“Quant’è crudele aprile?” si chiede Auden, citando il celeberrimo incipit della Waste Land. L’articolo appare nel Times Literary Supplement del 17 settembre 1954 con il titolo piuttosto generico di American Writing Today.
E in effetti la citazione eliotiana non è che un raffinato pretesto per indagare se, di là dalle differenze di sensibilità e bagaglio culturale, che poi impostano divari di forma, esistano anche differenze più profondamente strutturali in poeti come Robert Frost e Marianne Moore da un lato, William Empson e Dylan Thomas dall’altro. America versus Europa, in poesia, deve dunque la distanza che le separa e caratterizza a qualcosa di più della formazione personale e la scelta di visuale sul mondo?
Eliot parlava di Tradizione e talento individuale, il saggio è noto. Auden si spinge oltre. Mette sul tavolo essenze più sottili e profonde, l’imprinting del paesaggio, che si traduce in solco di passato e di leggenda, con tutto ciò che una nebulosa come il “leggendario” porta con sé. Il paesaggio, lo scenario naturale di cui ogni poeta si nutre, che forgia in parte il suo temperamento, abitua il suo sguardo ad aderire intimamente a un certo ambiente piuttosto che a un altro. Braudel ha scritto parecchio in proposito, e i violini di Vivaldi non sarebbero forse così frenetici – il Presto assai così spesso ansimante – se le onde veneziane non sbattessero con clangore e furia di mare contro le fondamenta che danno in mare aperto.
Il saggio How cruel is April? esordisce con l’irriverente sorriso audeniano, vagamente impastato d’ironia alla Oscar Wilde: Chiunque abbia visitato entrambe le nazioni può pensare di entrambe: gli inglesi vivono in un clima mite di “tempo atmosferico”, gli americani in un clima di estremi violenti. In Inghilterra non esistono più vastità primitive inesplorate e zone inabitate, ma nel raggio di cinquanta miglia da New York City ci si può perdere fatalmente nei boschi e un guasto al suo sistema d’irrigazione trasformerebbe in pochi giorni gran parte del sud California in deserto …
Più che l’inaridimento pur spaventoso della California è il “perdersi fatalmente nei boschi” che fa suonare un campanello d’allarme nella nostra mente di lettori, perché ricuce l’istante all’atmosfera di precisa allucinazione di alcuni versi da 1 settembre 1939:
Lest we should see where we are,
Lost in a haunted wood,
Children afraid of the night
Who have never been happy or good.
A meno che non vedessimo dove siamo,
Perduti in un bosco incantato,
bambini che hanno paura della notte
Che non sono mai stati felici o buoni.
È la minaccia del male nella storia. Non contando che dopo Dante, l’ha detto Brodskij, ogni bosco che incontriamo non può non sprigionare un indistinto sapore di “selva oscura”.
Che Auden associ la paura al bosco sfonda forse una porta sulle sue, personali, paure, oltre che sulle nostre in quanto umanità. Ma per tornare al saggio, mentre Auden si addentra nei paesaggi britannici e americani introduce un altro elemento, roccia carsica di molta letteratura vittoriana, da Goldsmith a George Eliot fino a Byron: l’identità uomo-natura, con anello di congiunzione nel ‘sentimento’: La concezione arcadica della Natura come benevola e umanizzata è tanto naturale agli inglesi (tranne, forse, ai poverissimi [pensiamo a Jude the Obscure o certe scene dickensiane]) quanto è incomprensibile agli americani. Sono prontissimo a sentire che il primo verso della Waste Land è adattato dal francese, ma continuerò a pensare che la reazione di Eliot al quarto mese dell’anno è americana come quella di Browning è inglese.
Qualcuno ha detto che quando Auden è andato in America lo scambio con Eliot, venuto al contrario in Inghilterra per “farsi un’anima europea”, è stato equo. Tuttavia qui Auden sembra rincarare la dose:
Nel racconto Le terre di Arnheim Poe descrive un’Arcadia americana ma la sua realizzazione e il suo mantenimento richiedono tutte le risorse dell’uomo più ricco del mondo. In ogni romanzo poliziesco inglese lo stesso tipo di paesaggio è alla portata del curato del villaggio.
