
Alcolico, irreparabile, bellissimo. Il mio viaggio “Sotto il vulcano”
Letterature
antonio coda
Fu tramite l’edizione tedesca dei diari di Alejandra Pizarnik che scoprii il legame tra la poetessa argentina di origine ebrea e Cristina Campo. Mi feci spedire il carteggio[1] dagli archivi della Princeton University, dove viene custodito il lascito letterario della Pizarnik. Immediatamente intuii i tratti di una relazione molto intensa, ma complessa e non priva di una forte tensione di fondo. Nella diversità, le due donne si riconoscono: Cristina scopre in Alejandra la sua fisicità repressa, Alejandra in Cristina la sua spiritualità sommersa. Due modi di essere nel mondo che si attraggono e si respingono, che si avvicinano e si distanziano di nuovo secondo le proprie leggi interiori.
La Campo, la raffinata scrittrice e studiosa, che vive volutamente al margine dell’ambiente letterario della sua epoca e Alejandra Pizarnik, l’eterna ragazza dai tratti geniali, psichicamente labile che si compiace nel ruolo di uno sfrenato Rimbaud al femminile e che vuole fare del suo corpo il corpo della poesia.
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Due donne
Cristina Campo. Nata a Bologna nel 1923. Figlia unica. Famiglia borghese. Il padre, il compositore Guido Guerrini, è prima direttore del Conservatorio di Firenze, poi di Roma, la madre discende da una delle più importanti famiglie della città. Un’esistenza privilegiata, segnata però da quella malattia – un difetto cardiaco, all’epoca inoperabile ‒ che le causerà la morte all’età di soli 54 anni. Non essendo in grado, per via della fragile salute, di frequentare le scuole pubbliche, la sua formazione avviene esclusivamente sotto la guida di insegnanti privati e tramite le più svariate letture. Cristina è una divoratrice di libri, un’appassionata di lingue e letterature straniere: francese, tedesca, inglese e spagnola. Presto sviluppa un raffinatissimo gusto letterario che trova al margine della cultura ufficiale l’esclusivo e il bizzarro, ossia quell’altra verità, il cuore della sua produzione poetica e saggistica.
Cristina Campo non ha alcuna intenzione di sfruttare la sua cultura per fini pratici, non ha bisogno di essere amata dal grande pubblico, ed è intransigente per quanto riguarda la pubblicazione dei suoi testi. Possiede una innata libertà interiore che la protegge davanti alle tentazioni del pensiero comune.
Ipersensibile, fragilissima di salute, ma forte di animo e dotata di un carattere determinato ‒ così si potrebbe caratterizzare quella donna che Alejandra conosce nel 1962, tramite comuni amici, a Parigi. Lei, 26 anni, Cristina 39.
Il mito di Parigi, l’eldorado degli scrittori sudamericani: un sogno collettivo che rapisce intellettuali tra loro così diversi, come Julio Cortázar, Octavio Paz, Hector Murena e altri. Senza aver terminato gli studi letterari e artistici a Buenos Aires, nel marzo del 1960, Alejandra si era imbarcata per l’Europa. Sa che i cambiamenti geografici non modificano il paesaggio dell’anima, ma sente la necessità di prendere le distanze dai genitori, ebrei ucraini, emigrati in Argentina due anni prima della sua nascita, nel 1934.
A differenza della Campo che, per quanto lucida nell’analizzare i rapporti umani in generale, tende a idealizzare i rapporti familiari, Alejandra è spietata. Nel disastro della propria infanzia ‒ in che cosa esattamente consista è poco chiaro ‒ vede la principale causa del suo squilibrio psichico, del suo malessere nel mondo.
Non diversamente dalla Campo, anche lei cresce in circostanze privilegiate. Il padre, un commerciante di gioielli, permette alla famiglia una vita senza preoccupazioni economiche. Eppure, Alejandra non si sente compresa, né dalla madre, che disapprova apertamente le sue ambizioni letterarie, né dal padre che nei suoi ricordi sembra una figura piuttosto sfuggente.
