16 Aprile 2020

“Perché tu fai la pipì nel bagno?”. Benvenuti a casa Auden, il monaco del caos: disordine ovunque, una piramide di sigarette, i visitatori alle quattro, la cena alle sei e tutti a nanna alle nove

Da quando era tornato a New York, alla fine dell’estate del 1945, Wystan Hugh Auden aveva preso in affitto appartamenti diversamente inadeguati. Aveva vissuto con Chester Kallman in un capannone nella Seventh Avenue: un luogo particolarmente insoddisfacente, privo di acqua calda e di un funzionale portone d’ingresso. Così, quando, nel febbraio del 1954, lui e Kallman si trasferirono al numero 77 di Saint Mark’s Place nel Lower East Side, le aspettative di un miglioramento erano tante. Il poeta era certamente molto soddisfatto di quel posto fin dall’inizio tanto da definirlo “il suo nido di New York”. Auden rimase lì fino alla sua infausta partenza per Oxford nel 1972. Dal 1949 iniziò a trascorrere le estati in Italia, a Ischia, fino al 1957, anno in cui acquistò una piccola fattoria a Kirchstetten in Austria, che lo incantò tanto da dedicare al posto una sequenza di poesie intitolata Thanksgiving for a Habitat nella raccolta About the House (1965), in cui celebrava la sua vita domestica. In queste case estive tendeva a scrivere poesie, mentre a New York faceva la vita da “uomo di lettere”, etichetta che applicava a se stesso. Una volta scrisse: “È un fatto triste per la nostra cultura che un poeta possa guadagnare molto più denaro scrivendo o parlando della sua arte di quanto non possa farlo praticandola”; ma allo stesso tempo si vantava della sua professionalità come revisore, saggista, antologista e commentatore, lavoro che, a sua volta, spesso gli suggeriva argomenti per le poesie.

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Subito dopo essersi sistemato nella nuova casa, invitò il suo giovane amico Charles Miller per mostrargliela: “La prima stanza (atrio), ampia e con il soffitto alto, aveva un camino in marmo verde con accanto degli scaffali, un giradischi malconcio con dispositivi per altoparlanti e la sua consumata raccolta di dischi. Al centro della disordinata sala erano posizionati un squallido divano grande e un antico tavolino da caffè. Continuai a seguire Wystan: passammo sotto un arco e arrivammo in una stanza simile a quella precedente nella parte anteriore della casa, anche questa con un camino in marmo verde. Era stata arredata da poco, fatta eccezione per le librerie a incasso e il piccolo tavolo da lavoro appena illuminato dalla luce filtrata dalle grandi finestre del XIX secolo. A destra di questa stanza, di fronte a Saint Mark’s Place, c’era una cameretta con la porta chiusa dalla scala dell’ingresso. La stanza aveva solo un lettino per bambini, nel quale, a detta di Wyston, dormiva”.

Si può immaginare Auden a Oxford: uno studente universitario che preferiva tenere sempre le tende tirate, e che sembra aver adottato la stessa politica anche in America. Quando Stephen Spender lo andò a trovare negli anni Quaranta, tentò inconsapevolmente di aprire le tende e le fece cadere per terra. “Idiota!”, lo rimproverò Auden, “Perché le hai tirate? Nessuno le tira mai. E poi a New York non c’è luce”. La serie di stanze di Wystan diede alla sua amica Margaret Gardiner “la sensazione di caverne nerastre, di un nero che sembrava pervadere tutto, persino la stessa aria”.

