25 Agosto 2023

Nella bontà e nell’abbandono. Piccolo discorso sull’immagine acheropita e i romanzi di Cleide

Poco tempo fa, un amico, dal viso fantomatico, scheggiato e tetragono, mi ha detto: devi venire con me. Quella perentorietà priva di enfasi escludeva l’invito. Mi ha portato nei recessi della Scala Santa, a Roma, nel Sancta Sanctorum: è difficile che il pubblico possa accedervi, ma al mio amico, A., hanno aperto tutte le porte. Qualcosa di paradigmatico e terribile lo anima. La visione della cappella, oratorio privato dei papi un millennio fa, è indimenticabile. A. ha cercato di spiegarmi l’importanza delle icone superiori, del Trecento, la generosità del mosaico, la perizia degli affreschi rinascimentali, le doti del marmo, di epoche stratificate. La sua giovinezza non teme lasciti, è statuaria. I miei occhi, tuttavia, erano attratti dall’immagine acheropìta – cioè non dipinta da mano d’uomo – corazzata da figure in oro e argento, al centro della cappella. Il Salvatore, molto antico, trasfigurato su legno, ha un volto dolcissimo. Lì, le parole non hanno senso. L’opera del Padre – o del pittore che se ne è fatto interprete fino a scoscendere nell’anonimato, nella spartizione di sparizioni – non va spiegata, ma venerata. Ogni nome è un artificio al cospetto del senza nome, che ha esaurito tutti i nomi. Il coraggio di inginocchiarsi.

Mi piace l’idea dell’artista che, accecato dopo aver dipinto il Nazareno, scappa, come non avesse ragione avere gambe, braccia, lingua. Torna pulito, cioè incapace, un passerotto.

L’archetipo acheropìta aiuta a comprendere i romanzi di Cleide, non certo perché sono opera divina, ma perché sono libri di devozione. Per questo, sono libri che sfuggono ai canoni dell’oggi, improntati alla stratosfera dell’ego, tesi a svolgere presunti compiti sociali, o semplicemente creati per provocare, per sovrapporre al chiasso altro chiasso ancora. I libri di Cleide sono scritti su legno, sono per chi sa incantarsi ancora al cospetto delle storie sante, di ogni giorno, da ascoltare nel lume familiare. Sono libri per chi conosce i paramenti della pietà e del perdono. Per chi sa inginocchiarsi, mi ripeto – romanzi così pieni di dedizione che ne esci puro, dacché il dolore ha senso soltanto se raffina l’amore.

Ho passato l’infanzia in un piccolo paese, in Val Grande: non esistevano negozi, in piazza troneggiava la chiesa dedicata a Sant’Anna. Il parafulmine aveva tramutato il campanile in uno shuttle: era stato scheggiato da un onnipossente temporale estivo. Al principio del bosco, il vecchio lavatoio era smobilitato dall’edera, le piante, in assedio, lo avevano devastato. Anche quel paese, ricovero di partigiani minorenni, era stato falciato dall’impeto nazista: benché avessi la testa piena di Mowgli e di Rimbaud, mi rimbambivano le leggende dei briganti, le epopee della Seconda guerra, le uniformi nere, il pasto intriso di sangue, la strage degli innocenti. Il lavatoio, ricordo, era ormai un omaggio per le vipere, un maggio di rane e ragni strateghi: lo visitavano, ogni tanto, i caprioli. Speravo nella visione istantanea della volpe, che per me è bestia benedetta. Quel luogo – il lavatoio-lavacro, le storie tramandate in calchi arricchiti di aggettivi, cicatrici che fendono stirpi e famiglie, il gorgo delle bestie salvifiche – mi ricorda i romanzi di Cleide, nome cifrato, adespota, cioè despota di luce, disposto al vento.

Anche Libi è un nome che parla – è un nome colibrì, di libagione e congedo; un nome berbero, imbevuto di rinunce e di ombre, oltre la duna.

Un amico prete, Alessandro Deho’, ha mollato la parrocchia, gli infingimenti dell’istituzione clericale – impura difesa di proprietà più che gloria nella povertà – e si è costruito una sorta di romitorio in Lunigiana, tra monti scabri, un Tabor senza paramenti, al confine un po’ con tutto: Emilia-Romagna, Toscana, Liguria; tra sé, l’altro da sé, il dio che viene come un ladro e un commerciante di icone, a misura del maligno. Durante una chiacchierata, mi ha detto che

“Liturgia è arrivare a un punto di verità in cui le cose sono quello che devono essere, niente più, come se rispondessero a una chiamata profonda. Il sole è il sole, una nuvola è una nuvola, un bacio è un bacio, il silenzio è silenzio, e ogni cosa parla di Lui”.

