Rainer Maria Rilke: il poeta che ha scritto la morte per celebrare la vita
Poesia
Maura Baldini
Quando si legge un grande poeta statunitense, l’idea un po’ generica è che con il linguaggio possa fare ogni cosa. È come se il cosmo fosse ai suoi piedi: può scrivere una poesia imitando i toni di un poeta cinese dell’VIII secolo; può sintetizzare i modi di Orazio e quelli di Basho, gli oracolari versicoli di Rilke e le apocalissi di Blake; optare per la poesia dialogica o per quella assertiva, per la poesia metafisica o per quella brutale, volgare.
Intendo dire: in un grande poeta statunitense contemporaneo, la tecnica è spiazzante. Di questa poesia tutta intelletto, colta e popolare a un tempo, è facile inebriarsi – di solito, a queste latitudini, la poesia è degli ispirati domenicali, dei fanatici del cuore, ma il cuore, si sa, è un pessimo poeta: la poesia passa per le viscere, per omerici polmoni, per una mente-Ulisse. Il rischio di una poesia di questo stampo, tuttavia, è proprio nella ragione del suo fascino: risulta artefatta, di una monumentalità un poco astratta. Insomma, pare che quel poeta possa scrivere – sempre meravigliosamente, impeccabilmente, audacemente – di alberi & lupi come di Marilyn Monroe, di Bisanzio come di Topolino. Problema atavico – per chi è autenticamente poeta, gli altri razzolano dove li porta l’ego –: fare della poesia il campo della propria incessante ricerca o fare razzia di ciò che si è cercato per tentare la propria singolare, monotona voce? Costruire un tempio o incenerirlo?
Mi fermo, finirei per tubare a casaccio.
Robert Pinsky – americano di ascendenze ebraiche, nato nel 1940 a Long Branch, New Jersey – è poeta di onnipotente cultura, d’infinito estro. I suoi libri, vivaddio, testimoniano una varietà stilistica e tonale sgargiante, un ingegno a tratti impareggiabile, che passa – in calce abbiamo tradotto un repertorio di liriche – dal canto di un samurai alla riscrittura di un noto passo dei Vangeli apocrifi dell’infanzia di Gesù. Alcuni libri di Pinsky – History of My Heart, ad esempio, del 1984 e The Want Bone del 1991 – sono entrati di diritto tra i ‘classici’ contemporanei; la sua traduzione dell’Inferno di Dante (1996) è additata come un capolavoro. Eccolo, Pinsky: affascinato dalla gilda dei poeti dello Stilnovo come dalla musica jazz, da Czeslaw Milosz, che ha tradotto, come dalle storie bibliche del re Davide (a cui ha dedicato un libro, The Life of David, nel 2005). Da ragazzo, era un estroso del sassofono; in un’intervista rilasciata alla “Paris Review” ha detto che leggere una poesia “è una sensazione inequivocabilmente fisica”, cioè che la poesia è sostanzialmente suono, musica, chiamata. Accademico di primo piano – la cultura, la cultura… virtù e veleno della grande poesia! –, ha insegnato a Berkeley e alla Boston University; diverse sue lezioni sono disponibili on line; questo suo suggerimento didattico non è del tutto campato sui campi Elisi:
“La poesia è arte vocale, non per forza performativa. Possiamo leggere in solitudine, passare a memoria dei versi: quel formicolio fisico è l’esperienza della poesia. Durante le mie lezioni, chiedo agli studenti di scegliere una poesia da imparare a memoria. Non importa ‘l’esecuzione’, ma la dedizione. Vedere qualcuno che a vent’anni modella con la bocca i suoni creati da un altro uomo, morto magari diversi anni prima, vissuto, magari, a migliaia di chilometri di distanza da noi, è una cosa che mi commuove sempre. Si è posseduti e a contempo possessori di quella poesia”.