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Il territorio di Auden era la parte anteriore dell’appartamento; quello di Kallman quella posteriore, dove c’erano la cucina, la stanza della musica e anche delle camere da letto separate per Kallman e per un inquilino. Auden era particolarmente soddisfatto dei caminetti e gli piacevano le piastrelle di porcellana in cucina. Nella zona c’erano molti negozi italiani, polacchi e ucraini che vendevano buon cibo. L’edificio in cui abitava aveva persino una storia: Trotsky aveva scritto alcune opere nel suo seminterrato, un fatto che Auden sembrava gradire; mentre il precedente inquilino del suo appartamento era un abortista illegale. (Di tanto in tanto si presentavano degli aspiranti clienti per vedere se la casa era in vendita). Auden mise il barometro di suo padre sul caminetto e appese al muro l’acquerello di Blake The Act of Creation, regalo della sua ricca protettrice Caroline Newton. Il suo evidente orgoglio era per il posto, per la zona e non c’era alcun motivo per essere orgoglioso della sua casa. Questo lo si nota dal racconto retrospettivo di Miller che, nonostante i suoi tocchi di bella scrittura, comunica abbastanza bene il messaggio: “Sul tavolino si trovava la sua raccolta familiare di libri, periodici, tazze di caffè semivuote imbevute di panna, un pizzico di cenere di sigaretta per una buona boccata e un cantuccio di baguette (troppo duro per le nuove dentiere di Wystan?). Un piatto ovale fungeva da posacenere dove c’era un Vesuvio di mozziconi di sigarette ammucchiati uno sopra l’altro, ceneri, pezzetti di cellophane da pacchetti scartati, qualche nocciolo di olive imbevuto di martini e un mozzicone di sigaretta finale che emetteva una flebile nuvola di fumo dalla cima del vulcano. Tutto questo puzzava di fondo di caffè, nicotina catramosa e pelle morta che si trova tra le dita dei piedi mescolate all’inquinamento metropolitano: il cattivo odore della casa di Wystan”.

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Questo era il suo nuovo appartamento. “La velocità con cui poteva distruggere una stanza era a malapena credibile, ma sicuramente pericolosa”, osservò il suo amico James Stern, parlando per esperienza. In un’occasione aveva lasciato Auden nel suo appartamento, ritornando poco dopo per prendere qualcosa. “Se non fosse stato per le foto sui muri non avrei saputo dire dove fossi”, ricorda Stern. “I ladri non avrebbero potuto creare un caos peggiore… Dio, era un casino!”. “Caro, adoro questo appartamento, ma non riesco a capire perché non ci sia più un posacenere!”. L’appartamento a Saint Mark’s Place assomiglia di sfuggita a quello che Robert Craft, il braccio destro di Stravinsky, aveva visto con una certa incredulità: una confusione tra “bottiglie vuote, bicchieri di martini usati, libri, documenti, registrazioni di fonografi”. La cena con loro sarebbe stata alcolica e deliziosa (Kallman era un cuoco eccellente), ma le posate sarebbero state unte e i piatti lavati spesso in malo modo. “È l’uomo più sporco che mi sia mai piaciuto” disse Stravinsky di Auden, un toccante se qualificato segno di considerazione.

Auden e Kallman non erano amanti da tempo, ma vivevano in una sorta di famiglia coniugale irritabile a cui Kallman presentava spesso l’ultima conquista. All’inaugurazione della casa, secondo un vicino, Kallman portò con sé un bel marinaio: dopo tre cocktail letali (una miscela di tè inglese, vino bianco e vodka) il giovane rimase in calze, usò in modo inappropriato un salame kosher e diede una vera interpretazione di “Anchors Aweigh!”. Auden, apparentemente per lo più arrabbiato per la vicenda del salame, che era stato un dono, ordinò a Kallman di “mandar via immediatamente quel buffone”. La storia è probabilmente troppo bella per essere vera, ma mostra comunque il genere di vicende che venivano raccontate. Ogni anno, per esempio, c’erano grandi feste di compleanno, ma l’eclettica cerchia di amici e conoscenti di Auden e dello champagne californiano erano spesso complici di incidenti. Lo scrittore russo emigrato Yanovsky ricordò di una volta che, all’una di notte, una donna aprì inavvertitamente la porta della camera da letto di Auden. Lui le urlò contro con rabbia e sdegno, ma in seguito Chester riuscì magistralmente a calmarlo.

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Questo aneddoto è di lieve entità, ma suggerisce qualcosa riguardo il senso di un comportamento eccentrico di Auden sul possesso e sul controllo. Louis Kronenberger, il suo collaboratore del Faber Book of Aphorisms, osservò: “Non mostrava quasi alcun interesse per i beni o per il fatto di vivere o persino in quello che si potrebbe chiamare conforto… Non era un vero bohémien: appariva sgualcito, ma non viveva interiormente una vita da zingaro, al contrario era una persona ordinata, ligia”. Ad un certo punto della sua vita, poco dopo aver lasciato l’Inghilterra, Auden aveva vissuto in circostanze seriamente bohémien: viveva al numero 7 di Middagh Street a Brooklyn Heights condividendo la casa con Benjamin Britten e Peter Pears, Carson McCullers, Golo Mann, l’artista dello spogliarello Gypsy Rose Lee, e per un periodo con uno scimpanzé addestrato. Britten e Pears ebbero, ben presto, abbastanza del caos e se ne andarono; ma Auden accettò in modo positivo questa decisione, non tanto come inquilino, ma piuttosto come nuovo “capofamiglia” e “dea del focolare domestico”. Organizzò i pasti della giornata assicurandosi che tutti gli inquilini fossero puntuali, comunicò loro le nuove regole, infine calcolò e incassò i pagamenti. In genere manteneva tutto in perfetto ordine, nonostante ci fossero delle circostanze poco raccomandabili. Come disse una volta: “Mi dispiace, caro, non si dovrebbe essere bohémien!”.