In altre parole: anche quando la voce di natura in Inghilterra è aspra quanto in Thomas Hardy – “La vita offre negazione!” chiosa Auden – quella voce è sempre “umana e comprensibile”. Può aver attraversato Schopenhauer o Darwin e stravolgimenti della storia, a Dover Beach gli eserciti immaginari di Matthew Arnold si scontrano l’un l’altro drammaticamente “ignari” e “al buio”, eppure il suo volto continua a mostrare i tratti riconoscibili di Terra madre.
Non è così negli Stati Uniti, dove può facilmente subire metamorfosi inquietanti e diventare la balena bianca di Melville, o l’inumano Altro contro cui l’uomo deve mettere in gioco la propria umanità.
E Auden stocca l’affondo: La Natura americana può essere devastante ma impossibile da propiziarsi con preghiere o riti, e chi l’ama deve imparare stoicamente a sopportare la sua indifferenza e non confondere coraggio e romantica assenza di prudenza.
Pur di argini piuttosto ampi, l’alveo qui sembrerebbe di eco leopardiano. Poi l’anticlimax è destabilizzante: se la natura s’infuria, il suo amante farebbe meglio ad armarsi in modo davvero anticavalleresco di un bulldozer o andare a ripararsi.
L’irriverenza audeniana porta – comunque –sempre frutto. Secondo Goethe il grande scrittore deve portare un po’ a spasso il lettore – non senza qualche canzonatura narrativa a suo danno – prima di concedergli un epilogo alla storia. E qui Auden ci porta infine dove voleva, a introdurre Frost (citato all’inizio) e, allargata la prospettiva con twist inedito, allo sfondo politico e sociale:
La stessa posizione, Frost suggerisce nella poesia A Drumlin Woodchurck, è la più saggia che l’individuo possa adottare nei confronti della nostra società egualitaria.
Fa insomma ritorno anche lui al tema della “tradizione e del talento individuale”, ma lo fa alla Auden, tirando le somme di ‘tradizione’, ‘passato’, ‘natura’ e ‘cultura’ in poche, brillanti, paragrafi.
La convinzione – e conclusione – è che il rispetto, talvolta la “reverenza” per il passato siano doverosi – senza rispetto per il passato “non si può scrivere letteratura di alcun valore” –, ma allo stesso tempo l’idolatria del “passato in quanto passato” è paralizzante e “da questo gli americani sono risparmiati”. Paese dei tornado, delle inondazioni e della siccità, della natura non del tutto addomesticata e mai del tutto domata, l’America è anche il paese delle aperture incessanti, dove il futuro non dipende per nessi inevitabili – o non solo – da tecnologia e acume politico:
… se Huckeberry Finn non può più vagheggiare il Selvaggio Ovest, può sempre credere che se non ci riesce oggi, può benissimo ricominciare domani altrove: se vuole può ricordare il passato ma non deve farlo necessariamente, e per lui l’unico significato del passato è la sua importanza per il presente.
Il che spiega anche perché i migliori critici, scrittori e poeti americani hanno saputo e potuto guardare all’eredità letteraria che hanno in comune con l’Inghilterra (la “tradizione”) con spontaneità (il “talento individuale”) e indipendenza di giudizio straordinari per gli europei.
Certo, gli europei possono sorridere a inesattezze e anacronismi di certi film hollywoodiani – “Cleopatra: “Porta una lettera a Cesare. A Cesare, Roma. Caro Cesare…” –. Ma un paese dove anche strafalcioni del genere fossero banditi, a cui mancassero – e con quella libertà – freschezza e assenza di pregiudizi forse non avrebbe potuto dare interpretazioni tanto creative della tradizione in poeti come Eliot e Pound, a cui l’Europa deve moltissimo.
Paola Tonussi