Poeta laureato degli Stati Uniti dal 1997 al 2000, Robert Pinsky è il sopravvissuto di un’importante generazione di lirici di laggiù, che conta, tra gli altri, Mark Strand, Charles Simic, Louise Glück e Iosif Brodsky (suo coscritto, in dolce esilio americano). Non sarebbe stato improprio vederlo trottare nei pressi del Nobel per la letteratura; lo abbiamo visto, invece, in una puntata dei “Simpsons”, era il 2002 (per i fan, s’intitola: Little Girl in the Big Ten). Questo per dire della sua fama negli Usa, inversamente proporzionale a quella in Italia, dove Pinsky è quasi sconosciuto (un suo solo libro, Un’America, è stato tradotto nel 2009 da Le Lettere).
Pinsky è poeta del vigore, della vitalità, della gioia: non è male in un’epoca di imbarazzanti prefiche. Dice di aver dato la vita per la poesia, per la sua diffusione planetaria, eccetera. Un bel sito ne onora opera e biografia. Da vecchi, incanutiti europei, crediamo che la poesia debba stare sotto strati di pudore, vagare silente nel sottosuolo, angelica e mostruosa, lasciarsi cercare più che cederla al mercato e metterla sul palco; crediamo debba essere ostia e ostilità. Ma queste sono fisime da apostata.
***
Canzone del samurai
Senza tetto ho fatto dell’audacia
la mia casa. Privo del pasto
ho lasciato ruminare gli occhi.
Senza occhi, ho dato ascolto.
Senza orecchie, ho pensato.
Senza pensieri, ho atteso.
Privo del padre ho reso
la compassione mio padre.
L’ordine fu l’unica madre.
Gli amici svanirono: feci
del silenzio il mio confidente.
Se non hai nemici, inimicati il corpo.
In esilio dal tempio, dalla voce
ho ricavato un tempio. Libero da
preti, con la lingua costruii un altare.
Non ho mezzi tranne la sorte.
Quando vagherò nel niente
la morte sarà la mia fortuna.
Il bisogno è la mia tattica, il distacco
la strategia. Senza nessun amante
ho corteggiato il sonno.
*
Cerimonia
Alla fine della storia
quando la peste plana
può iniziare la messa in scena.
Smistando il fluttuante paradiso
e i suoi marchingegni,
è ora di pratiche urgenze:
ottenere salvezza a buon prezzo
divinando le viscere degli uccelli
o degli insetti crociati. Come
al tempo di Edipo salvatore, i gatti
sono istrioni: spavaldi provocatori
prima della rituale fuga nell’orrore.
“L’anima del gatto ha la forma
del suo corpo”. In era cristiana
venivano assunte orde di oranti:
che camminassero per la città
dilaniata cantando: “Sto male,
devo morire – Signore, pietà di noi”.
*
Vascello
Cos’è questo corpo addormentato?
Lo stesso che immaginavo da piccolo –
un vascello affollato, un’astronave, un sottomarino
oscuro nel suo oscuro elemento, scafo che erutta fiato
braccia ai fianchi, cuore motore e cervello
che pulsa, piedi pari a quelli del sub, corpo
che s’inabissa risoluto nell’oblio della notte
col suo carico vivente. Carapace di portaerei
proteggi i passeggeri che confidano nel Tutto:
circa ventimila volte sei disceso nel buio
instancabile come una foca, cieco
come un tronco, insinuandoti
tra le barriere coralline che raspano a unghiate
la chiglia – veterano immerso dalle caviglie alla corona
sorreggi questo popolo dell’anima
verso la sua destinazione prima che anneghi.
*
Biografia
Ruota di pietra che affila la lama pronta al grano
ruota di girasole che danza, ruota che muove
la spirale mentre spreme l’olio, discriminando
scisto e oliva. Particole che ritornano fango
nella ruota del vasaio che forma la brocca
su cui gocciola l’olio che raffinerà la lama.
Il terribile crollo di mia madre. L’orrore di sua madre
per tutte le cose: morte, vita, nascita. La nascita di mio fratello
appena prima del crollo, la sua nuova nascita in Cristo.
Mia anima, nata una volta sola, che oscilli, opaca
e ti aggrappa ai cerchi. La luna, l’occhio, l’anno
la sfera delle cause o del caos – le movenze del caso.
