23 Maggio 2022

“Chi non conosce Amore, lo assaggi”. George Herbert, il poeta amato da Eliot

La madre, che ovvietà, garantì la sua benedizione, l’acuirsi della chiamata, lo stigma degli adepti dell’arte, i circoncisi alla poesia. Magdalen Herbert, nata Newport, di nobili natali, restò vedova a 35 anni; la sua bellezza, così almeno traspare dai quadri, era di inquieta severità, più che affabile, decisa. Finanziava John Donne, il sommo poeta, la stella dei ‘metafisici’, destinato a fare ‘scuola’; gli chiese di tutelare il figlio George, nato nel Montgomeryshire nel 1593: il padre era morto che aveva appena tre anni. Del resto, vide la madre di rado, George Herbert, ragazzo docile, propenso ai reami del sogno, di intricata intelligenza: si perfezionò al Trinity College di Cambridge, sapeva scrivere versi in greco e latino, accettò l’incarico di pubblico oratore dell’ateneo.

Sul giovane George tutti erano pronti a scommettere: avrebbe avuto un futuro radioso, inciso nel radio. Facevano poco conto sulla salute, cagionevole, sullo spirito lunare, che traspariva dal pallore, estatico, e dai tratti, levigati, ad angolo, da poiana sui picchi di una fede inabissata nel dubbio. Servì in Parlamento dal 1624, con stanca dedizione; la morte di re Giacomo e una intensa incapacità nel gestire i giochi di corte, lo alienarono dalla vita politica: nel 1626 fu ordinato diacono a Leighton, quattro anni dopo diventò sacerdote. Sposare la ricca Jane Danvers, nel 1629, incancrenì, per paradosso, il suo spirito contemplativo. La madre Magdalen era morta nel 1627: l’orazione funebre, magnetica, fu pronunciata da John Donne – quella era un’epoca in cui la forma primeggiava sul destino della carne, in cui l’opera surclassava la vita e le parole, ben accordate, erano la sensibile quota di eternità concessa ai mortali. Francis Bacon dedicò a George Herbert la sua versione dei Salmi; le poesie di George, spesso abbozzate al liuto, hanno ancora una freschezza inconsueta, la semplicità di un assalto, di un sasso nello stagno. Nel 1962 Thomas S. Eliot dedica a Herbert un saggio notevole – in Italia lo trovate nel malloppo delle Opere Bompiani curate da Roberto Sanesi –, in cui traccia le distanze tra le sue poesie e quelle di Donne:

“Erano tutti e due degli intellettuali, e tutti e due erano uomini sensibili; ma in Donne si direbbe che è il pensiero a controllare i sentimenti, mentre in Herbert sono i sentimenti a controllare il pensiero. Erano tutti e due degli eruditi, e tutti e due abituati a predicare… Nei versi religiosi di Donne, come nei suoi sermoni, c’è molto dell’orator; mentre in Herbert, per quanto successo egli abbia potuto avere come pubblico oratore a Cambridge, il tono del discorso è molto più intimo”.

I legami tra Herbert e Eliot non sono occasionali, ma costanti e sottili: amico intimo di Herbert, erede della sua opera, era Nicholas Ferrar, insigne uomo politico caduto in discredito, fondatore della comunità religiosa di Little Gidding. Little Gidding è l’ultimo dei Quattro quartetti di Eliot, quello a cui il poeta assegna il significato più alto:

“A questo serve la memoria:
A liberarci… Non meno amore, ma un’espansione
Dell’amore al di là del desiderio, e così liberazione
Dal futuro come dal passato…”

“Amore è il Nome non familiare
Di chi con le mani tessé
L’intollerabile camicia di fuoco
Che forza umana non può levare”

