
George Orwell & la neolingua della politica
Politica culturale
Michele Nigro
“Lungo il transito dell’apparente dualità
la pioggia di settembre
risveglia i vuoti della mia stanza”
(“Nomadi”, Juri Camisasca)
Logiche autunnali
La gioia perversa del declino
Che cos’è l’autunno se non un’anti-primavera, una meta-stagione, un video reverse della natura, un’idea per canzoni e poesie, l’attesa gioiosamente malsana di un periodo sospeso senza energia e senza speranza, il movimento rallentato verso l’angolo spento di un ciclico andare?
Le ingenue illusioni primaverili e le forzate previsioni generate da un ottimismo solare lasciano il posto a un’assoluta e salvifica mancanza di pretese, non priva di fede: si attende il nulla con fiducia, il letargo dell’iniziativa con un’operosa umiltà, la contemplazione di un’apparente morte stagionale che invece è vita, sobria e sfornita di annunci vacanzieri.
Veni l’autunnu
scura cchiù prestu
l’albiri peddunu i fogghi
e accumincia ‘a scola [1]
Vi può essere felicità nell’immagine statica di muti rami spogli?
Mentre la primavera è un tempo durante il quale il corpo e la mente si preparano all’azione indispensabile e vincente, alla sensualità che previene i rimpianti per le occasioni perse, citate ne “Le passanti” di Fabrizio De André, l’autunno è la stagione del libero arbitrio, dell’atarassia e del disincanto: si può scegliere di seguire l’assopimento pre-letargico dettato dal momento o coltivare una non richiesta intraprendenza fuori tempo.
La sorpresa che possiamo offrire a noi stessi consiste nel traslare una vitalità scontata e pubblicizzata – silenziosamente ma con piglio inesorabile, mentre le foglie cominciano a cadere preannunciando la periodica fine di un necessario slancio riproduttivo – dall’epoca della linfa bollente a quella del freddo esistenziale che nasconde gallerie di ghiaccio percorse a sorpresa dall’aria calda di un’insospettabile passione. La scelta, compiuta in una fase durante la quale – a differenza dell’estate – nessuno pretende niente dagli altri, è più autentica, non sottoposta a pressioni dogmatiche travestite da favorevoli previsioni del tempo che inducono all’impresa.
Ho tentato di vivere ad oltranza
superando la capacità genetica a gioire
ricevuta in eredità dal caso
ma era ridicolo quello strafare inquieto
con cui tradivo la mia natura silente.
Scelsi uno sguardo corrucciato a coprire
la felice verità invisibile agli occhi dell’ovvio,
sviando il giudizio di masse superflue
con rari sorrisi come caramelle per stolti. [2]
L’uomo autunnale, lasciandosi forgiare dal silenzio che ama e cerca, pregusta la landa gelida del futuro imminente di cui sarà protagonista incontrastato il Generale di napoleonica memoria: egli, l’uomo dell’equinozio d’autunno, sorride dinanzi allo schermo grigio e uggioso dell’inverno intravisto all’orizzonte, lì dove altri rabbrividiscono, s’intristiscono, foto-deprimendo il loro ego, rifugiandosi in un nuovo e lontano miraggio primaverile, prigionieri di un ciclo meteorologico senza fine (nonostante, a dire di qualche cittadino non avvezzo alla campagna, non ci siano più le mezze…).
L’autunnalità non è mai stata solo una condizione meteorologica: perché, come recita il titolo di una canzoncina di Dear Jack, “La pioggia è uno stato d’animo”. È realmente autunno solo quando è autunno in te! Ci siamo convinti del fatto che siano le intemperie a influenzare la nostra interiorità emotiva – il che per alcuni, i meteoropatici ad esempio, e nella fattispecie i cosiddetti “depressi invernali” affetti da SAD (Seasonal Affective Disorder), è anche vero – mentre invece è esatto il contrario: vi può essere una “felicità perversa” (perversa per i discepoli della Dea Melanina) in un giorno senza sole, nel rumore della pioggia (“… Odi? La pioggia cade/su la solitaria/verdura/con un crepitío che dura/e varia nell’aria/secondo le fronde/più rade, men rade…” [3]), in un bosco innevato, nei lampi notturni come flash provenienti dalla macchina fotografica di un dio pronto a immortalare l’umana caducità, nell’impari lotta metropolitana a suon di soffiatori e rastrelli contro le feuilles mortes [4] simili a pensieri rinsecchiti raccolti alla fine di un’estate, nel vento forte che prepotentemente s’incunea nelle narici al punto da farci pensare – in preda a un inebriante senso di rianimazione – di non aver mai respirato fino ad allora… Felicità per un peggioramento del meteo che non metta a rischio, sia chiaro, l’incolumità degli abitanti di un territorio, come accade troppo spesso a causa di una trasandatezza amministrativa che sfocia in un dissesto idrogeologico mortale!