Ecco: credo che nei libri di Cleide il sole è il sole, la nuvola la nuvola, il bacio il bacio. A scanso di equivoci: un romanzo pieno di devozione non è un romanzo devozionale. Dio – che a volte arretra nell’odio, si arresta nell’idiozia, arreda le nostre decorate ipocrisie – conta, in questi libri, quanto le stelle nel cielo e i fiori nel campo: più importante è la campitura umana, e coltivarne il didentro, le reticenze, la vita segreta, che è di ognuno ed è il nardo con cui sapremo oliare il nostro corpo morto. 

Ricorre tante volte la parola amore in questo libro di Cleide. Amore, parola pericolosa e santa, che va sussurrata e presa con i denti, senza uso di mani. “Questo amore è un miracolo”. Ci vuole coraggio a dirlo. “Non credo nei miracoli, è nostro e basta”. Ci vuole equivalente coraggio a togliere tutela da ogni cosa, levare il manto, fare latrina della tiara. Vivere nel rischio, ecco, nella bontà e nell’abbandono. (d.b.)

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Libi

Il sole era una lama infuocata all’orizzonte. Gli appezzamenti di erba spagna erano al limite estremo del fondo, lontani dalla masseria. Sarebbero tornati con il buio. Il cigolio del carro faceva da controcanto ai grilli, che davano voce all’estrema sera.

Libi aveva voglia delle braccia di Bianca, le sole capaci di confortarla quando, strette l’una accanto all’altra nel giaciglio improvvisato di una stanza con una piccola finestra, cercavano, nel sonno, di dimenticare le loro angustie.

Come erano finite in quella storia? Bianca a cucire e rappezzare camicie e pantaloni per gli uomini della masseria, lei sempre dietro all’Angela, la moglie del massaro, a zappare nell’orto per rincalzare la terra attorno alle pianticelle, a strappare l’erba, a raccogliere le verdure e sistemarle nelle ceste per il mercato del mattino seguente. Sempre scalza o a lavorare nella stalla, sprofondata in un paio di stivali di gomma troppo grandi per quei piccoli piedi, mentre avrebbe preferito governare le galline. Ma Angela le aveva detto: “No, no, al pollaio ci penso io, tu me le fai scappare, così vanno a fare le uova chissà dove.”

La sera, stanca e sudicia, Bianca la lavava in una tinozza colma d’acqua riscaldata al sole. Un piatto di minestra e un pezzetto di formaggio per cena, poi presto a dormire, per non sprecare petrolio nella lampada.

Libi non aveva ancora sei anni. Arrivavano delle lettere a Bianca: “sono del babbo” le diceva. Libi la vedeva contenta, anche se a volte quelle lettere la intristivano e la sera, nel dormiveglia, la sentiva piangere. Le lettere giungevano regolarmente; Bianca diceva che il babbo chiedeva di lei, che le mandava i saluti. Libi ascoltava, ma non chiedeva quando sarebbe venuto a prenderle. Quelli della masseria erano amici di Nane, l’uomo che voleva essere chiamato babbo anche se non lo era. Non sapeva spiegarsi perché ma ne aveva un po’ paura. Quando erano a casa, a Novara, stava sempre appiccicato alla mamma e a lei questo dava fastidio, ma alla mamma non lo diceva e non poterle confidare ogni cosa la rendeva triste, taciturna.

Poteva confidarsi solo con Severina, la bambola di pezza che aveva portato con sé e teneva nascosta sotto il letto; lei sapeva tenere i segreti e quello era un segreto.

*

Bianca aveva trovato una scatola di latta fra le cianfrusaglie accumulate in un sottoscala. L’aveva presa per metterci le lettere di Nane. Le aveva riposte con la brutta copia delle sue risposte in ordine cronologico. Certe sere, dopo che Libi si era addormentata, accendeva un mozzicone di candela e le rileggeva una a una. Erano squarci di luce quando lui era lontano. Ma alcune erano buio profondo e la tormentavano, colme come erano di sospetti, di dubbi, di parole amare. A distanza di qualche giorno arrivava un’altra lettera zeppa di suppliche e implorazioni, e tutto ricominciava daccapo.

