03 Dicembre 2024

“Quando correvo nelle nere foreste”. Storia di W. J. Turner, il poeta amato da Yeats

Nato in Australia nel 1889, figlio dell’organista della cattedrale di Melbourne, intitolata a San Paolo, Walter James Redfern Turner “partì nel 1907 per Londra perché voleva diventare uno scrittore”. Così scrivono, con cristallina perentorietà, le biografie. Il ragazzo – viso che dardeggia, occhi complici in qualche labirintica oscurità – si fece, come si dice, da sé: cominciò con qualche scritto umoristico su “New Age”; il padre – morto quando aveva undici anni – gli diede in eredità alcuni rudimenti musicali che gli verranno utili: quasi subito, Turner pratica come critico e musicologo.

Perfezionò l’arte in Germania e in Austria; durante la Prima guerra militò nei ranghi della Royal Garrison Artillery. Da tempo, piuttosto, erano gli artiglieri del “Bloomsbury” ad averlo accolto tra le loro scolte. W. J. Turner – così passerà alle stampe – fu intimo di Virginia Woolf e di Vita Sackville-West; il suo primo libro in versi, The Hunter and other Poems (1916), fu accolto con condiviso entusiasmo. Quanto a tintura lirica, Turner prediligeva i Metafisici e Coleridge; lo affascinavano – come Dorothy Wellesley, poetessa per certe tensioni a lui simile – le pitture parietali, il gergo dei primordi, la cultura precolombiana. Ai suoi occhi – conficcati nelle letture di Alexander von Humboldt – l’Ecuador e il Messico, con i loro magnetici vulcani, possedevano il segreto profondo del verbo e dell’uomo.

Nel 1918, a Chelsea, sposò Delphine Marguerite Dubuis; non ebbe figli. Aveva, piuttosto, una propensione al fuoco sacro dell’ira: litigò prima con Lady Ottoline Morrell – l’aveva contraffatta in irrispettosa caricatura nel dialogo satirico The Aesthetes: lei lo odiò a vita – poi con Siegfried Sassoon, il war poet con cui condivideva casa, in Tufton Street, Londra. Preferì dunque, pur inglesizzato, una vita da par suo, da selvatico, da uomo d’oltreoceano. In ogni caso, fu inserito nei repertori antologici dei “Georgian Poetry”, insieme a Robert Graves, D.H. Lawrence, Walter de la Mere e John Masefield. Dei suoi libri – dai titoli incisivi: The Dark Fire, Time Like Glass, The Seven Days of the Sun – si continuò a sussurrare a lungo. In particolare, Turner ebbe un importante supporter in William Butler Yeats. Nell’Oxford Book of Modern Verse, l’immane, estrosa, scapricciata antologia curata dal Nobel irlandese, Turner è forse l’autore più presente, con venti pagine (per intenderci, a Pound ne sono dedicate sette, a Auden quattro…).

È vero, a Yeats piaceva irretire i critici ed esaltare al rango di dèi i poeti semisconosciuti, figli del suo rapinoso fiuto – pensiamo a Margot Ruddock, a Dorothy Wellesley, pur poetesse dal talento adamantino, all’amico Shri Purohit Swami e al tonante George Barker –; prima di tutto, però, prediligeva chi sapeva fondere il gergo contemporaneo con il nitore classico, chi brandiva la poesia come un rito (e non come un frustrante frastuono), mostrandone le frange incantatorie. In particolare, di Turner, “poeta che leggo con ammirata stupefazione”, scrisse che “nei suoi versi migliori compete con Eliot in precisione, ma laddove il genio di Eliot è mondano, umano, impeccabile… Turner si muove in un mondo di simboli contraffatti, non ancora svelati”. Eliot – rappresentato in tredici pagine nell’antologia – non perdonò a Yeats il paragone.

A Yeats, più di tutto, piaceva l’Hymn to her Unknown, poemetto in cui Turner gergalizza Baudelaire – À une passante – svicolando verso i regni celesti. Eccone alcuni passi:

“Disperato perché non posso rivaleggiare con le creazioni di Dio
penso a lei:
l’ho vista il ventiquattro agosto del millenovecento trentaquattro
mentre prendevo un tè al quinto piano di Sawn and Edgar’s
a Piccadilly.

Sedeva di fronte a me, con una donna anziana e una più giovane
e un bimbo di circa cinque anni;
capii che una era la madre,
indossava la fede, fitta di diamanti.

Avrà avuto venticinque anni,
snella, aggraziata, esatta;
nessun manierismo dei sobborghi
ne sobillava la posa, nessuna affettazione
ma un dire sobrio, chiaro e modi cauti –
aveva folti capelli, non tinti.

Sapeva della sua bellezza, sapeva
di essere attraente – era fredda, determinata
rideva a bocca piena, con magnifici denti.

Ma mi dispero perché
non so descrivere agli occhi del presente
e del futuro l’immagine che ho visto.

A cosa serve dunque un poeta? Che farsa farsi
dire creatore e non saper riprodurre
ciò che gli occhi hanno visto.

Non mostrò di vedermi
ma sapevo che lei sapeva che sapevo –
i nostri occhi s’incrociarono, come in fuga,
con quel luccichio primaverile di farfalle
che Coleridge giura di aver visto
nel Venus and Adonis di Shakespeare. […]

I nostri corpi fusi in fiamma di cristallo
ardevano nell’empireo infinito
finché l’illimite blu non si ubriaca
in globo perfetto
come la bolla che regola gli oceani
fuoco di ogni fuoco che trascende
l’amore di Dio, l’amore di Dio, l’amore di Dio”.

