Non ho ancora avuto l’opportunità di vedere dal vivo questo dipinto straordinario del pittore catanese Calcedonio Reina intitolato Amore e morte (1881) custodito presso il museo civico di Catania, e che ho conosciuto casualmente tempo fa, tramite il web, mentre cercavo un’immagine. Ad influenzare positivamente il mio giudizio nei confronti di questa opera non è solo il fatto di essere stato realmente nel luogo in cui è ambientata la scena di Amore e morte, ovvero le suggestive Catacombe del Convento dei Cappuccini a Palermo, ma è soprattutto l’originalità del suo realismo e il forte potere simbolico nascosto dietro l’apparente normalità della scena: un uomo e una donna si baciano tra le bare e le mummie esposte nelle catacombe. Sembrerebbe che l’artista abbia voluto semplicemente immortalare la breve storia di un bacio rubato, di un atto goliardico tipicamente giovanile consumato in maniera “eversiva” in un luogo sacro, lì dove sarebbe vietato occuparsi di gioie terrene, carnali e sarebbe, invece, più opportuno riflettere sull’insegnamento escatologico offerto dall’ambiente. Ma c’è di più, molto di più…
Al centro dell’opera ci sono loro, un uomo e una donna che mentre si abbracciano dolcemente, si scambiano un bacio appassionato: lei, con molta probabilità di famiglia benestante come denunciano i suoi merletti, bionda, giovane e bella, vestita di bianco crema – la luce che emana dal suo abito è un inno alla vita! – a contrastare il grigiore della morte. Anche se non vi è traccia di monotonia cromatica nella descrizione pittorica del sepolcro da parte di Reina; al contrario, le bare, le nicchie e i corpi mummificati sono caratterizzati da una sobria “vitalità” dei particolari, pur trattandosi di un dipinto in cui la tonalità non esaltata di colori non contrastanti tra di loro, tende a uniformare il tutto accogliendo la luminosità dei soli esseri viventi. Quel corpo lucente – l’unico del dipinto – è il simbolo della gioia di vivere, dell’amore di donna, della passione devota della moglie che sarà, promessa splendente della vita che custodirà.
Lui, elegante gentiluomo, capigliatura nera, dall’aspetto promettente, sembrerebbe provvisto di baffi nonostante l’area della bocca sia occupata dal bacio, amante premuroso, le sue braccia, ricoperte dal tessuto scuro della giacca, cingono, una la vita di lei come se fosse una cintura che spicca sul bianco del vestito della donna (a voler dire: “tu sei mia, appartieni alla mia vita e non alla morte che ci circonda!”), la mano dell’altro braccio, invece, accompagna la nuca della fanciulla verso il “dolce pasto”.
O, forse, l’uomo e la donna sono i protagonisti di un amore clandestino, di un amore impossibile, senza futuro: quel bacio rubato è un’occasione irripetibile, unica, da non perdere. Confidando nella “forzata discrezione” dei presenti, i due amanti si abbandonano a un gesto apparentemente irriverente, vista la sacralità del luogo, e con la tragedia nel cuore sanno che quello potrebbe essere il loro ultimo bacio se non addirittura il primo e già ultimo: fuori dalle catacombe torneranno a essere due estranei; forse entrambi sono sposati con altre persone e la loro conoscenza furtiva nel mondo dei vivi non aveva avuto lo sviluppo desiderato. Solo in un luogo di morte e di silenzio il loro amore “di superficie”, fatto di sguardi e di fantasie, ha trovato la forza per realizzare il contatto adulterino. Il tutto vissuto sotto gli occhi ormai spenti delle mummie esposte in fila, vestite come lo erano in vita ed etichettate, le quali sembrano “discutere” tra di loro dell’insolito accadimento amoroso.
