Il testo più longevo. Forse il più bello o forse no, poco importa: non si allontaniamo dal vero se pensiamo che sia quello più sentito, più sincero. Perché Filò di Silvio Castiglioni è profondo come una radice: ha debuttato nel 2000 a Guado del Po, sulla via Francigena, e in questi anni ha camminato costantemente e con parsimonia quasi contadina. Nonostante non sia lungo la traiettoria ideale dello storico percorso che unisce Roma a Canterbury, il Mulino di Amleto di Rimini, sabato scorso, ha chiesto all’attore (e lo ha ottenuto) uno scartamento laterale: la città di Federico Fellini, comunque, è pur sempre un crocevia di storia (Ariminum, più di duemila anni fa), di viabilità (dall’Arco d’Augusto si snoda la via Flaminia che termina in Piazza del Popolo; a nord invece la Romea e la Popilia, a Ovest – circa – la via Emilia) e di tradizioni rurali.
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Filò contiene buona parte della vita di Silvio Castiglioni: quella di uomo e quella artistica. Quella di mensch veneto, conficcato come una stella alpina – rara e bellissima – nel terriccio padano. E quella di attore: la Grande Commedia dell’Arte e i Maestri del Novecento, Bread and Puppet di Peter Schumann e Odin Teatret di Eugenio Barba per esempio ma anche Sandro Lombardi e Federico Tiezzi.
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“Far filò”. Si faceva ‘sti tenpi andàti quando le donne contadine e montanare, in inverno, si riunivano nelle stalle per filare, quindi fare maglie e sciarpe, oppure rammendare pantaloni e calze. Chiacchiere e pissi pissi a volume medio, che tanto lì non ci sono orecchie che le scòlta, storie lunghe per tenersi compagnia e aspettare – insieme – il ritorno della bella stagione.
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L’humus fertile delle tradizioni, la necessità ancestrale e profonda di raccontare una pagina del passato, il divertimento che nasce quando si recupera, filologicamente, fotografie che ti hanno descritto o solamente sussurrato. Anche questo è (o forse solo questo è) teatro.
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Silvio Castiglioni si traveste da Don Chisciotte e accompagna gli spettatori nel veneto legnoso: una maschera – quella dello Zanni della Commedia dell’Arte – per mettere subito in chiaro le cose: si traversa un dialetto per arrivare dentro a una stalla di fieno, calore, memorie del sottosuolo, voci di lontani parenti.
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Il testo di partenza, quello di Andrea Zanzotto, in realtà è un pretesto. Un pre-testo: partire dall’autore per raccontare se stessi. Nell’estate del ’76 il poeta inizia a collaborare al Casanova di Federico Fellini. Nello stesso anno viene pubblicata l’opera Filò dalle edizioni Ruzzante di Venezia che comprende la lettera di Fellini, dove dichiara le sue aspettative, i versi per il film Casanova, quelli sul dialetto e una lunga nota. Scrive Zanzotto: “Sono grato a Fellini di avermi spinto gentilmente ammiccando e quasi segnando silenzio con un dito sulle labbra, a questa breve ma per me non trascurabile discesa per scorciatoie assai precipiti, molte volte intraviste, mai praticate in precedenza proprio qui e così: con un occhio a tante deesse, dalla Testa, a Rèitia (la principale divinità, femminile, venetica, ndr), a Venezia, alla Gigantessa bambola: tutte riducibili ad una sola realtà, pur nell’immensa lontananza delle loro icone, dei loro significati, dei loro tempi”.
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Silvio, in Filò, fa un nodo ai suoi amori regionali: il Veneto, e la Romagna (è stato Direttore artistico del Festival di Santarcangelo per diversi edizioni), e la Lombardia. In questo triangolo scaleno si muove, cammina. Vive. Non solo sul palco.
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Si parte dal Veneto più rùstego, l’anticamera. L’accesso alla stanza dei bottoni. In quella accanto, Paolo e Paola Castiglioni preparano un risotto con il tastasàl, la carne di maiale (non la salsiccia, proprio la carne di maiale) con l‘aglio, il vino bianco, il pepe, il sale e il rosmarino. Cibo per le orecchie e cibo per il naso. Manicaretti per il cuore e manicaretti per la bocca. Cucina fusion, ma tradizionale. Come tradizionale – nel senso più nobile del termine – è questo assolo lucido di Silvio: un po’ Paolo Rumiz (tanti i luoghi che tocca con le parole, e non solo la triade Veneto-Romagna-Lombardia) un po’ Cervantes, un po’ Ruzzante certamente, ma altrettanto capace di una scrittura autonoma e personalizzata.
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Non ingannino le maschere indossate da Castiglioni: il viaggio è autentico. Veneto, Milano, Siviglia, Buenos Aires, Friuli. Sulla rotta degli emigrati italiani che andavano a cercare fortuna fuori. Si va di liscio, di tango, di ricordi, di odori. E la storia raccontata, resa ancora più credibile dall’utilizzo del dialetto veneto, diventa una nave.
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Dialetto come baluardo – come ultimo avamposto – di biodiversità. Non ieri che era la lingua madre bensì oggi: salvaguardiamolo quindi con parsimonia e calore sembra dire Silvio Castiglioni. Alcune cose vivono nell’idioma di un luogo e sono intraducibili.
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Un cantastorie che porta in scena, accompagnato dalla fisarmonica di Beppe Chirico-Sancio Panza, il racconto della storia dell’Italia post bellica. Trent’anni “veri” che oscillano tra memoria e invenzioni, tra bocconi amari – i sogni che si hanno da piccoli raramente si realizzano – e stelle cadenti che indicano la via: l’oca che non vuole essere ammazzata, l’asino che uccide, il vecchio leone di un circo dimenticato, il maiale che viene sacrificato per sfamare la famiglia.
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Filò funziona. Eccome se funziona: il microcosmo apparente si innalza a Storia. E a teatro, soprattutto a teatro, profuma di vero. Come il risotto col tastasàl che a fine spettacolo gli spettatori assaggiano.
Alessandro Carli