Vuoi mettere una giornata uggiosa
nuvole nere in cielo
minacciose e severe come matrigne
con la solare prevedibilità dell’io estivo?
Vorresti paragonare i misterici scrigni
e le magiche elucubrazioni
di un pomeriggio desolato e grigio
con i vortici popolosi delle feste?
“Datemi un temporale
una biblioteca
un gatto nero
… e vi trasmuterò il mondo!”
Un’acquosa aria elettrica
m’invita ad esplorare
i cauti incubi del quotidiano.
Vi ho mai parlato dei danni
che i raggi solari dell’ingenuo
mi causano sulla pelle dell’anima?
Lo spirito casalingo del fuoco
illumina i sapienti libri eterni,
lontano dai percorsi consueti
di un borghese “dì di festa”.
E speriamo che piova ancora. [5]
L’uomo delle solitarie passeggiate su strade di foglie morte ricerca la vita in quei luoghi in cui la maggioranza dei suoi simili ha smesso di cercarla, perché così è stato insegnato loro dal pratico buonsenso di un immaginario collettivo limitato.
E mi piaceva camminare solo
per sentieri ombrosi di montagna,
nel mese in cui le foglie cambiano colore,
prima di addormentarmi all’ombra del destino… [6]
La soddisfazione derivante da un’apparente stabilità esistenziale e la voglia di intraprendere un nuovo cammino a volte sono incompatibili: per cominciare una ricerca (fosse anche solo una quest vissuta nella nostra mente!) occorre avere il coraggio di mettersi in discussione, abbandonando le proprie comode certezze:
No, cosa sono adesso non lo so,
sono un uomo, un uomo in cerca di se stesso.
No, cosa sono adesso non lo so,
sono solo, solo il suono del mio passo. [7]
E l’inizio di un autunno è il momento propizio per entrare in crisi (dal latino crĭsis, dal greco κρίσις – krísis: “decisione”, “scelta”, “giudizio”, “separazione”…) perché:
Settembre è il mese del ripensamento sugli anni e sull’età,
dopo l’estate porta il dono usato della perplessità…
Ti siedi e pensi e ricominci il gioco della tua identità,
come scintille brucian nel tuo fuoco le possibilità… [8]
Un’esistenza rallentata ma rigogliosa pullula nei silenziosi sottoboschi tramortiti dai primi freddi mattini, compagni di soli pallidi e senza gloria che attendono di prevalere sulle nebbie come il sole di Austerlitz.
Non fa promesse l’autunno: esso semplicemente è, prendere o lasciare (ma lasciare per andare dove? Ai Caraibi, come quelli che inseguono l’estate per paura del freddo e del fisco?); immobile come la natura in pausa sul bordo nuvoloso dell’inverno; deciso preparatore atletico per tempi duri; severo come chi ha l’ingrato compito di annunciare ai presenti che la festa è finita.
L’autunno è un “tipo serio”, tempo assertivo nonostante il suo essere congiunzione, ma dotato di dolcezza e di comprensione infinite: ti lascia prendere le ultime cose da terra, ti attende sull’uscio, ti fa preparare le valigie con calma, senza la nevrosi dei viaggi estivi, mentre ti illustra con voce sussurrata il programma per i mesi successivi, ovvero mentre ti rivela che in realtà non c’è alcun programma, perché la vocazione dell’autunno è quella di essere zona sospesa dell’andare pubblico, angolo privilegiato per la riflessione che precede il cristallizzarsi degli intenti, attimo transitorio – e non ancora del tutto incantato – verso il gelo definitivo, nel corso del quale prendere le ultime decisioni sfuggite all’afoso caos agostano.