La linea di una melodia mentre scavi la radice
l’arco del mutamento. La liana da lì a qui
di Ellen che parla, la corona degli amici
l’arte di accordare le linee, l’ellissi dell’opera.
Raggi. Vite di bimbi che crescono altrove
la pianta radiosa che fende l’aria, le radici nell’oscurità.
*
Prima cosa a portata di mano
Nel cranio sul desco
nella poltiglia di ragno nella polvere.
O da nessuna parte. Nel latte e nel pane
o in nessunluogo. Se Socrate esce
di casa al mattino
e vi ritorna a sera
troverà Socrate ad attenderlo
sulla soglia. Buddha il bastone
che usi per aprire il sentiero
Buddha cacca di cane che cacci
via, ovunque e da nessuna parte
tocchi continuamente molte cose:
la banconota da un dollaro, il tasto
che accende il televisore.
Perfino quando scherzi: le tre
parole che dicono gli americani
dopo aver fatto l’amore. Dov’è
il telecomando? Nelle lacrime
nelle cose prossime e in quelle intime.
Nel fusto cablato con radici
e foglie di questa lampada:
base di ottone, aura di lume
illuminazione, ombra del dolore.
Odore di lampa: crudele.
La mente attende la mente
la prima cosa a portata di mano.
*
Dal Vangelo dell’infanzia di Gesù
Era Sabato, di mattino, andò al fiume a giocare.
Con l’argilla del fiume modellò dodici passeri
e costruì uno stagno, con una diga di rami. Attorno
allo stagno, posizionò gli uccelli appena creati
precisi come le ore del giorno. Gesù aveva cinque anni.
Sorrise, come un bimbo che ha creato il suo mondo
di acqua limpida e immobile, accanto al fiume.
Ma un ebreo, un amico del padre, passò di lì
e rimproverò il bambino; andò da Giuseppe
e disse: “Vieni, tuo figlio ha profanato il Sabato
costruisce immagini nel Giorno del Riposo”.
Giuseppe, allora, corse sul posto, prese il polso
del piccolo e disse: “Figlio, hai offeso la Parola”.
Gesù si liberò dalla mano di Giuseppe, batté
le mani e gridò agli uccelli di andarsene.
Alle sue parole, essi sollevarono il becco
respirarono, agitarono le piume, andarono via.
La gente era atterrita. Nel frattempo, un altro
bambino, il figlio di Anna, lo scriba, aveva preso
un ramo di legno e rotto, per sbadataggine, la diga
e intorbidato il piccolo stagno e sparso
i rami e le pietre. Gesù si arrabbiò, gridò:
“Ingiusto, empio, ignorante, cosa ti ha fatto
l’acqua per farle del male? Ora appassirai
come fa l’albero senza l’acqua, non porterai
frutto e verrai incenerito fino alla radice”.
Immediatamente, il bambino appassì. I suoi genitori
piansero, gli ebrei gemevano. Gesù se ne andò, poi
si voltò, profetizzando, quel volto bimbo lucido di lacrime:
“Dodici volte dodici e dodici volte dodici migliaia di anni
prima che questo cielo e questa terra fossero creati
il Creatore incastonò un gioiello nel trono di Dio
con l’Inferno a sinistra, il Paradiso a destra, il Santuario
di fronte e una notte senza fine alle spalle, e fuggì
all’infinito in una Torah scritta tra le fiamme.
Sul gioiello di quel trono, Dio ha scritto il mio nome”.
Poi Gesù andò – andò nella casa di Giuseppe.
Anche la famiglia del bimbo appassito andò via
e lo portò nella loro dimora. Il Sabato era quasi finito.
Al tramonto, gli ebrei lasciarono il fiume.
Piccole creature scaturirono dal sottobosco per bere
e cercare cibo lungo le ombre della riva.
Solo, nella casa di Giuseppe, il Figlio dell’Uomo
piangeva, fino ad addormentarsi. La luna
svettava, gli ebrei spensero le luci e tutto
tornò sereno, come sempre era stato, tranne
che nella casa dello scriba Anna e in alto,
in un buio sconosciuto perfino a Gesù
dove dodici passeri volavano senza meta
e senza riposo, come se non potessero mai posarsi.