La fama di Turner, tuttavia, era già trascesa: trascolorava. Diventò celebre per gli studi dedicati a Beethoven, Berlioz, Mozart e Wagner (che non amava): ingenui, dicono, ma pieni di genuine intuizioni. Amava Toscanini, fu tra i primi a riconoscere il talento di paladini della nuova musica, Schönberg, Berg, Webern e Hindemith. Continuò a scrivere poesie, ma quasi subito i suoi libri in versi sciamavano, dimenticati. Per qualche anno, lavorò come critico per lo “Spectator”. Turner morì nel novembre del 1946, a causa di una trombosi cerebrale. Molti vecchi amici erano morti prima di lui; gli altri non parteciparono al funerale. Diceva che il tempo è come vetro, che tutto passa per non passare mai – forse, è l’uomo a essere vetro, creatura che va in frantumi, di cui è impossibile – se non per granai di sangue – ricostruire l’intero.

***

Walter James Turner

Geologica

Siamo i gingilli, i giocattoli dell’era
come i rettili giganti del pre-Pleistocene
sgasati tra temperature calde, in mezzo
a fronde simili a giraffe, degno equipaggio
del dio-sole, i suoi destrieri, i suoi pascoli,
pastura di lussuriosa rabbia tra i monti.
Stravagante fu il suo fiammato esistere, finché
la glaciale Regina Luna non gli colpì il cuore
senza placare la sua brama. Raccolte
le forze, si alzò, lento e scheletrico, fronte
piccola, spigolosa di dolori, piantando
amori segreti, in miniatura, da spezzare
davanti a quel ceruleo volto di cera, ancora e ancora,
incatenato a ciechi selvaggi schiavi: andò
a capofitto, ma senza fretta, devoto alle subdole cose.

*

Il tempo è come vetro

Nel tempo pari a vetro le stelle sono
incastonate come farfalle che volano
fisse nella vitrea retina del tempo
insieme alle montagne e agli occhi delle ragazze.

Sopra la fredda Cordigliera pende
l’alata aquila e la luna:
dalla gola innevata sboccia l’orchidea
dall’oscurità ci fissa il cupo babbuino:

il bianco Himalaya, rapina di rocche;
l’orso dagli occhi-gioielli che vaga nelle cave;
le mandrie che muggiscono per la pianura;
l’Ombra che sfoga nelle umane tombe:

tutto come le stelle è confitto nel tempo
svanisce ma non passa: anche il sole
destinato a sfiorire, è inchiodato
nel tempo che è pari a vetro.

*

Le grotte dell’Alvernia

Fu lui a scolpire il rosso cervo e il toro
sulla nuda roccia della grotta
dopo essere tornato dalla guerra
sfregiato da molte ferite:
scolpì il cervo rosso e il toro
sulla nuda roccia della grotta.

Le stelle fiottarono oltre quel covo
le nuvole sembravano turpi trombe
gli alberi si sgranchirono come sogni ostili,
fiori con facce fatate si lanciavano
fino al cielo, pendevano soffici
d’oro e bianchi e blu.

La donna sbriciolava il grano
il suo cuore: un fuoco ben vegliato;
il vento solleticava la sua anima
come una mano fa con la lira,
il vento graffiava sulla pietra
i simboli del desiderio.

Cervo rosso in una nera foresta
le tue corna lacerano il cielo:
svanisci nel buio
ti dilegui come un incubo
e da una freccia sei ucciso:
non sei che l’oscura carne del vento.

Toro assiso nelle paludi
immobile e fermo come
una bruna roccia nella pianura
senza alberi né vette:
toro, sei il segno della vita, segno
di una cupa, fallica volontà.

Dai loro occhi morti, bianchi
il vento sgorga ancora, soffia
sopra i cuori che tremano:
quando il cacciatore li disegna
la vita del toro e del cervo
si rinnova da quel passato oscuro.

Siedo al suo fianco, a notte
tocco con le dita quella rossa pietra:
corro per infinite foreste
cerco la sconosciuta cosa
che non è né toro né cervo
che quelle bestie mostrano;

da quelle forme appena abbozzate
il grido esausto della sua anima
quando correva nelle nere foresta
e uccideva senza sapere perché:
era pieno di canto e di forze allora
e da lui fluiva solido il cielo.

Il vento soffia dal rosso cervo e dal toro
le nuvole sembrano turpi trombe
gli alberi esigono sogni selvaggi
i fiori ti fissano con trasognati sguardi:
o cacciatore, la tua ombra si erge
dalla tana nel bosco!

*

Romanza

Quando avevo appena tredici
anni andai in una dorata terra
il Chimborazo e il Cotopaxi
mi presero la mano.

Mio padre morì, mio fratello pure
passarono come fluttuanti sogni:
dimoravo dove Popocatapetl
brilla alla luce del sole.

Sentii la voce del maestro svanire
i ragazzi che giocavano, distanti:
il Chimborazo e il Cotopaxi
mi avevano rapito.

Marcia nel grande dorato sogno
avanti e indietro da scuola:
lo splendente Popocatapetl
dominava sulle strade in polvere.

Tornai a casa con un bruno ragazzo
d’oro e non dissi mai una parola:
il Chimborazo e il Cotopaxi
mi avevano sottratto il verbo:

contemplai l’incanto del suo incarnato
più bello di qualsiasi fiore:
o splendido Popocatapetl
fu la tua ora magica:

le case, la gente il traffico sembravano
sogni fatali smembrati dal giorno:
il Chimborazo e il Cotopaxi
mi avevano rubato l’anima!

*In copertina: W. J. Turner (a destra) e Siegfried Sassoon fotografati da Lady Ottoline Morrell

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