Sembra che ti metta fretta con la sua presenza: l’anno in fin dei conti è agli sgoccioli; ma l’autunno ti lascia libero dinanzi all’inesorabilità del nulla e della morte. Vuole che l’incontro tra te e l’infinito sia onesto e concreto, voluto anche se inevitabile; disintossica il ritmo della vita dalle frivolezze estive per far compiere all’uomo la sua scelta in maniera meditata ed equilibrata.
L’estate sta finendo e un anno se ne va,
sto diventando grande: lo sai che non mi va [9]
In realtà è bello invecchiare (“…Viva la Gioventù,/che fortunatamente passa,/senza troppi problemi…” [10]); o meglio: è bello raggiungere un’età – diversa per ognuno – in cui saggezza e possibilità di azione, esperienza e progettualità, siano in perfetto equilibrio. Saper convertire il “diventare grandi” da condizione opprimente a ottima opportunità, questo è o dovrebbe essere l’obiettivo del crescere. La fine dell’estate non deve essere vissuta come una feroce deprivazione da parte del tempo, bensì come una parentesi durante la quale analizzare in piena libertà e serenità il cammino compiuto, per raccogliersi in vista di nuove possibilità. E l’autunno, che segue questa fine, è il periodo ideale – più della primavera – per ricominciare: come accade durante l’imbrunire (… clemente è l’imbrunire/balsamo serale per animi piagati… [11]), è il momento in cui, liberati dalla morsa dei raggi solari, ci si confida di più, mimetizzati dalla semioscurità.
Poche le cose che restano alla fine di un’estate
La quiete dei colori autunnali si rifletterà sulle strade e sugli umori
Come il dolce malessere dopo un addio. [12]
Le carni espanse e sguaiate, cotte al sole dell’assurdo, rientrano nei ranghi di un’estetica composta; la mente spiaggiata su orizzonti impropri si ricompone pian piano, cercando pensieri semplici e familiari. L’umanità reduce dai flussi migratori del consumismo (in antitesi scaramantica a quelli recenti per disperazione, fame e guerre), spinta da paure ancestrali riproposte dalla saltuaria consapevolezza della sua precarietà su questo pianeta, comincia a trasformare e conservare i frutti raccolti dall’edulcorato entusiasmo estivo. L’uomo-conserva, adoperando barattoli e cotture prolungate, batte in ritirata accampandosi tra le mensole di una dispensa interiore, mentre l’uomo autunnale avanza con vitalità e passo coraggioso sotto le prime dolci piogge, come se si apprestasse a vivere l’occasione irripetibile e fanciullesca di una gelida estate.
Cantava Gene Kelly nel film “Singin’ in the Rain”:
Sto cantando nella pioggia,
proprio cantando sotto la pioggia…
Che magnifica sensazione:
sono di nuovo felice!
Sorrido alle nubi,
così scure sopra di me.
Ho il sole nel cuore…
E sono pronto per l’amore!
Lascia che le nubi tempestose inseguano
tutti quanti da qui.
E vai con la pioggia! [13]
Come a voler dire che possiamo immergerci nell’atmosfera autunnale tanto amata e agognata, lasciandoci trasportare dal suo sonno ritemprante coadiuvato dalle prime bevande calde e dai plaid riesumati dalla naftalina, ma all’occorrenza sappiamo gioire e persino danzare sotto una coltre di nubi piangenti, senza paura di bagnarci.
Un’atmosfera antitetica è quella creata, invece, dalle parole di una canzone del 1939 scritta da Umberto Bertini e interpretata, tra gli altri, da Michele Montanari (accompagnato dal Trio Lescano), intitolata “Ultime foglie”:
L’autunno fa cadere l’ultime foglie
che il vento raccoglie
portandole a te.
In ogni foglia gialla che t’accarezza
c’è tanta tristezza
che parla per me.
Come il mio pianto d’amore la pioggia vien giù
sembra che porti il dolore che c’è nel mio cuor.
L’autunno fa cadere l’ultime foglie
che il vento raccoglie
per te.
In questo caso la natura circostante partecipa al dolore interiore della voce “narrante”; tutti gli elementi, le foglie, il vento, la pioggia, l’intera stagione autunnale, contengono un po’ di quella tristezza che caratterizza il vissuto del protagonista. Mentre Gene Kelly è felice nonostante la pioggia, Michele Montanari – su una melodia lieve e gradevole che, a dire il vero, non risulta mai patetica pur veicolando una tematica malinconica – riesce ad esprimere la tristezza della vicenda umana descritta nel testo proprio grazie agli elementi autunnali che intervengono nella concretizzazione di uno stato d’animo altrimenti inesprimibile. Neanche per “Ultime foglie”, però, vale la regola della stagione che influenza lo stato d’animo: l’atmosfera stagionale, come si diceva poc’anzi, agevola la “condensazione” di quelle tensioni già esistenti nell’animo umano.