Lei perdonava, anche se le pesava la consapevolezza del suo essere una donna umile, semplice, con addosso l’onta di una figlia senza padre. Frasi come: “donnina del mio cuore, amore profondo per il quale io vivo, amante per la vita e per la morte” si infrangevano contro durezze ingiustificate di altri scritti, che la lasciavano smarrita, disorientata. Riaffiorava ogni volta l’errore del passato. Nulla di esplicito; Nane non l’avrebbe mai ammesso, si considerava un uomo evoluto, ma Bianca sentiva che era quella la causa dei suoi improvvisi cambiamenti d’umore.

Se lo voleva, doveva tenerlo così com’era, il suo Nane, accontentandosi delle parole d’amore, dell’illusione che scaturiva da quelle righe scritte con una grafia fitta, sottile, meticolosa. E le risposte che seguivano erano sempre colme di comprensione e d’amore. Bianca trattava con grande cura quelle lettere, la carta scricchiolava tra le dita mentre le riponeva nella scatola.

Si stava approssimando ottobre. Libi doveva iniziare la scuola e il soggiorno alla masseria stava per terminare. Nane aveva promesso che sarebbe venuto a prenderle, ma non si faceva sentire da un paio di settimane e quel silenzio la preoccupava. Bianca aveva sollecitato la sua venuta con un breve scritto e la risposta era stata sbrigativa: “Cara donnina, devi risolverti da sola. Fatti portare fino alla stazione col carro, io non posso ancora tornare, qui si stanno preparando cose grosse…”.

Non diceva altro che varie banalità e qualche dichiarazione amorosa d’effetto. Le finanze di Bianca erano inesistenti; il massaro le avrebbe dato qualcosa per il lavoro svolto in quei mesi, quel tanto da poter saldare il conticino rimasto in sospeso del macellaio e del pizzicagnolo, che le avevano fatto credito. Niente di vergognoso, in quei giorni la miseria abitava in tante case.

*

Nane ricevette una lettera da uno sconosciuto che da Milano scriveva: “…per informarLa che suo fratello Franz, dopo l’abbandono della moglie, si è sparato due colpi di pistola. La sorte gli è stata benigna e ha riportato solo delle ferite. È ricoverato all’ospedale Fatebenefratelli. Ci vorrà del tempo ma si riprenderà. Il bambino, il piccolo Hermann, è stato affidato all’assistenza pubblica fino a quando il padre non sarà in grado di riprenderlo, dal momento che la madre del piccino non è reperibile, essendo in tournée in un paese straniero. Il povero Franz Le chiede un aiuto finanziario e, se possibile, di recarsi a Milano per togliere il bambino da una situazione così drammatica e condurlo con sé nella vostra casa paterna…”

La lettera terminava con i soliti convenevoli. In quelle poche righe c’era tutta la tragedia del fratello.

Nane ripensava alla notizia pervenuta il giorno prima mentre, davanti a un frammento di specchio che gli rimandava solo a metà le guance insaponate, si radeva la barba. Se Franz era fuori pericolo, non era il caso che lui si recasse a Milano. A inviargli denaro non ci pensava proprio, era giunto il momento per Franz di incominciare a sbrigarsela da solo. Lui non aveva tempo che per se stesso e il partito; doveva rimanere a Trieste, dove l’attesa di nuovi sviluppi stava diventando fermento. Notizie giungevano da ogni dove, le città si preparavano a un evento che avrebbe scosso il Paese dalle fondamenta. Nelle case del Fascio si vociferava che il Duce stesse preparando qualcosa di clamoroso, qualcosa che avrebbe cambiato il volto della Nazione.

Ancora non era chiaro di cosa si trattasse: si mormorava che tutto sarebbe dipeso dalla reazione del Re davanti al fatto compiuto, ma di che fatto ancora, con certezza, non si sapeva nulla. Le ipotesi riportate fuori dai luoghi di raduno, si disperdevano tra la folla in attesa di quegli eventi e diventavano chiacchiere di popolo mentre la tensione saliva.

Cleide

*Per gentile concessione si pubblica un brano dall’ultimo romanzo di Cleide, “Libi”, M.me Webb Editore, 2023

In copertina: Felice Casorati, Le due sorelle (Libro aperto e libro chiuso), 1921

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