In una lettera del 1958, Nelly Sachs scrive di Birgitta Trotzig a Paul Celan:
“Nella nostra epoca pietrificata è sempre un dono divino imbattersi in una persona che si lasci attraversare dalla sofferenza e dall’amore fin nell’ultima, straziante estremità del proprio essere”.
Poi accenna alla Trotzig, la definisce “un’estasiata”. L’appellativo è corretto: maestra della scrittura nottambula, che ausculta le bestie di luce di Dio, i loro belati e i loro strascichi, la stellata dei denti, Nelly Sachs riconosce nella Trotzig le stimmate dell’ostinata visionaria. Estasi, in questo caso, è categoria del linguaggio: uscire fuori dalle spore grammaticali, dalla consunzione della ragione che computa. Scostumare il verbo, lavorarlo allo scudiscio finché non emerga, abbagliante, la sua struttura ossea.
Nata a Göteborg nel 1929, poetessa di ardente precocità, la Trotzig si converte al cattolicesimo e ne assume, nei reali poetici, forme, modi, crismi. Se Nelly Sachs si fa ispirare dalla tradizione cabbalistica ebraica, la Trotzig si immerge in Giovanni della Croce e Brigida di Svezia. Sposata con lo scultore Ulf Trotzig, Birgitta vive diversi anni a Parigi, ha abitato nelle campagne di San Gimignano, nel senese. Dal 1993 fa ingresso nell’Accademia svedese, tra i membri che decretano il Nobel. Muore nel 2011. Poetessa dal talento spiazzante, la Trotzig è pressoché assente in Italia: ciò che di lei sappiamo lo dobbiamo a Daniela Marcheschi, che nel 1997, per la Fondazione Piazzolla, ha curato l’antologia Il sonno del mondo, e nel 2008, per Mondadori, Nel fiume di luce. Poesie 1954-2008.Da questo libro, ormai irreperibile, abbiamo tratto alcuni testi: è imbarazzante che ai lettori sia sottratta la possibilità di leggere una poesia di tale nitore, sempre spostata a ridosso di un al di là del linguaggio.
Così descrive la sua poesia Daniela Marcheschi:
“L’opera della Trotzig appare quasi tellurica, tanto è legata al senso della tangibilità del reale, della corporeità della materia vivente, e perciò immersa nelle cose e nel turbinio delle immagini e dell’immaginario che esse possono di continuo generare e moltiplicare. Si tratta di una poesia più spesso in prosa, colma di aperture e tensioni conoscitive, di vibrazioni segrete, di lucido sguardo sul dolore e sulla morte e di profonda pietà, di visione del male e della tenebra e di sentimento dello splendore della vita e della speranza. Tali elementi si legano e si intrecciano senza posa in un dinamismo dell’esperienza vitale, che la poesia “rispecchia” e sonda ogni volta in modo nuovo, come sono del resto antiche ma diverse, ogni volta, le esperienze di gioia e sofferenza, di disperazione e fiduciosa attesa”.
I romanzi lirici della Trotzig, “di rara forza e suggestione”, non sono mai atterrati in Italia, paese che non ha confidenza, probabilmente, con scritture che arano l’altrove, altra altura d’alba. Invece, hanno approdo in Francia, presso Gallimard. Questo è un abbrivio da Dubbelheten:
“Due mondi, estranei – difficile dire se realmente opposti o se uno nascesse dall’altro. Difficile dire quale sia nato dall’altro. Il mondo del sole era chiaro, visibile, cruento: nella sua luce accecante si faceva la guerra, luce tagliente come un coltello che tosa il giorno fino al tramonto (la biancheria sulla pietra della lavandaia, la lama per tagliare la canna da zucchero). Al sole apparteneva anche il sesso, una delle opere generose e incomprensibilmente distruttive del sole, fu durante la calura del riposo meridiano che accaddero le più strane stranezze e da lì nacquero bimbi sanguinanti, che urlavano, dagli occhi scuri, felici, al sapore del sangue.
E l’altro mondo, l’altro essere umano?”.
Non è poesia che appaga il cuore quella della Trotzig, non consiste in una pia concordia (cioè, in una irenica codardia): è, verso Emmaus, pietra che fende, fuoco che lenisce. C’è un lungo lignaggio in questa alchimia di parole ferine: c’è chi riferisce e chi fa della poesia analisi di morti reperti, che mette al giogo e chi gioca, chi osserva il mostro nella gabbia, descrivendone il piumaggio, e chi apre le gabbie.
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Predestinato alla decomposizione. La parola c’è e non c’è. L’occhio di sbieco verso la notte.
Alle tre di notte si riflette l’acqua per l’oscurità – come gioca, uccide l’argento vivo. La bocca piena di arsura, l’acqua non può parlare. Soltanto nubi, oscurità, riflessi.
L’amaro assetato annaffia le radici della vita, ricordi.
Lo splendore dell’oscurità di argento vivo. Ora è vicino.