Stabilì così quale sarebbe diventato il suo metodo duraturo all’interno delle mura dell’appartamento di Saint Mark’s Place. Nonostante il caos proliferante che lo circondava, la giornata correva secondo un calendario rigoroso. Poteva lavorare per otto o dieci ore con mezz’ora di pausa pranzo, mentre le chiamate non erano assolutamente benvenute. Alle quattro c’era un’ora “a porte aperte”: momento a cui potevano partecipare studenti e ammiratori, una sessione indicata con formalità edoardiana come “ora del tè”, anche se si potevano offrire altre cose. Poi un’altra ora, alle cinque, chiamata “ora del cocktail”. La cena doveva essere servita puntualmente alle sei. Non ha mai lavorato la sera, infatti una volta disse al suo amico Orlan Fox: “Solo gli Hitler di questo mondo lavorano di notte. Nessun artista onesto lo fa”. La cena era sempre a un orario prestabilito: non poteva sopportare che i pasti fossero in ritardo più dei visitatori. Andava a dormire all’orario stabilito (prima dalle undici alle dieci, poi dalle nove e mezzo alle nove) a prescindere dalla compagnia che aveva a cena. In un’occasione, quando degli amici di Kallman non mostrarono alcun segno di lasciare la tavola nonostante l’ora tarda, Auden andò in bagno e poco dopo fece un’insolita apparizione con il viso coperto di bolle. Poi attraversò di proposito l’appartamento lanciando uno sguardo di disapprovazione agli ospiti e scomparve nella sua camera da letto. L’effetto? Ilarità, ma ben presto gli ospiti se ne andarono. (Il bagnoschiuma, preso direttamente dal reparto dei prodotti per bambini del supermercato Woolworth e regalato da Orlan Fox per Natale, fu una vera e propria indulgenza). La tempestività e la routine divennero una sorta di ossessione. Diceva di avere fame solo secondo la sua “tabella oraria” e che, se avesse perso l’orologio, si sarebbe sentito totalmente smarrito. “Non gli piacevano le sorprese, i cambiamenti, le deviazioni, o tutto ciò che potesse fargli perdere il suo equilibrio”, disse il suo amico Yanovsky. Una volta, in un incontro con Stravinsky, alla domanda “Come stai?” Auden rispose: “Beh, comunque sono puntuale”.

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In una poesia irascibile scritta per celebrare il suo sessantacinquesimo compleanno, Kallman lo definì: “L’erede più scompigliato di tutti i sostenitori della disciplina”. Evidentemente Kallman ormai si era abituato alla sua semiseria tirannia domestica. In caso di necessità pronunciare la frase “Alla mamma non piacerebbe” divenne uno vero e proprio standard morale. Un elaborato gioco sulla rispettabilità borghese attirò l’attenzione della famiglia. Era una sorta di parodia della vita domestica, in cui le istruzioni matriarcali erano rappresentate dalla passione, ma erano anche totalmente comiche: quando Auden adottava un tono di disapprovazione verso Kallman lo chiamava “La padroncina”. In effetti, come aveva visto Robert Craft, l’ordine mantenuto nell’appartamento dipendeva in gran parte da Kallman che, tuttavia, non era affatto un pignolo. La volta che Kallman decise di non tornare più a New York, nel 1963, Auden iniziò a presiedere la famiglia senza alcun intervento a parte una cameriera che andava a pulire in casa una sola volta alla settimana. Yanovsky affermò che nella cucina e nel bagno c’era un caos infernale. “Fai pipì in bagno?” chiese Auden con dignitosa sorpresa, dopo averlo visto arrossire perché la porta non riusciva più a chiudersi. “Sì, ​​come le altre persone”, rispose Yanovsky. “Tutti quelli che conosco la fanno nel lavandino. È un privilegio maschile”, fu la risposta del poeta: dolce e non intesa, ma che sminuì l’amico. Senza Kallman, l’appartamento scivolò in un caos ingestibile. Man mano che il quartiere diventava sempre più povero e fatiscente, l’appartamento diventava sempre “più tetro e più polveroso che mai”, come in seguito affermò Margaret Gardiner. “All’epoca Auden era molto tormentato”.