Nonostante le tensioni incessanti che, a quanto emerge dai diari, rendevano la convivenza in famiglia un inferno quotidiano, vivrà insieme a loro fino al 1968, quattro anni prima della sua morte: l’eterna figlia che attribuisce ai propri genitori la colpa per una vita che, nonostante il crescente riconoscimento letterario, non riesce a gestire e che la porterà al suicidio nel 1972.
Sono colei che mi cerca dove non sono.[2]
Con queste parole Alejandra descrive nel diario l’angoscia del proprio vivere. Un’infelicità di fondo la separa dal mondo e le impedisce di costruire rapporti durevoli. Dall’altra parte tale radicalità nella sofferenza diviene la fonte della sua arte. La contraddizione rimane.
Sostiene George Bataille che quando due persone s’innamorano, sono le loro ferite che si riconoscono. Il compimento dell’amore sarebbe dunque il momento del massimo dolore: quando le due ferite si posano una sopra l’altra. Probabilmente ciò che Alejandra e Cristina avvertono reciprocamente è la radicalitàdel vivere negli estremi. Sempre in altissimo. Sotto la soglia della massimaintensità di ogni attimo di vita nulla vale. Bisogna essere pronti a bruciare vivi.
Cristina Campo sublimerà i pericoli della sua natura intransigente nell’ideale della perfezione etica ed estetica mentre Alejandra cerca di resistere giorno dopo giorno nella spietata battaglia tra l’io e il mondo. Poiché soltanto a chi non diserta e non si risparmia sarà concesso di formulare – per dirlo con un’espressione di Ingeborg Bachmann ‒ wahre Sätze, frasi vere.
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Vieni, parliamo, chi parla non è morto[3]
In Alejandra, la Campo avverte il prototipo dell’individuo moderno che, abbandonato a sé in un vuoto di significato, non può che reagire manifestando dei disturbi psichici. Per salvare Alejandra dalle devastazioni del Zeitgeist le consiglia i libri di Simone Weil, il Lord Chandos di Hofmannsthal, e la mette in contatto con persone che ritiene possano esercitare un’influenza positiva su di lei. In particolare, in Simone Weil, la Campo vede la figura guida sui generis. Ma Alejandra si sente respinta dal rigorismo morale della Weil, anzi, la spietatezza del suo pensiero le fa paura. Il 28 aprile 1963 scrive:
“La paura che mi fa S. Weil è una paura come se si aspettasse per un tempo incerto in una stanza vuota (bianca). Forse perché ha abolito la fantasia, ossia l’arte, per instaurare al suo posto la morale (la giustizia, la virtù, la filantropia. (…) Questo significa che per me S.W. è la tentazione del salto dall’estetica all’etica. E, anche se sono cosciente di essere caotica, di venire dalle menzogne e dall’immaginazione (…) devo dire che la giustizia e la virtù non m’interessano affatto. In me c’è qualcuno che accetta il male e il disordine se essi sono le premesse di una bella poesia”.[4]
Infatti, le sue osservazioni riguardano direttamente un conflitto, forse irrisolto della Campo stessa, quello tra la ricerca spirituale e quella letteraria.
A causa della perdita delle lettere di Alejandra, non possiamo sapere se le due donne abbiano mai affrontato apertamente questo argomento. Tuttavia, nel suo diario Alejandra parla chiaramente del rapporto con Cristina. Soprattutto nel periodo tra il 1964 e il 1967 numerose annotazioni riguardanti il loro scambio epistolare provano che Alejandra viveva questa relazione in modo molto intenso, ma altrettanto conflittuale:
“Strana relazione con C.C. Non è strana, ma semplicemente una ripetizione in più. Desidero che non mi scriva più, affinché io possa soffrire. Ossia: perché lei sappia che io soffro a causa del suo silenzio”.[5]
Con il passare del tempo sempre più spesso deplora una lontananza di fondo, che, dall’altra parte, Cristina pare non avvertire:
“Lettera di C.C. La comprendo?[6]
Devo e non devo scrivere a C.C.? Tanto, non comprenderebbe mai ciò che mi duole.[7]
Lettera di Cristina. Mi fa paura. Come se mi avesse scritto un angelo.[8]
Terribile dolore a causa della lettera di C.C. a I. e, al contempo, gioia, perché in verità sono io che, nonostante tutto, sono fedele. (…) Ossessionata dalla lettera di C.C. (…) C.C. fu la mia interlocutrice interiore”.[9]
Nelle lettere di Cristina, sempre gentili e misurate, Alejandra ravvisa la natura sfuggente, intoccabile della sua interlocutrice:
“Ora non sono più arrabbiata con C. Ciò che assolutamente non posso capire: perché non ho letto le sue lettere con uno sguardo più critico? Ma queste lettere non m’interessano. C. non esiste, se non soltanto nella fantasia, è un personaggio inventato che mi scambia per qualcun altro quando parla, perché dice delle cose che non mi aspettavo. Soprattutto non ho notato la sua freddezza”.[10]
Comprende che Cristina, nonostante gli apprezzamenti rivolti alla sua scrittura, la considera comunque una scrittrice non ancora matura, bisognosa di una guida spirituale. Ma Alejandra pretende che il caos della sua vita venga preso sul serio.