I perversi amanti dell’autunno, invece, vanno oltre, navigando controcorrente, superando la teoria bidimensionale del “se piove ne approfitto per esprimere tristezza, altrimenti taccio!”: non accettano il binomio inscindibile e tradizionale “pioggia/malinconia”, piuttosto condensano le loro tristezze durante le soleggiate e promettenti ore estive, mentre gioiscono incontenibilmente nel corso di un nubifragio. Si tratta di “gente strana”, di adorabili personaggi snaturati che non sopportano di essere presi in giro, da parte delle cosiddette persone di buonsenso (le stesse che in seguito impazziranno, a detta di Stanisław Jerzy Lec), mentre circolano al riparo di un ombrello durante una nevicata per il semplice gusto di farlo, e non perché bisogna andare da qualche parte a fare qualcosa di utile.
Non è questa la sede adatta per indagare sulle motivazioni psicologiche di tale “perversione”. Su un punto, però, possiamo essere d’accordo: la gioia derivante dal declino autunnale – l’acme di questa gioia coincide a dicembre, dopo il solstizio d’inverno, con la festa religiosa del Deus Sol Invictus, quando il momento di maggiore oscurità sul pianeta Terra è al tempo stesso l’inizio della risalita verso la piena luce dell’estate – è innescata dalla sfida insita nel dover ricercare la luce andando con la fantasia (e la fede? Laica o religiosa…) al di sopra delle nuvole e oltre le distanze siderali.
C’è buio e buio: <<Il buio che sorprende al di là della città si mostra accattivante e benefico. Niente più si distingue, e solo una specie di sesto senso regola il cammino. La pacificata distesa della natura attorno alla città sembra al buio trionfare come beata unità, come la natura naturans di venerata memoria. Il buio nella città è invece infido e malsano. Si sentono mille rumori nella notte al buio della città ma, sorprendentemente, l’attenzione coglie i particolari più che di giorno. Nella notte, nel buio della città, si distinguono nitide le cose e si vedono più che alla luce del sole. La percezione dell’altro, annunciata dai suoi passi giganteschi, viene resa al suo pericolo originario – di bestia in agguato. Mentre alla luce non si vede più nulla.>> [14]
L’autunno illustra all’uomo, dopo le false certezze solari della stagione estiva, la sua reale condizione esistenziale: la luce gratuita è per le persone dal carattere scontato in cerca di facili speranze. La gioia è nella sfida lanciata dall’oscurità. Anche se:
La notte, non mi piace tanto,
l’oscurità è ostile
a chi ama la luce. [15]
Ed è per questo che bisogna fare distinzione anche tra il buio fisico e quello interiore: a volte certe oscurità interiori, agevolate da quelle ambientali, pur sembrando ostili, sono propedeutiche a verità luminose. Oscurità difficili da gestire se non integrate in un percorso sapienziale ben preciso, e che possono ridursi a un inutile abito caratteriale. Oscurità che spesso, nel corso della storia, sono state associate a pratiche malvagie e sinistre, come ci ricorda Franco Cardini riferendosi ad alcune etichette affibbiate agli yazidi: <<Tra i molti epiteti con i quali essi vengono tradizionalmente indicati, ce n’è infatti uno che in antico persiano suona come Shaiōān Peresht, “veneratori di Satana”. Un analogo senso ha l’espressione turca Cyrāğ Sāndëren, “quelli che spengono le lampade”, che rinvia all’accusa di riti magico-religiosi da celebrarsi a luci spente…>>. [16]
Non c’è speranza in autunno, o almeno così sembrerebbe: c’è solo un’attesa senza orizzonte, poiché coperto dalle nebbie. E tutto sommato perché dovrebbe esserci speranza? Non è forse la mancanza di speranza una sorta di liberazione dalla schiavitù del fare?
L’autunno ci offre la possibilità di ricostruire la nostra vita partendo da un riscoperto niente, perché è un niente apparente quello offerto – che potrebbe rivelarsi un ricco niente – senza per questo fornire alcuna garanzia sul prodotto finale.
