30 Giugno 2019

“Sono pazzo di purezza. Sono pazzo di questa purezza che non ha nulla a che vedere con una morale, che è la vita nella sua particella elementare”. La lettura del giorno: Christian Bobin

Il punto d’equilibrio tra la frase frugale, scontata e la rivelazione, il maglio poetico, è un ago. Su quell’ago, bisogna snidare l’aquila, un verbo con le ali. Christian Bobin me lo ha dato in dono un amico il cui pudore francescano lo rende inafferrabile. Si chiama Luca Gaviani, e durante sporadici viaggi in Francia – lo immagino sempre a piedi nudi, per monasteri ed effusioni estatiche – prendeva i libri di Bobin, li traduceva, fotocopiava, me li recapitava. Bobin è maestro nell’arte, sontuosamente francese, del diario, della confessione, una specie di paesaggismo sentimentale, cuore scuoiato, messo a nudo, in pasto. La pratica letteraria comincia con Montaigne, prosegue con Pascal, per intenderci, va giù, fino a Camus. In più, Bobin mette la gioia, lo stupore concretizzato in epigrafi e agnizioni, avendo per compagni di via Francesco d’Assisi, Emily Dickinson, Antonin Artaud… “Bobin non fa certo parte di quegli autori che si lasciano sopraffare dal disgusto del mondo o dal nichilismo”, piuttosto, è il cantore della “vita nella sua fragilità estrema”, scrive Maddalena Cavalleri in un saggio esauriente, “Lei che non speravo di incontrare”, che chiude “L’insperata”, libro pubblicato in origine da Gallimard nel 1994 e ora proposto da AnimaMundi Edizioni, che di Bobin ha pubblicato diverse opere. Scava nella luce, fino al trionfo del silenzio, con labbra argentine, si getta nell’agone del giorno senza riferirne l’agonia ma il canto sommesso, Bobin. Di quell’ultimo libro riproduciamo un brandello. In effetti, vanno usati così, i libri di Bobin: sguardi a falcate. (d.b.)

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Torno dalla Bretagna, amore mio. La Bretagna è una terra bella come l’infanzia: le fate e diavoli vanno perfettamente d’accordo. Ci sono pietre, acqua, cielo e volti – e dappertutto il tuo nome che canta sotto il nome delle pietre, dell’acqua, del cielo e dei volti.

È davvero da tanto che non esco più senza di te. Ti porto con me nel nascondiglio più semplice che esista: ti nascondo nella mia gioia come una lettera alla luce piena del sole.

In Bretagna ci sono molte chiese, numerose quasi quanto le fonti o i diavoli. In una cappella, ho visto una barca larga come due braccia aperte. Non aveva né vele né albero, ma solo candele. Sembrava il gioco di un bambino. Sullo scafo, questo nome dipinto in blu: “In abbandono di Dio”. Ho subito pensato a te: questa piccola barca è la tua vita e sei tu, amore mio. È la purezza del tuo cuore mille e mille volte naufragato, che mille e mille volte riprende il largo, che porta con sé questa luce che lo brucia e lo lava.

Sono pazzo di purezza. Sono pazzo di questa purezza che non ha nulla a che vedere con una morale, che è la vita nella sua particella elementare, il fatto semplice e povero di trovarsi ciascuno sulla riva della propria morte buia e di attendere solo, infinitamente solo, eternamente solo. La purezza è la materia più diffusa sulla terra. È come un cane. Ogni volta che confidiamo soltanto nel nostro cuore vuoto, torna a sedersi ai nostri piedi, a tenerci compagnia.

È qualcosa che mi hai insegnato tu, anima mia. Mi hai insegnato così tanto. Prima mi hai rinchiuso nella tua risata come uno scolaro in una classe nel mese di agosto, poi mi hai restituito al mondo con il compito di descriverlo così com’è: terribilmente nero di sopra, miracolosamente puro di sotto.

Sul treno che mi portava in Bretagna, leggevo un libro di Caterina da Siena. È una santa del quattordicesimo  secolo. So poche cose di lei, se non che era abituata a dire la verità ai papi e ai potenti, con la violenza che sanno avere le donne nel difendere il loro bambino. Il bambino delle sante è l’amore folle, reso folle dal conoscere unicamente se stesse in un mondo che non è nulla.

Il movimento del treno mi allontanava da te, e il movimento della lettura mi riavvicinava: le sante ti assomigliano per il loro modo di essere allegramente perdute di gettare il loro cuore dal primo finestrino aperto. Le sante sono le donne più belle. Sono belle delle forze che le abbandonano. Nella loro voce ritrovo lo stesso silenzio delle testimonianze di coloro che sono tornati dai campi di concentramento – come se la sofferenza e l’amore portati all’estremo avessero colpito lo stesso punto dolente e silenzioso. Coloro a cui è stata rasata la testa e coloro a cui è stato bruciato il cuore hanno in comune di non avere più lingua. Noi vi raccontiamo, dicono i deportati, ma più noi vi racconteremo e meno voi capirete, e non potrete capire quello che noi non saremo mai capaci di dire. Noi chiamiamo, dicono le sante, noi chiamiamo colui che resta sull’altra riva del nostro cuore e non sapremo mai se lui ci ascolta, e meno ancora se qualcuno c’è davvero. Queste due condizioni riguardano lo sfinimento della lingua perché toccano ciò che nella vita è più debole, quando la vita non è più che puro dolore o pura gioia, deperimento senza nome della fame, languore indefinito dell’assenza: la prova della vita debole è la prova più estrema che esista.

È una delle cose che ho imparato guardando te. Potrei passare la vita a guardarti vivere: lo spettacolo dell’intelligenza non annoia mai. I tuoi gesti per pulire la bocca di un bambino o per girare le pagine di un libro che non avrai il tempo di leggere, il tuo modo di portare a termine un lavoro in cui devi barattare la tua solitudine con quattro soldi – tutto di te mi insegna nel profondo. Se voglio sapere cosa siano il coraggio e la nobiltà del vivere, mi basta vederti e scrivere secondo quello che vedo. […]

Tutto il male in questa vita deriva da un difetto di attenzione a ciò che essa ha di debole e di effimero. Il male non ha altra causa se non la nostra noncuranza e il bene può nascere soltanto da una resistenza a questo assonnarsi, da un’insonnia dello spirito che porta la nostra attenzione al suo punto d’incandescenza – anche se un’attenzione pura di questo genere ci è, in fondo, impossibile: solo un Dio potrebbe essere presente alla vita nuda in modo perfetto, senza che la sua presenza sprofondi mai in un sonno, un pensiero o un desiderio. Solo un Dio potrebbe essere così incurante di se stesso da prendersi cura, senza sosta, della vita meravigliosamente perduta a ogni secondo che se ne va. Dio è il nome di questo luogo mai offuscato da una noncuranza, il nome di un faro sulle rive. E forse questo luogo è vuoto, o forse questo faro è abbandonato da sempre, ma questo non ha alcun genere d’importanza: dobbiamo comportarci come se in questo luogo ci fosse qualcuno, come se questo faro fosse abitato. Dobbiamo aiutare Dio sulla scogliera in cui si trova e chiamare uno per uno ogni volto, ogni onda e ogni cielo – senza dimenticarne nemmeno uno.

Christian Bobin

*Il brano si riproduce per gentile concessione ed è tratto da: Christian Bobin, “L’insperata”, AnimaMundi Edizioni 2018

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