Eppure, al di là della storia dei due amanti creati dal pennello e dall’immaginazione di Reina, non si comprende definitivamente se siano i due giovani a lanciare un segnale indiretto ai muti testimoni del loro bacio o se siano, al contrario, i corpi mummificati dei morti a insegnare qualcosa di inesorabile e drammaticamente reale all’uomo e alla donna. È l’amore che vince su tutto (l’omniavincit amor di virgiliana memoria), persino sulla morte in quel luogo presente in maniera inequivocabile, o è la Morte che ricorda ai due amanti, attraverso i suoi “associati” messi in bella mostra nelle catacombe a sfidare l’eternità, senza proferire parola alcuna, che qualunque sarà la natura del loro amore e la forza della loro passione per la vita, alla fine diverranno comunque materia per imbalsamatori o cibo per vermi? Infatti dalla luce del lato del dipinto che sta alla nostra sinistra (e del vestito della donna) si passa gradualmente, in prospettiva, verso la lontana oscurità a destra in fondo alla catacomba: vivete, credete nell’esistenza, baciatevi appassionatamente, illudetevi per un attimo di essere immortali, ma memento mori! – non dimenticate di appartenere alla morte, al destino oscuro che vi attende in fondo alla galleria della vita.
Ma con tanti posti, perché baciarsi proprio lì? Perché l’essere umano ricorda il valore della vita e dell’amore solo quando si trova dinanzi all’irreversibilità della morte o alla rappresentazione di essa: viviamo nell’illusione di essere eterni e abbiamo bisogno di luoghi e simboli in grado di ricordarci la caducità del nostro viaggio terreno. Il carpe diem, l’attimo del bacio colto in tempo, la gloria effimera dell’istante presente, riusciranno a sconfiggere la limitatezza della vita umana e a incoraggiarci nel viverla sempre e comunque? Se un attimo diventa sostanza, non solo sconfigge la morte conquistando l’eternità, ma supera addirittura l’autoreferenzialità del ricordo, dell’archivismo sentimentale.
Protagonista del dipinto è il contrasto tra l’amore e la morte; un contrasto dal carattere gotico (cos’è, in fin dei conti, il Frankenstein (1818) di Mary Shelley se non un romanzo di amore e di morte? E mi verrebbe da chiedere: Reina ha per caso letto la Shelley?Non lo sapremo mai!) che insegna la lezione più importante che ogni essere umano dovrebbe apprendere il prima possibile: amate, vivete pienamente, appassionatevi all’esistenza, anche alle sue brutture e difficoltà, spendetevi fisicamente e mentalmente, non abbiate paura di donarvi all’altro e al mondo… prima che sia troppo tardi, prima che diventiate come le mummie rinsecchite che vi circondano! Il bacio dato all’improvviso, o forse meditato e ricercato, è un antidoto a queste paure; rappresenta il gesto derivante da un dolce e disperato esistenzialismo; è l’unica soluzione a portata di mano, anzi di labbra, facilmente spendibile in quel luogo vero e inesorabile. I due amanti sembrano dire: “lo sappiamo che un giorno saremo come voi, nobili defunti e rispettabili trapassati, ma ora lasciateci vivere il nostro presente d’amore, lasciate che sia l’illusione d’eternità contenuta nell’amore a guidare i nostri pensieri e i nostri gesti!”.
Calcedonio Reina, figlio di un medico e scienziato catanese, reduce da studi di medicina, optò alla fine per l’Accademia di Belle Arti di Napoli (città in cui l’amore e la morte sono celebrati con la medesima solennità: il Cimitero delle Fontanelle di Napoli, anche se attraverso una differente rappresentazione della morte, nel corso della storia, con le sue capuzzelle, ha voluto lanciare ai vivi lo stesso monito delle mummie di Palermo).
Pittore e poeta, come spesso accade a chi ha avuto un background scientifico e medico, Reina in questo dipinto riesce a far convivere due simboli – quelli riguardanti l’amore e la morte – creando un’ibridazione per molti, forse, dal risultatomacabro. I poeti “allevati” inizialmente come medici o scienziati, posseggono un inconsapevole cinismo: gli accostamenti da altri giudicati come orripilanti, per loro rappresentano la normalità in quanto assuefatti, grazie agli studi effettuati, al fine ultimo della corporeità. Ma la “poetica tanatologica” contenuta in quest’opera di Reina non è fine a se stessa: l’artista non vuole incutere orrore in chi guarda, non vuole che i temi trattati causino “tristezza”. Tutt’altro, il pittore vuole giocare a carte scoperte dinanzi alle grandi verità classiche dell’esistenza rielaborate in chiave romantica – sepolcralmente romantica! -, e la consapevolezza, lo sappiamo, non dovrebbe spaventare bensì rasserenare gli animi, predisponendoli al coraggio autentico, necessario alla vita che ci è data vivere.