
Il poeta operaio. Vita avventurosa di Giovanni Descalzo, uno scrittore da riscoprire
Letterature
Francesco De Nicola
Ezra Pound in ABC of Reading: “Dichten = condensare. Significa che la poesia è intensificazione, la forma più concreta di espressione verbale”. Simon Armitage dice la stessa cosa in modo memorabile, metaforico: “Quanto più potere e forza può essere immagazzinato – e ritrasmesso – in forme compatte. La poesia è la batteria Duracell del linguaggio”. Entrambi i poeti vanno dritti al punto. Ma c’è un mutamento – di tono, di attacco – illustrato dalle fotografie che Armitage scopre da adolescente “sonnambulo”, sfogliando Worlds, campionario di poeti contemporanei allestito da Geoffrey Summerfield: “Norman MacCaig guarda la televisione e fuma paglia”. Siamo in un mondo riconoscibile.
Con noncuranza, come è tipico di Armitage, in queste dodici conferenze tenute quando era “Professor of Poetry” a Oxford, il poeta prende tutto ciò che ha a portata di mano, si fa ispirare da ogni dettaglio. Ad esempio, sui trattini di Emily Dickinson: “forma elevata di nota musicale che crea sospensioni momentanee; piccoli salti e trapezi; battiti d’ala; dilazioni cognitive aeree; giostre in miniatura su un tappeto magico; micro-viaggi sul palmo della mano del poeta, durante i quali il lettore scivola da un’idea all’altra senza mai toccare il suolo, senza percorrere lo slalom di virgole né fermarsi alla luce ambrata del punto e virgola, né barcollare nella stalla di un’ellissi né bloccarsi contro la ruota medioevale del punto”.
Invenzioni a capofitto da cui s’intravede l’influenza di Ted Hughes, antico maestro di Armitage. Critica come bricolage. Nella stessa pagina paragona George Mackay Brown, un poeta che non si è mai mosso dalle Orcadi, alla lirica zitella di Amherst: “La tranquilla e circoscritta esistenza di Emily Dickinson nella piccola cittadina di Amherst, Massachusetts, fa sembrare George Mackay Brown, al confronto, un Indiana Jones”.
Armitage, a quanto pare, ha capito che svolgere conferenze sul proprio lavoro è “volgare”. Dunque, non lo fa. Ma sappiamo, leggendo T.S. Eliot, che per un poeta compiere l’esercizio critico significa ragionare su di sé: “Sia nelle affermazioni generali sulla poesia che nello scrivere di autori che mi hanno influenzato, ho sempre difeso implicitamente il mio modo di intendere la poesia”. L’ars poetica di Armitage sta nel punto di intersezione tra indifferenza e filo spinato: “La relazione tra ciò che è evidente e l’invisibile – tra offerto e trattenuto – mi sembra una delle dinamiche cruciali in cui si muove la poesia”.
Le sue critiche negative sono spesso argute. Ad esempio, quando parla di due poetesse sorprendentemente note, Claudia Rankine e Kae Tempest, dice, “spesso il solo punto di forza della poesia autentica è che non vende”. C’è però un lato politicamente corretto in Armitage. In una bella lezione su Elizabeth Bishop, rimprovera a questa poetessa il suo paternalistico, elitario atteggiamento verso la working class, come emerge in Other. Per far questo, denigra alcune poesie eccezionali per ragioni morali. Non gli piace Manuelzhino per la politica razziale e la “lista di lamentele fatte dalla padrona di casa contro l’indomabile indigeno”. Ma non è sottilmente razzista insistere, sempre, sul fatto che l’Altro non possa mai essere irritante? Forse si vuole imporre una uniformità idealizzata? In un alto punto Armitage stigmatizza la parola “lista nera” – “ancora d’uso comune, perfino nelle pubblicazioni liberali”. Beh, e come la mettiamo con “mercato nero”, “lavoro nero” o “blackmail” [estorsione]? Non si può essere troppo delicati se si anela alla grandezza. Piuttosto, va letta la brillante analisi che Armitage fa delle pretese poetiche di Bob Dylan.
Craig Raine
*L’articolo, come “Poems are the Duracell batteries of language, says Simon Armitage”, è pubblicato su “Spectator”. Le lezioni di Armitage a Oxford, come professore della leggendaria cattedra di poesia – che si possono ascoltare qui – sono pubblicate come “A Vertical Art” da Faber and Faber.
*
Astronomia per principianti
Avevi otto anni e stanavi pianeti e stelle, stavano
nel secchio pieno di pioggia, in cortile.
Acquattato, nella notte senza nuvole, attendevi
i riflessi esatti di Alfa Centauri o di Marte,
si cristallizzavano sotto il tuo naso, la costellazione –
intera e intatta – che glassava la superficie
come una pellicola di ghiaccio. La luna
cresceva dura e densa nella profondità dell’acqua
come un osso di dinosauro – avresti avuto bisogno
di un retino. Solo la stella polare si è mostrata
sulla lente liquida per poi sciogliersi
mentre la sollevavi sulla punta del dito.
Il telescopio russo non aiuta:
qualche camera oscura nel cilindro
capovolge la mappa della galassia;
dallo spioncino, le famiglie penzolano dal soffitto
come pipistrelli e le pecore sono appese a
nuvole verdi per gli zoccoli. Avevi trent’anni, allora.
Stanco degli appostamenti, stanco di vagare
per macchie solari, oro dei folli, hai barattato
la luce delle stelle per l’ornitologia, per il canto
astratto degli uccelli. Una volta, da una duna di sabbia,
sulla sponda occidentale del Windermere, un passero
si è inchinato, mangiando sul palmo della tua mano aperta.
Antico splendore, antichi amori. Ora sei
in cerca di nuovi segni e presagi, prestigio
di nane bianche o giganti, reclami
lo spazio profondo sulla pagina bianca, catturi a strascico
angeli e buchi neri in un barattolo di vetro, consapevole
della morte, certo che non arriveremo mai così lontano.
Dov’è finita la scatola con gli adesivi luminosi?
E quel sistema solare che ruotava
su un filo invisibile? Quando è uscita di casa
sei caduto sul letto di tua figlia svegliandoti
in una grotta Navajo, remoto linguaggio di luce
entrando d’improvviso nel pieno della creazione.
Simon Armitage
*Poesia commissionata dalla Royal Astronomical Society per i 200 anni del loro anniversario.