“Signor Baricco, perché ha deciso di scrivere questo libro?”. “Perché era il libro che volevo leggere e non trovavo da nessuna parte”. Non fa una piega. Semmai ci lavori di matita, tipo che ti segni le frasi belle, quelle che lasciano il segno. La lapis (che dio la abbia sempre in gloria) ha un segreto: si può cancellare. L’evidenziatore invece va abolito. Diamo un calcio al rigore formale e saliamo sul treno che non ha le rotaie. Per essere liberi basta, in fondo, la cosa più preziosa che abbiamo: fantasia, immaginazione, occhi per leggere. E una persona da amare, ma che forse non lo sa.
Sono tra quelli che lo hanno amato. Al passato. A quei tempi. Quando era uscito. Baricco è un “caga alto”, come si dice a Venezia. Roccioso antisocratico (da bene di saper scrivere e di saper affabulare), un po’ kieslowskiano (nell’accezione del caso o del destino che governa e decide le vite delle persone), consapevole di avere quel quid che è merce rara, quel tocco dandy, quei colori che solo Chagall, quella capacità di farti entrare in quella storia che è sua, che – ammissione cristallina e furbesca – non c’era da nessuna parte. E che non è più riuscito a replicare. Se non, in parte, in Novecento. Castelli di rabbia compie 30 anni. Punto. Nel 1991 la casa editrice Rizzoli lo ha dato alle stampe. Erano gli anni dei confronti, se vi ricordate: meglio Alessandro Baricco o Andrea De Carlo? Meglio la Milano di Due di due – quella in cui si muovono Mario e Guido – oppure quel piccolo neo nella perfida Albione, un luogo che esiste non tanto sulla carta ma dentro la testa?
Che poi una trama vera, cioè nel senso che fila dritta come una rotaia, mica c’è. Sai che sei nell’Ottocento, e sai che c’è una cittadina che è in Inghilterra e che si chiama Quinnipak e che lì attorno “sbrulicano” personaggi che non esistevano prima e che poi c’è anche la storia dell’inventore del Crystal Palace, un architetto che quando vede incendiarsi il suo progetto – nulla è più bello di un vetro che si incendia – lo sbattono in un manicomio. Si chiama Hector Horeau e in quella cosa lì ci aveva messo tutti i suoi sogni perché voleva donare un po’ di meraviglia ai visitatori della “Grande esposizione delle opere dell’industria di tutte le Nazioni” ospitata a Londra nel 1851. Si fa sei anni in psichiatria senza mai dire una parola. Baricco, per ringraziarlo, lo riabilita, e gli inventa una fine artistica, quasi architettonica, fragile come il suo vetro. “Fra le infinite violenze a cui si abbevera la pazzia, scelse per sé la più sottile e inattaccabile: il silenzio. Morì, una notte d’estate, con il cervello inondato di sangue. Un rantolo orribile se lo portò via, con la rapacità fulminea di uno sguardo”. Un epitaffio che “Spoon River” se lo sogna.
Tutti, o quasi, muoiono. Ma non così, cioè come succede alle persone normali. Muoiono in maniera baricchiana. Che se poi ti germoglia dentro la storia dell’umanofono – in pratica ogni persona emette una nota e una sola, la sua personale, e c’è un maestro, Pekisch, che dirige quindi un “organo umano” che al posto delle canne fa suonare le persone – capisci che quel libro serviva. Perché, a pensarci bene, questa cosa bizzarra delle note uniche è meravigliosa. Baricco dà una nota a ognuno, e quell’ognuno la impara, capisce se è la sua, si esercita e la dona agli altri. La fa armonizzare. E diventa musica.
Ma Pekisch è anche l’uomo che riempie d’incanto il piccolo Pehnt quando inventa un gioco, quello di parlare attraverso i tubi. Ne trovano uno, ci soffiano dentro idiomi e suoni, ma la voce, le voci, ecco, non arrivano dall’altra parte. Il tubo ha un buco? Il tubo assorbe? Ci puoi parlare dentro tutta una vita, e confidare il cuore e la mente, ma la fisica non dice bugie, anzi, ti spiega la verità. La sua verità, e cioè che la voce rallenta e si ferma. Forse.