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Due mondi
Da una parte la ricerca dell’armonia, dall’altra la resa al caos.
Tra questi due modi di percepire l’arte e la vita non c’è corda che leghi. Non si può arrivare a un compromesso, ma solo all’accettazione di un’altra necessità, imparagonabile alla propria. Il 19 settembre del 1967 Alejandra scrive nel diario: “Ieri sera ho raccontato a Silvina del mio scambio epistolare con Vittoria. Avevo la sensazione che le interessasse; e ancora di più: credo che abbia visto in esso qualcosa di straordinario. Indubbiamente lo è o lo era (non so come andrà avanti, non so se voglio o posso continuare). È strano, ma soltanto quando ne parlavo con lei, ho capito che la grandezza e l’intensità dell’incontro tra me e V. non è “scontato”. (…) Perché l’entrata di V. nella mia vita non mi ha mai sorpreso? Non solo non mi ha sorpreso, ma ho dimentico la sorpresa (o la non-sorpresa)”.[11] Qualche giorno dopo aggiunge: “Davvero, che libro si è dissolto in tutte quelle lettere che ho spedito o non spedito a C.C.?”[12] E nel dicembre del 1968 conclude:
“Credo che la mia corrispondenza con C.C. mi abbia dato molto, perché mi ha costretto di rivolgermi a lei in modo chiaro. È, la chiarezza, una virtù? Non so quali siano le virtù. Io conosco soltanto desideri”.[13]
L’ultima lettera di Cristina ad Alejandra invece è del febbraio 1970.
Comincia in modo leggero, con pettegolezzi su comuni conoscenti, per poi passare, come di consueto, ai consigli di lettura. Parole concilianti, il tentativo di aiutare l’amica di uscire dal circolo vizioso dell’autodistruzione che però non la raggiungono più.
L’amicizia tra Cristina Campo e Alejandra Pizarnik non si rompe clamorosamente, ma sfocia nel silenzio. Come succede in casi di questo genere, l’attrazione irrefrenabile del proprio opposto è troppo seducente per essere respinta e troppo pesante per essere vissuta fino in fondo. Il breve periodo del loro contatto epistolare non ha cambiato il corso della vita né dell’una, né dell’altra. Entrambe indomabili, si sfiorano; poi, come comete smarrite, tornano nella propria orbita, per andare laddove devono andare.
Stefanie Golisch
[1] Il carteggio è in lingua francese.
[2] Pizarnik, diari, p.162.
[3] Cristina Campo cita questi versi della poesia “Aprèslude” di Gottfried Benn nella prima lettera ad Alejandra.
[4] Pizarnik, diari, p.332.
[5] Pizarnik, diari, p.368.
[6] Ibidem, p.374.
[7] Ibidem, p. 375.
[8] Ibidem, p. 379.
[9] Ibidem, p. 383.
[10] Ibidem, p. 384.
[11] Pizarnik, diari, p.419. In questo passo, Alejandra si riferisce a Cristina Campo, chiamandola con il suo vero nome, Vittoria Guerrini. Raramente la Campo usa questo nome nella corrispondenza con Alejandra.
[12] Ibidem, p. 421.
[13] Ibidem, p.456.