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“Molte volte”, scrisse Hannah Arendt, una delle sue amiche più astute di New York, “quando, a quanto pare, non poteva più farcela; quando il suo appartamento nei bassifondi era così freddo da non avere nemmeno l’acqua tanto da arrivare ad usare il bagno del negozio di liquori all’angolo della strada; quando il suo abito – nessuno poteva convincerlo che aveva bisogno di almeno due abiti o due paia di scarpe e oggetto di un infinito dibattito negli anni – era coperto di macchie o talmente tanto indossato da avere i pantaloni lisi; ecco, in una situazione così disastrosa che ti colpiva, lui iniziava a intonare una versione del tutto idiosincratica e assurdamente eccentrica che si considerava fortunato”.

“La vita rimane una benedizione / Anche se non sai benedire”, aveva scritto molti anni prima. Hannah Arendt rimase sconcertata dal fatto che Auden non avrebbe dovuto semplicemente sopportare la sua condizione, ma in qualche modo doveva aver creato delle “circostanze assurde da rendere la sua vita quotidiana davvero insopportabile”. Eppure, dopo la sua morte, si stabilì una sapiente connessione tra il caos delle circostanze domestiche con quella che venne identificata come esperienza “nelle infinite varietà di amore non corrisposto”. Se avesse riguardato qualcun altro, lo stesso Auden sarebbe stato il primo a studiare in modo comprensivo la psicopatologia del soggetto in una strana autopunizione; ma altri osservatori non capivano così facilmente il fenomeno che portava qualcuno a fare una tale confusione. Edmund Wilson pensava che Auden “volesse alloggiare di proposito in sistemazioni scomode, squallide e grottesche” e di essersi “condannato a ciò per il resto della sua vita. Auden sembrava pensare di acquisire merito vivendo in modo rigoroso, ma con un tocco di fantasia, nel mondo meno attraente possibile”.

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Ma lo stato dell’appartamento non era solo un segnale di qualche nevrosi autocritica: i profusi detriti della sua vita erano anche il luogo di una straordinaria intelligenza letteraria. Sarebbe un po’ troppo pedante citare il “tale ordine sbocciato dalla confusione” di Swift, sebbene sia certo che molte delle affermazioni di Auden sulla poetica, molte senza dubbio scritte su quella scrivania che si affaccia su Saint Mark’s Place, sottolineino ripetutamente l’importanza della forma e dell’ordine. Una poesia, affermò Auden diverse volte durante quel periodo, trasforma l’esperienza personale sul mondo decaduto con tutta la sua “oppressione e confusione”, in qualcosa di momentaneamente riscattato e, all’interno di speciali confini artistici, in una visione del bene. Ma poi i più grandi poeti, come Swift e Auden, sono consapevoli di essere agenti morali e fabbricanti poetici, che non si devono dimenticare dello scompiglio che è, in primo luogo, il pretesto delle loro poesie perché: “niente è bello, / neanche nella poesia, il che non è il caso”. È difficile non credere che in qualche modo i grandi scritti di Auden degli anni Cinquanta e Sessanta, così spesso tormentati dall’estetica finale dell’ordine e dalla sua assenza nella realtà umana, abbiano attinto in qualche modo intuitivo al fertile disordine che ha presieduto l’appartamento del poeta. Lo stesso Auden rispose all’ovvio disgusto di Wilson riguardo le sue condizioni di vita: “Odio vivere nello squallore, lo detesto! Ma non posso fare il mio lavoro vivendo in altre circostanze”.

Seamus Perry

*Questo articolo è stato pubblicato come “W.H. Auden Was a Messy Roommate” su “Paris Review”; la traduzione è di Caterina Rosa. Il testo è parte del volume collettivo “Lives of Houses” (Princeton University Press, 2020)

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