Dante Arfelli: perdersi nel proprio oblio con stile. Storia di un libro memorabile
Libri
Giosuè Gorinzi
La prima cosa da fare è afferrare Anna Achmatova. Requiem. La raccolta più dolente. Una delle più dolenti del Novecento. Impaniata nella censura russa. Ovviamente. Racconta i giorni in cui la poetessa, tra le grandi del secolo, mendicava notizie del figlio Lev, arrestato dal regime sovietico nel 1935 e poi, definitivamente, nel 1938. Elemosinava notizie al carcere della Kresty, Leningrado. Insieme a lei, code di madri, di mogli, di derelitte. “Ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado”, scrive la Achmatova In luogo di prefazione a Requiem. “Una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente, non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di noi tutti e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): ‘Ma questo lei può descriverlo?’. E io dissi: ‘Posso’. Allora una sorta di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto”. Il brano, di sonora sofferenza e dedicata bellezza, è la serratura per capire il primo romanzo di Daniele Mencarelli, La casa degli sguardi (Mondadori 2018, pp.226, euro 19,00). Il romanzo di Mencarelli, romanzo, classe 1974, tra i poeti più riconosciuti di oggi, comincia con una resa all’oblio (“non ricordo nulla”, dice il protagonista, Daniele medesimo, corrotto dall’alcol, divorato dall’annientamento, da una fragilità tumorale) e si chiude, con la leggerezza di una corolla, di una corona, con una pretesa di memoria (“Voglio ricordare tutto”). Mencarelli, come la Achmatova, allora, non volge le spalle dall’orrore, non annega, voluttuosamente, nel male – esercizio abusato dai dandy della narrativa, che godono l’eroina del nulla. Ha il coraggio della memoria, lotta (il romanzo è dedicato “ai lottatori”) per definire una fiamma nell’oscurità. Ha la gloria – così difficile, oggi, così gratuita – di raccontare una resurrezione. Il romanzo, in effetti, è questo. Siamo nel 1999 e Daniele – che è proprio lui, Mencarelli, ma non è lui, diluito in una storia di vertigini assolute – è un ragazzo perduto. Ha il crisma poetico, ma la vita lo spaventa, spazia in lui il male. Daniele si ubriaca. E quando si ubriaca non capisce nulla, non ricorda nulla, fa le peggio cose. Il romanzo parte sull’apice del primo giorno del ‘risveglio’. Daniele, grazie a un amico poeta (Davide Rondoni), trova lavoro presso una società di servizi all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. Va a fare le pulizie. Un purgatorio devastante. L’obbligo di un lavoro umile – nitida la scena in cui Daniele deve nettare un bagno letteralmente pieno di merda: “vorrei scappare, in fondo a me dei bagni pubblici invasi di merda dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù cosa cazzo me ne frega?” – la necessità di dialogare con una vasta umanità di perduta gente. Il luogo, di per sé, è un agghiacciante Purgatorio. “Luogo di tortura, di maledizione”, lo chiama Daniele. Al Bambino Gesù si curano i bambini incurabili. Spesso i bambini muoiono. Muoiono ed è come una grandinata sulla testa di Daniele. Una grandinata di vite pure, di feti, di innocenti (micidiale la scena “in una sala d’autopsie a misura di bambino”, dove fiammano le domande lancinanti: “se ci sei tu, Dio, dietro tutto, perché non hai preso me? O qualsiasi altro adulto sulla faccia della terra?”). Il rapporto – mai astratto o concettuale o peggio, intellettuale, ma sempre fisico, in narrativa carnale – tra il perduto, il peccatore a contatto con la purezza che muore è devastante. Daniele, alla fine, si salverà. A piccoli, dolorosi passi. Scoprendo la vita. E incarnando la vita nella poesia – il direttore dell’ospedale pediatrico che gli commissiona una raccolta poetica sul Bambino Gesù, che effettivamente sarà pubblicata, con il titolo Bambino Gesù, nel 2001, presso le Tipografie Vaticane, ed è uno dei libri più atroci e sublimi di Daniele. Il romanzo, insomma, è di avventata bellezza, è una avventura nella tenebra della perdizione, un inno di gioia. In questa è l’eversione. Possente.
Parto dalla cosa più semplice, che non è mai semplice. Cosa si scrive, cosa ti scrive, perché scrivi? Scrivi la vita, la verità, la salvezza, la santità, la perdizione… cosa? Perché?
Scrivo perché, per quanto ci provi, tutti i giorni, non riesco a farmi passare la vita come un fatto ordinario, è qualcosa incastrato negli occhi, nello sguardo, ha a che fare con la reale grandezza di quel che ci circonda, è una grandezza maestosa, sovrana. Scrivo perché non mi è mai passato per le mani un giorno in cui non mi sia speso alla ricerca di qualcosa, se vuoi chiamalo significato, una preda inafferrabile, una caccia impossibile, almeno per me, che non è mai riuscita a sbocciare pienamente in una fede, una cosa da cani in pena. Scrivo perché mi risulta inconcepibile affidare al caos ciò che amo e ho amato. Scrivo per testimoniare tutto questo.
Parto da un dato di fatto molto semplice, scabro. Sei un poeta. Per quanto narrativo. Resti un poeta. Che ora si muove nel palazzone del romanzo. Come hai fatto? Che cambiamenti hai fatto? Che moine formali hai accettato, quale accesso concedi?