La poesia religiosa che intona una lucidità priva di paramenti, equilibrio miracoloso tra immagine e tema, tra tono e metodo, architettura sobria, perciò sonora, sono i caratteri di Herbert. A suo tempo Mario Praz disse di una “leggiadria del disegno e dell’esecuzione”, di “spontanea vena e ferma convinzione religiosa”. Il poeta sacerdote si stabilì, infine, a Bemerton: alternò la preghiera allo scoscendimento nella scrittura. Morì nel 1633; pochi mesi dopo l’amico Ferrar fece stampare la prima edizione di The Temple, la raccolta più nota di Herbert, poeta postumo e pio. Non è facile sostare sul bivio verbale, scegliere di non deviare in Dio, stare nell’alveo della falcata di luce, porre nidi sul balbettio. Herbert ci è riuscito. La trama del suo dire rifiamma in Coleridge, Hopkins, Emily Dickinson, Dylan Thomas, Eliot, una sequela di poeti non postulanti, tantomeno queruli (come accade a troppi lirici con il nome di Dio a fior di labbra), abituati a strappare i denti all’angelo. Per gli anglicani Herbert è un santo: lo onorano il primo marzo, il giorno della sua morte, leggendo una sua poesia, mentre camminano intorno alla chiesa.

***

Il riscatto

A lungo a servizio di un ricco,
inerme, ho risolto per l’audacia:
gli ho cucito una veste, per ottenere
un nuovo contratto e obliare i debiti.

L’ho cercato nei suoi palazzi, in cielo;
mi hanno detto: è scomparso, perso
per altri campi, acquistati a caro prezzo,
ha preso possesso della sua terra.

Consapevole del lignaggio,
l’ho cercato tra luoghi aristocratici:
città, teatri, giardini, parchi, tribunali;
un rumore sinistro mi ha ispirato, rovina

di risa, sassaia di ladri e di assassini; lì l’ho visto,
mi ha detto, d’improvviso, il suo vestito è perfetto,
                                                                     e spirò.

*

L’agonia

I filosofi hanno perimetrato i monti,
scandagliato gli abissi dell’oceano, istituito stati
e re; con un bastone forgiano una fontana in cielo:
         eppure soltanto due sono gli spazi
incomprensibili che dovremmo misurare
per i quali non c’è misura: Colpa e Amore.

Chi conosce Colpa, la riscatti
scalando il Monte Oliveto; vedrai
un uomo scagliato nel dolore, cranio,
        corpo e tunica sacri di sangue.
La Colpa corrode e corrompe, irrita il dolore
che va a caccia del pasto, fa razzia delle vene.

Chi non conosce Amore, lo assaggi
ne provi il succo che sulla croce una picca
ha leccato; ti dirà lei se esiste cosa
       con sapore simile al mondo.
Dolce liquore, mosto divino, Amore:
ciò che Dio crede sangue, per me è vino.

*

Finestre

Oh Dio, come può l’uomo predicare il Verbo eterno:
è soltanto un folle, un verme, vetro inerme?
Eppure, nel tempio – tempo glorioso,
spazio incontrastato – gli concedi, per grazia,
di essere la tua finestra.

Quando inscrivi nel vetro la tua storia,
vita che scintilla dentro
i santi predicatori, luce e gloria
maturano in vertigine, tutto vincono;
e tutto il resto è cupo, misero, futile.

Scelta e dottrina, colore e bagliore sono uno
si combinano e confondono, evocano
dritta disciplina, l’arte del timore – ma la predica
svanisce come casa tra le fiamme, puro suono,
esule tra le orecchie non attecchisce nell’anima.

*

La vita

Il giorno corre, raccolgo fiori:
“Annuso il resto di me, lego
             la mia vita a questo mazzo.
Anche il Tempo accarezza i fiori:
a mezzogiorno, scaltri, fuggono
      appassiti nella mia mano.

La mano tra i fiori e il cuore;
preferisco non pensare al generoso
       allarme del Tempo;
con amore insinua il triste sapore della morte:
simula l’odore dell’ultimo giorno
      sa insaporire i sospetti.

Addio adorati fiori, vissuti nella dolcezza
ornamento perfetto, profumo
       smaliziato della morte.
Disprezzo chi si lamenta: se il mio profumo
sarà tanto intenso, poco importa se
è destinato a durare poco, come il vostro”.

George Herbert

Gruppo MAGOG