Ciò che non può essere pronunciato. Le mani inondate. I bui pianeti errano nelle loro orbite da mutismo a mutismo.
I bui pianeti completano la loro corsa. Ciò che non può essere pronunciato come scaglia, pelle squamata. L’argento corrosivo tremola nell’oscurità. Il corpo si introverte. Le labbra appaiono silenziose nell’oscurità. Invecchiano. Il tempo è sigillato in modo insensibile.
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Nel crepuscolo caldo-umido
Nel crepuscolo caldo-umido grigio-umido la bellezza del volatile, del danzatore negli spazi di sogno multicolori.
Le tracce della bellezza, quali profezie? Il finto sistema dell’universo si è rotto, frammenti di movimento spuntano e spariscono, nero cristallo, strani profondi colori, nuovo caos bolle sotto la bella superficie fragile che diventa bellezza per il suo andare in pezzi.
Grigia città gigante, verso est. Al di sopra della città fluttua il velo protettore, Pokrov, invisibile, nero ed enorme.
(Pokrov – l’icona di Vlacerny, Ekelöf, John Tavener). Lei ha avvolto il suo velo sopra i perseguitati e li ha nascosti nella sua invisibilità.
Un uomo solo va errando cupo nel paesaggio infinitamente splendente, il suo volto è miele (Maestro di Siena – il paesaggio fluttuante sopra il regno dei morti).
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(Soglia, confine, differenza, fuori, dentro)
Qual è ora la relazione fra l’arte e la natura? dove inizia lo spazio immaginario che non è né l’una né l’altra?
Di ciò che chiamano l’io si può far a meno.
Il confine, il segreto della soglia. Che cos’è fuori, che cos’è dentro, che cos’è fuori di me, che cos’è dentro di me?
Sulla soglia. Non da questa parte, non dall’altra.
Proprio nel movimento al di sopra della soglia. Si rompe la membrana d’apparenza, la contraffatta visione “io”. Allora è nudo il mondo. Luci parlano, pietre respirano. L’occhio diventa un pianeta nero, il mondo è ora capace di vedere. Alberi sollevano le radici fuori della terra, le alzano fuori del terriccio di alberi morti. Il fango e l’orma umana sono la visione della cecità, le mani e la sensibilità delle tenebre. Le costellazioni disegnano nelle profondità della notte ciò che è concluso e ciò che non è concluso.
Il Sagittario scaglia la sua freccia, è mortale.
Tutto parla a tutto. Nella luce dello spazio, nella luce delle tenebre. Il messaggio si rivela.
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La morte del re
Nella giungla si muove silenziosa una tigre. La città che dorme con i suoi fuochi è sprofondata nella notte degli alberi, le loro dolci brucianti esalazioni contro i blocchi del muro.
È mezzanotte, il soldato cammina lungo il bastione. L’odore di acqua e sorbetto della notte gli posa come un telo sul volto e le membra: le stelle tremolano giù in fondo nel fiume.
Più in alto di tutto nel castello reale giace il re nel suo letto, le membra gli si contorcono in teli fradici di febbre: Il suo volto dorato è spento: fiaccole ne illuminano il corpo morente. La bocca si apre, il petto è sollevato da pesanti respiri. Le ombre vagano nelle grandi sale.
Le costellazioni avanzano lente attraverso la notte. Le membra del soldato sono trafitte da un freddo di morte. Sente passargli accanto il profumo di albero e acqua e febbre. Il re è morto: il suo volto si spegne ed è cancellato adagio dal mondo.
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al di sopra dell’orizzonte il cielo dai lamenti dei disintegrati: gerusalemme, gerusalemme
Portano un gigante morente, l’enorme creatura marcisce: barcollando lungo le vie e piazze cade in cenere man mano che l’orizzonte si appesantisce si spegne fa silenzio – tace, tace. E ogni occhio vuoto. Tutto ciò che è esteriore è finito in cenere e divenuto notte, ora è tutto interiore senza orizzonte senza spazio.
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La città buia sorge illuminata come per un’esplosione. Lui cade, vortica. È vivo.
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Gridavano in cantina, ovattati, chiusi. C’era tanto silenzio. La gente passava. Io compravo arance, detersivo. Urlavano nelle loro cantine. Giorno e notte non si sentiva niente. L’eco incessante dei rumori dei passanti. Poi niente.
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vedo dentro il verde, superficie all’infinito, sussurrante infinito, corpo dei sussurri, lingue, il verde è lingue e occhi, riflessi e mobilità, umidità, scintille di luce – in che modo ne sono separata, io non ne sono separata, io sono in un occhio, tutto è miraggi e sussurri, luce in uno specchio oscuro erra sempre più lontana dentro il bosco riflesso.
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nella cella, nella tenebra dell’albero
il fiore rosso sul muro, un’oscura bocca che diventa più grande: un sesso, un occhio che ingoia, profondo, serio