E salverei
chi non ha voglia di far niente
e non sa fare niente [17]
L’autunno sa che non tutti riusciranno ad approfittare di questa conveniente libertà disponibile in bassa stagione. La maggior parte di noi vuole spendere molto e subito: crede che sia l’unica garanzia di qualità. La maggior parte di noi vuole vivere intensamente un’estate infinita perché è convinta di sapere cosa desidera, e non vuole autunni tra i piedi. E soprattutto è convinta di saper desiderare.
La libertà affidata all’uomo post vacanziero spaventa, e prende spesso in contropiede chi è abituato ad essere condotto per mano nella giungla dei pacchetti turistici: lo “stress da ferie” è la prova più vergognosa di questa mancanza di confidenza con la propria libertà. Un’agorafobia da eccesso di libero arbitrio, timore per gli spazi aperti esistenziali: il ritorno a ritmi dettati dal sistema in fin dei conti ci rinfranca.
L’autunno diventa così, mentre tutti gli altri si lasciano inquadrare in strategie da rientro, l’occasione per una fuga fuori stagione, un ufficioso esperimento di saggezza estrema, di recupero sapiente dei significati sulla linea del traguardo annuale.
Si tratta di logiche autunnali eversive, improduttive ed esoteriche, e monitorate con sospetto dai vicini. Ma non ci scoraggiamo e fiduciosi declamiamo, come ogni anno, la nostra essenza autunnale…
L’esilio di fuochi lucani
di silenzi e sogni gelati
mi offre la chiave
per una ricerca muta.
Nessuno è libero
come chi convive
con la solitudine
nei ricercati mattini freddi.
Fumo di pipa e scintille dal camino
vapori di caffè e panni umidi
passeri e colombi ignari
nei giardini dimenticati
mentre progetto pensieri lunghi,
epici sbarchi presso lidi tolkieniani.
Un caldo bicchiere
in compagnia di Me
e l’Antologia di Spoon River
nutrono i contatti estinti.
Arde la legna antica
nel buio pomeriggio
della contea sperduta
dove l’anima assetata
di libri e verità
attende gli immancabili
giorni del tumulto. [18]
Michele Nigro
***
[1] “Veni l’autunnu”, Franco Battiato – Fisiognomica (1988)
[2] “Animo autunnale”, Michele Nigro
[3] “La pioggia nel pineto”, Gabriele D’Annunzio (1902)
[4] <<Les feuilles mortes se ramassent à la pelle/Les souvenir set les regrets aussi./Et le vent du Nord les emporte,/Dans la nuit froide de l’oubli… – Le foglie morte cadono a mucchi/come i ricordi e i rimpianti/e il vento del nord le porta via/nella fredda notte dell’oblio…>> da “Les feuilles mortes” (Le foglie morte) di Jacques Prévert, 1945.
[5] “Elogio del grigio”, Michele Nigro
[6] “Auto da fé”, Franco Battiato – Gommalacca (1998)
[7] “Impressioni di settembre”, Premiata Forneria Marconi (PFM) – Mussida, Mogol, Pagani (1971)
[8] “Canzone dei dodici mesi”, Francesco Guccini – Radici (1972)
[9] “L’estate sta finendo”, Righeira (1985)
[10] “Quand’ero giovane”, Franco Battiato – Apriti Sesamo (2012)
[11] Da “Tout est pardonné”, Michele Nigro
[12] “La quiete dopo un addio”, Franco Battiato – Ferro battuto (2001)
[13] Il brano che dà il titolo al film commedia musicale americano del 1952 è appunto “Singin’ in the Rain” (Cantando sotto la pioggia): <<I’m singing in the rain/Just singing in the rain/What a glorious feelin’/I’m happy again/I’m laughing at clouds/So dark up above/The sun’s in my heart/And I’m ready for love/Let the stormy clouds chase/Everyone from the place/Come on with the rain…>>
[14] Da “La morte del sole”, Manlio Sgalambro – Adelphi (1982)
[15] “Quand’ero giovane”, Franco Battiato – Apriti Sesamo (2012)
[16] Da “L’ipocrisia dell’Occidente – Il Califfo, il terrore e la storia”, Franco Cardini (Editori Laterza, 2015)
[17] “La torre”, Franco Battiato – L’arca di Noè (1982)
[18] “Esercizi di libertà”, Michele Nigro