il libro compie il suo destino. Si realizza e conquista uno spazio non più scalfibile nel mio personale panorama letterario. Accade poche volte ma quando accade è per sempre. Rimanendo ai classici del Novecento, penso al Camus della Peste, a Sebald, all’Hemingway di Morte nel pomeriggio, a Cuore di tenebra di Conrad, ad America di Kafka, al Docktor Faustus di Mann, a certe pagine del Tempo ritrovato di Proust. Domani potrei aggiungere altri testi o autori, ma ecco, oggi direi questi.

Progetti per il futuro ?

L’anno prossimo dovrebbero uscire due cose. Una ristampa del Volo dell’occasione e una novità narrativa. Un viaggio in Grecia alla ricerca degli antichi dei, satiri, ninfe.

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