Questa cosa dell’umanofono è geniale. Immagina una stradina di un paesello, la Quinnipak, che è tipo uno di quei posti da far west (che a Baricco gli deve essere piaciuto un bel po’, almeno come ambientazione: il western di Shatzy – lo trovi in City – e la cosa dell’orologio e del tempo è un proiettile di cristallo) pieni di polvere. Prende 24 uomini e quindi 24 note, li fa sistemare 12 da una parte e 12 dall’altra all’inizio e alla fine di una strada e poi li fa avvicinare. Poi però succede che si trasformano i tasselli di un domino e, uno a uno, muoiono. Come Waxeli “che suona una specie di cornamusa, e morirà stupefatto con negli occhi l’immagine di suo figlio che abbassa la canna fumante del fucile, senza fare una piega”. O come Tuarez, “che suona una specie di grande corno, e morirà per sbaglio in una rissa tra marinai, lui che non aveva mai visto il mare”.
Poi c’è l’amore. Senza poi: è la prima cosa. Castelli di rabbia è un romanzo d’amore. Dell’assenza dell’amore. Dell’amore immaginato, necessario, richiesto dal protocollo, inventato per inventarsi una dignità sociale. Come quello della vedova Abegg, sposata per tre anni con un libro. Come quello, meraviglioso, tra il signor Rail e le labbra di Jun. Lui la vede mentre sta salendo in una nave. È bellissima. Per intrattenerla, le racconta la storia del vetro. Si amano, si conoscono, lei scopre che lui ha un figlio, nato da un amplesso con una donna africana. Si chiama Mormy, parla poco. Però ha gli occhi grandi e la pelle color della sabbia. Con i suoi occhi ferma istanti nella propria mente come fossero fotografia: la partenza di un cavallo da corsa, le proteste dei lavoratori. Ed è in occasione di una contestazione che gli capita un sasso nella fronte, preciso, come un proiettile di cristallo. Si accascia, nel suo silenzio. E nell’incantesimo delle visioni che ha collezionato.
“Ognuno ha il mondo che si merita. Io forse ho capito che il mio è questo qua. Ha di strano che è normale. Mai visto niente del genere, a Quinnipak. Ma forse proprio per questo, io ci sto bene. A Quinnipak si ha negli occhi l’infinito. Qui, quando proprio guardi lontano, guardi negli occhi di tuo figlio. Ed è diverso. Non so come fartelo capire, ma qui si vive al riparo. E non è una cosa spregevole” scrive Pehnt, diventato grande, in una lettera all’ormai vecchio Pekisch.
Poi c’è la storia di Elisabeth, che è una “trena”, un treno femmina. Una macchina quindi che non produceva forza “ma qualcosa di concettualmente ancora sfumato, qualcosa che non c’era: la velocità”. Baricco qui si fa futurista in un assolo di parole senza punti, così, in apnea, la stessa che ti capita di avvertire nelle orecchie dopo il passaggio di una locomotiva: “Il piacere e il rumore sordo dello sgretolamento – il piacere e dentro, subdola, la malattia – il piacere e dentro la malattia, la malattia e dentro il piacere – tutt’e due a inseguirsi dentro il bozzolo della paura – la paura e dentro il piacere e dentro la malattia e dentro la paura e dentro la malattia e dentro il piacere – così ti girava dentro l’anima, all’unisono con le ruote del treno catenate sulla via fatta di ferro” e via ancora, un diretto senza fermate, che porta le persone “sui treni, per salvarsi, per fermare la perversa rotazione di quel mondo che li martellava di là dal vetro, e per schivare la paura”. Un proiettile di cristallo, un altro proiettile di cristallo. La sublimazione del vetro.
Avvicinare il primo Baricco a Kieslowski: un’eresia? No: i loro personaggi non si rassegnano mai. Nessuna forma di fatalismo nichilista si trova nei protagonisti ma piuttosto – e sempre – un guanto di sfida che l’uomo lancia al proprio destino. Vinta o persa, poco conta. Vivono – nel loro modo di vivere, fatto di sogni – e osano, ci provano, guardano dritti verso la vetta della montagna e mai invece la strada già percorsa. Domande, come quelle di Pehnt su dove si spegne una voce lanciata in un tubo lungo 200 metri. Come quelle che si fa Witek, il protagonista di Destino cieco (film terminato da Kieslowski esattamente 40 anni fa, nel 1981, ma “autorizzato” dalla censura polacca solamente nel 1987). Come quelle che si pone Jun quando vede partire il signor Rail. Come quelle, silenziose, del padre del Crystal Palace.