05 Dicembre 2019

“Cerco l’eccesso di realtà, oltre ogni definizione”: ascoltando Christian Bobin

Bisogna scrivere a quattro zampe – conoscendo il codice delle nuvole. I poeti hanno cercato questo: una lingua di laggiù, adatta a conversare con i morti, compresa dai cervi, conficcata nel larice. Non tanto la naturalezza, stazza da filosofi e da guru – il selvatico, piuttosto. Per dare odore al linguaggio, occorre fare rapina della grammatica – congiungere l’analfabeta alla lingua degli angeli.

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Christian Bobin, al di là del proprio carisma, proviene da una geologia di scrittori abbastanza chiara in Francia. Da Montaigne a Pascal, dalle ‘illuminazioni’ di Rimbaud ai rimbambimenti di Henri Michaux, dagli aforismi cruenti di René Char alla cabbala ipnotica di Edmond Jabès: lingua che con geometria deraglia, ‘occasione’ che si fa ustione, diario di una metamorfosi (l’uomo qui, in un lampo può deteriorarsi in falco, in girasole, in seggiola).

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Gallimard ha pubblicato da poco l’ultimo libro di Bobin, poligrafo – dacché è la vita a scriverci e noi a doverne interpretare l’estro. Il libro s’intitola Pierre,. S’intitola proprio così, “Pierre,”, con la virgola, come se fosse l’avvio di un racconto, come se la virgola fosse un sentiero. Nella frase che inaugura il libro, Bobin dichiara la sua poetica. “Non mi interessa la pittura. Non mi interessa la musica. Non mi interessa la poesia. Non mi interessa nulla di ciò che appartiene a un genere e svanisce lentamente in quell’appartenere. Mi ci sono voluti più di sessant’anni per scoprire cosa stavo cercando quando scrivevo, leggevo, mi innamoravo, mi fermavo davanti a un convolvolo, a una lumaca, al sole che cala. Cerco il sorgere di una presenza, l’eccesso di realtà che rovina ogni definizione. Sto cercando quella presenza che ha attraversato gli inferi per attenderci per raggiungerci per combaciare e riempirci uccidendo”.

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Che poi vi riesca – c’è questa allucinata ingenuità che lo apparenta un poco a Saint-Exupéry – è quasi inessenziale. La scrittura è proprio quello: “eccesso di realtà oltre ogni definizione”. Definire l’indefinibile sfinendosi. In effetti, scrivere è sottrarsi, è arretrare, spaccarsi, qualcosa che riempie uccidendo.

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“Rimbaud è poeta soltanto secondariamente, come la cenere che lasciano i lapilli di un vulcano – le sue poesie”.

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Il Pierre cui si riferisce Bobin è Pierre Soulages, l’artista francese. “La mia prima conoscenza di Soulages è una conoscenza assoluta, quella della sua voce al telefono. So esattamente dov’ero. Il pavimento della cucina ha vaste piastrelle. So su quale piastrella mi sono fermato, ascoltando quella voce. La voce è il tesoro che le persone ti concedono, anche gli avari. Ciò che la morte non può catturare, né un registratore. Una voce non è solo una voce: è respiro, parole, silenzi. Una voce è il mondo intero ridipinto da una persona… La voce di Pierre Soulages è la grotta di Lascaux con bagliori nel fondo del gorgo”.

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In Italia Christian Bobin è autore di punta della casa editrice AnimaMundi di Otranto. Gli scrittori anomali scelgano vie editoriali inconsuete, apparentate alla meraviglia, ai vicoli, alle staffilate di luce. In particolare, questo libro è molto bello, si può tenere in tasca, per restare ancorati all’estraneo, alla fonte di ogni fuga e certezza. S’intitola Abitare poeticamente il mondo (in realtà: “Le Plâtrier siffleur”) e, al di là delle intenzioni ireniche varie (l’etica del contemplare, del cavare poesia in ogni gesto), un paio di passi mi colpiscono. “Penso che il mondo oggi sia più carnivoro. Le crociate, le guerre di religione sono state dure, persino violente, ma la loro violenza rimaneva ancora un contatto, se così posso dire, umano. Vedo a tratti come una scomparsa dell’umano sui volti. Vedo sulle carni, sui tratti, qualcosa che passa, che ha meno luce”. Volti smarcati dall’umano, occhi travolti nell’innaturale. Nell’atavica lotta tra l’animale e l’angelico, l’uomo, oggi, pende, piagato, al disumano. Cos’è questa disattenzione verso il connaturato, questo parlarci per convinzioni precotte, per ostinazione di ragione, senza fantasia, schianto, sperpero di sé? Poi c’è questo, a lenire l’ottimismo: “Sembrerebbe che la notte si debba addensare ancora di più affinché possiamo scorgere alcune stelle. Poi, vedremo le stelle, per contrasto. Occorre che il buio si accentui ancora affinché le prime stelle – le prime, questo vuol dire che ce ne saranno altre – appaiano. È possibile che una catastrofe economica sia una grazia, una possibilità. Questo ci solleverà, ci farà uscire dall’ebbrezza, dall’irreale, dall’avidità, dal consumo. Ma non ci siamo ancora”. Apocalisse sempre appena intravista da un crocevia di ciglia; desiderio di catastrofe; destino al selvaggio. L’unica economia: attraversare un deserto, privo di annunci.

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Il libro di Bobin si apre con un omaggio a Ernst Jünger (“Ho trovato vagando qua e là in una lettura di Ernst Jünger un passaggio in cui…”). Jünger, scrittore marmoreo, astrale, biologico, è un riferimento costante di Bobin: ne La vita grande (AnimaMundi, 2018) lo installa “nel paradiso dei contemplativi”. Contemplare non è mero esercizio di osservazione, pur ipnotica; è fare tempio con sguardi e braccia, imbracciare la propria natura, esercizio sacro di trasmutazione di sé. Scrittori, in effetti, che ci fanno prendere il volo. D’altronde, lo scrittore non guarda una cosa e la descrive: si lascia guardare – e scrivere – e deviare.

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AnimaMundi pubblica anche un altro libro, La presenza pura (“La présence pure”, in origine 1999), dall’andamento aforistico, eracliteo. Bobin s’incunea in attimi primi, in spettri principali – un albero, la stanza, la sedia, la neve, la malattia –, gettando frasi come farfalle, ma che hanno lame al posto delle ali. “Non si riconosce più sulle fotografie. Non riconosce nemmeno i suoi. Quando glieli si nominano, ha gli occhi luccicanti di gioia, meravigliato di scoprire di avere dei figli come se fossero appena nati”. Anche del male più feroce – i cani che da dentro divorano la memoria, fino all’arduo osseo – Bobin fa un esercizio d’innocenza (a tratti, per noi vecchi di mondo e che soffriamo “la grande disgrazia di credere di saper qualcosa”, insopportabile, come l’eccesso di luce provoca ascessi alle palpebre). “Ho sognato che Dio aveva il morbo di Alzheimer, che non si ricordava più il nome né il volto dei suoi figli, che aveva scordato perfino la loro esistenza”. Nonostante il morbo, gli uomini restano ammorbati alla loro forma fugace – narici, mani, occhi, gambe. Solo lo scrittore, moribondo, salta, può pensarsi erba, si traduce in lince. (d.b.)

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