Sono un poeta che concepisce la poesia come l’unione di due elementi sostanziali: lo sguardo, nominato poc’anzi, come motore primo, come visione scatenante; e uno più formale, intimamente formale, il respiro. Il mio metro dominante è il respiro, il verso come un’unica emissione d’aria, saldare parola a vitalità. Nel passaggio al romanzo ho rinunciato, ma non del tutto, a quest’ultimo elemento, al respiro, quindi alla versificazione in senso stretto. Meno che mai, ma quello sarebbe impossibile, allo sguardo, al mio modo di vedere le cose. Se devo dirti, però, ho anche guadagnato qualcosa, mi hanno sempre intrigato le strutture dei grandi romanzi, la gestione delle psicologie dei personaggi, è un lavoro diverso rispetto alla poesia, ma non meno affascinante. In parte sono stato anche fortunato: per me la poesia e la narrativa, più in generale l’arte tutta, hanno a che fare con, per dirla con le parole di Eliot, “una scena che si dispone e si compie”, ho bisogno di correlativi, di azioni, comportamenti. Lascio ad altri le astrazioni, le scritture che ambiscono alla verticalità dimenticando tutto il resto. Nella scrittura del romanzo mi sono imposto, a tutti i costi, di non scadere mai nel poetico, questo sì, questo è l’unica vera disciplina che mi sono dato.
Racconti una delicatissima storia di perduti e salvati. Una ossessione, penso, pensando ai tuoi ‘romanzi in versi’. In questa storia, quanto c’è di vero, quanto di fiction?
La letteratura non è mai doppione assoluto della realtà, quando tenta di esserlo fallisce miseramente, semplicemente perché è regolata da leggi fisiche diverse, da meccanismi propri. Quindi il romanzo, com’è ovvio, ha elementi d’invenzione, ma il perduto e salvato che racconto, il Daniele protagonista del libro, sono in tutto e per tutto io. La parabola è quella che ho vissuto realmente in quegli anni: l’alcol, i problemi psicologici, la disperazione mia e di chi mi stava intorno. Questa tema torna spesso nei miei lavori, semplicemente perché non mi ha mai abbandonato, ho sconfitto le dipendenze, ma convivo con lo sguardo che mi è toccato in sorte. Costa fatica, mentale, fisica.
Ho avuto la fortuna, mesi fa, di avere una redazione di questo libro che non so se è l’ultima. Come è capitata Mondadori? Hai dovuto accettare tagli o un lavoro serrato con l’editor? Di cosa sei grato e cosa, ostinatamente, rivendichi?
A riguardo si sentono racconti horror…io sarò l’eccezione che conferma la regola, ma il mio rapporto con Mondadori, da Carlo Carabba a Marilena Rossi, a Barbara Gatti, è stato bellissimo sin dal primo giorno, credimi, non c’è un grammo di ruffianeria in quel che sto dicendo. Sul testo: non ho dovuto tagliare, o difendere, né ho rivendicazioni, abbiamo editato con grande tranquillità. Mi ha senz’altro aiutato, in tutta la fase di lavorazione del libro, il fatto che anche io sia un editor, non di libri ma di fiction, quindi parto dal presupposto che un autore, per quanto bravo e famoso, non è una divinità intoccabile e onnipotente. In Italia su questo tema siamo indietro di trent’anni. Il bravo editor sa contenere l’autore, consigliarlo, quando serve anche contraddirlo. Ma, ripeto, tutta la fase di editing è andata come mai avrei immaginato.
Quali sono i tuoi maestri, quelli di vita e di letteratura, come sempre, intendo? Insomma: per cosa vivi, che cosa leggi?
Maciniamo secoli, epoche e mode, ma se ti devo nominare un esempio vero, tra tante ipocrisie, torno a Cristo sulla croce, la sua eterna attualità, il giudizio come azione da rivolgere a se stessi, questa cosa mi innamora ogni volta, se ci pensi la storia può essere sintetizzata nella contrapposizione tra il “noi”, quindi il bene, e “gli altri”, il male da combattere. La vera rivoluzione è guardare in primo luogo ai propri peccati, errori, solo così possiamo crescere. Il mondo cambia cambiando noi stessi. Cosa leggo? Sono nato nel vecchio secolo, vivo nel nuovo, ma il legame con il Novecento, soprattutto italiano, per me è imprescindibile. Sbarbaro su tutti, ho una specie di venerazione, poi Caproni e Ungaretti, Turoldo, sino a Bellezza, e ancora più vicino a noi Salvia. Poi non posso non nominare Giovanna Sicari. Salto la generazione dei fratelli maggiori e arrivo ai nostri coetanei, quindi Francesca Serragnoli, Isabella Leardini, il grande Simone Cattaneo.
Che giudizio hai della letteratura italiana recente e della poesia? Tu lavori in Rai occupandoti di fiction, dunque si presume che conosci i diversi modi della comunicazione: perché il poeta è sempre il lebbroso, l’esiliato, l’emiro spacciato della società?
Torno al dato anagrafico: sono nato nel Novecento, ho esordito su rivista, ClanDestino, nel 1997. Lo sai quanto me: il mondo letterario che noi abbiamo avuto la fortuna di conoscere, anche se nella sua fase crepuscolare, non esiste più, quel fiorire di riviste, collane. La rete, i social, che nell’immaginario di tutti avrebbero dovuto sostituire la carta hanno, in realtà, creato soltanto confusione, e dispersione. Questi sono i dati, ma ciò non vuol dire che siano morti i poeti. Tra i nati negli anni Settanta ci sono poeti che rimarranno, oggi occorre lottare di più perché gli spazi sono sempre di meno, ma di qualità in giro ne vedo, e tanta. Mi occupo di fiction, di serialità televisiva, forse il prodotto più trendy di questi anni ultimi. È un problema di peso specifico, di grammatura. La poesia è reietta perché chiama alla negazione delle apparenze, vuole vedere veramente, quindi è per sua natura eversiva, quando è vera. Non mi sembra un’epoca, la nostra, dotata di una volontà eversiva rispetto alle visioni dominanti. Forse un giorno…