“La nostra merda sperimentale. È la cosa più raffazzonata che ci sia mai capitata di fare. Spazzatura. All’epoca avevamo esagerato a raschiare il fondo del barile. Il disco suona come se tra noi membri del gruppo non ci fossero idee comuni, ma negli album seguenti diventammo molto più prolifici”. Non ha utilizzato parole diplomatiche, il buon David. Certo, forse non è la cosa migliore che abbia fatto assieme ai suoi amici, però qualcosa di buono ce lo deve pur avere se è arrivato al numero uno delle classifiche della Gran Bretagna, un posto dove un pelino se ne intendono di musica.
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Il nome non ti viene quasi mai corretto, forse perché quelle tre parole lì, una appresso all’altra, non sono mnemonicamente facili. In effetti, a pensarci, quando si parla di quella cosa lì, ti riferisci alla copertina, uno spartiacque per moltissimi motivi. Il primo è che non ci trovi stampato il nome del gruppo.
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Te lo puoi girare tra le mani sino a consumarlo o a farlo diventare un cubo di Rubik. Lo puoi aprire, passare con la lente di ingrandimento ma niente, non ci trovi niente: né il titolo, né l’elenco delle canzoni, né il nome di chi lo ha suonato. Solo lei, lì sul davanti, che ti guarda e ti mostra il culo. Un’immagine pastorale, d’alpeggio. Si dice che quando il boss della EMI, L. G. Wood, vide la copertina, con aplomb tipicamente british pronunziò una sola, esatta parola: “Frisone”. Il costo di produzione della copertina fu di sole 30 sterline. L’input, lo spunto, ha una nobile genealogia: Andy Warhol.
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Atom Heart Mother è il quinto album in studio dei Pink Floyd: è stato registrato all’interno degli Abbey Road Studios di Londra ed è stato pubblicato nell’ottobre del 1970. Conosciuto come quello della mucca, che poi è una Lulubelle III, una razza bovina olandese, rappresenta una pietra miliare nel rock progressive. “La copertina faceva una gran figura, in mezzo alle altre dell’epoca che cercavano di attirare l’attenzione in modo provocatorio. La mucca attirava lo sguardo più di quanto potessi sperare: era diversa perché così normale” raccontò il grafico e fotografo Storm Thorgerson.
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Anche il titolo dell’album ha una genesi bizzarra. Tra i tantissimi articoli pubblicati sul giornale “Evening Standard” del tempo, uno si soffermava su una ragazza in stato interessante che era stata sottoposta a un intervento chirurgico: le venne impiantato un pacemaker di ultima generazione. Il cuore atomico di una madre. Non fa una piega…
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Odiato dai genitori Gilmour e Waters, ma non troppo. Qualcosa di speciale lo deve aver pure avuto se a una richiesta di un Maestro del cinema hanno risposto picche. Stanley Kubrick li contattò perché voleva mettere la title track del vinile in Arancia meccanica, non esattamente una pellicola sconosciuta. I Pink Floyd, compatti, si opposero: il regista, quando presentò le proprie intenzioni, aggiunse che si sarebbe riservato il diritto di “tagliuzzare” il pezzo per inserirlo in diverse scene. Kubrik accettò e non se la prese, anzi: nella scena girata in un negozio di dischi si vede la “Frisona” di Atom Heart Mother. Con il senno di poi, Waters disse che “forse è stato meglio che non sia stato utilizzato”.
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L’album contiene cinque tracce. Nei 23 minuti di Atom Heart Mother – frutto di un lavoro collettivo, derivato per la gran parte da improvvisazioni in studio – ci sono Father’s shout (“L’urlo del padre”), Breast milky (“Seno latteo”), Mother fore (“Madre primordiale”), Funky dung (“Escremento pazzesco”), Mind your throats, please (“Attento alla tua gola, per favore”) e Remergence, la crasi tra le parole “emergence” (emergenza) e “remember” (ricordare).
La due è If, la tre Summer ’68, la quattro Fat old sun mentre l’ultima, Alan’s psychedelic breakfast, racchiude Rise and shine, Sunny sude up e Morning glory.
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Nel 1984 la BBC intervistò Roger Waters e gli venne chiesto qualcosa su quel lavoro: “Se qualcuno qui, adesso, mi dicesse ‘Eccoti un milione di sterline, adesso vai e suona Atom Heart Mother io gli risponderei: ‘Cazzo, stai scherzando vero?’”.
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(Amo le mucche e il formaggio ma AHM non è il mio album preferito. Rimanendo in equilibrio sulle zampe, preferisco ancora oggi il maiale volante di Animals).
Alessandro Carli