Il poeta operaio. Vita avventurosa di Giovanni Descalzo, uno scrittore da riscoprire
Letterature
Francesco De Nicola
Abbasso le buone maniere. La buona educazione è madre di tutti i mali. Un romanzo d’esordio che disorienta, quello della giovane scrittrice romana Alice Bignardi milanese d’adozione, che in poche, incisive e talora acerbe pennellate, tratteggia tutto il male de “La buona educazione” (edizioni e/o) in cui la protagonista Lisa è immersa. Il male è tutto dentro una parola: “mamma”. Un nome comune, una parola che è densa, piena e vuota. Se la madre è morta, la parola “muore nel tempo che ci metti a pronunciarla”. “Parole come queste, se non le provi, non le senti o non le assaggi, restano così generiche da non significare nulla”.
Quando perdiamo la madre, perdiamo il diritto di avere chi chiamare mamma? Quando muore una madre come quella di Lisa resta il rumore di fondo, quei ricordi impastati di senso di colpa e il vuoto che ti restituisce un’eco dolorosa. “Restano il suo odore negli armadi, i suoi libri sul comodino, le lettere di suo marito per lei di quand’erano giovani e i disegni dei suoi figli nei cassetti”. I foglietti di chi era la madre di Lisa, Antonella: “tipo un foglietto coi suoi orari di lezione, perché sua madre faceva l’insegnante di educazione fisica in un liceo di Roma”. Dall’educazione fisica alla buona educazione da impartire alla figlia a viva forza, anche solo con lo sguardo. “Quanto può cambiare una persona da una stanza all’altra della casa? Quant’era lontana la percezione di lei che aveva suo padre da quella che era rimasta a Lisa?” Si domanda la ragazza. Eppure si tratta pur sempre della stessa persona. Il fatto è che la madre di Lisa l’aveva fatta sentire sbagliata e il suo livello di mortificazione era vicino al soffocamento. Più la educa, più Lisa sembra amare sua madre, disprezzando se stessa. “La guardava come tanti bimbi guardano la propria madre: insistentemente e senza che nessuno se ne accorga”.
Lisa finisce per crescere come un soldatino, alle dipendenze degli ordini dettati da queste buone maniere, una camicia di forza che reprime ogni emozione, soffoca ogni spontaneità. “A sei anni Lisa sapeva sbucciare una pesca con forchetta e coltello, sedeva dritta come un soldatino con le braccia attaccate al corpo, non faceva neanche un rumore quando masticava o ingoiava e aveva già pulito, se non la sua prima aragosta, sicuramente la sua prima cicala di mare”. Viene da chiedersi: quante vite può sciupare questa cosiddetta buona educazione? E anche quante sono le madri così. Esistono davvero? Quanto di autobiografico c’è in questo romanzo? Persino la morte non deve intromettersi, non può disturbare la giovane ragazza, mentre finge di studiare. Questa buona educazione è distorta, è andata alla malora e fa aspettare ogni male fuori dalla porta, persino la morte, perché non sporchi il pavimento. Anche la malattia, il tumore, che rosicchia la madre dall’interno, non deve fare rumore. E Lisa, infatti, non capisce, non sente le parole. E non le capisce nemmeno quando le cerca su internet. La buona educazione è madre di una finzione perenne, produce e rovina un mondo che è bello come una bella casa in un brutto quartiere, come è quella in cui la famiglia di Lisa abita. “Non c’è gerarchia tra le buone maniere. Sono tutte importanti allo stesso modo”. Questa buona educazione è peggio che una malattia, è il morbo che uccide l’esistenza, la rende un involucro uguale a tanti altri. “Quella buona educazione le imponeva di comportarsi sempre allo stesso modo in una determinata situazione; ma per rendere il tutto credibile doveva sentircisi anche, in quel modo. Solo così ogni cosa avrebbe combaciato, e nessuno sarebbe rimasto spiazzato dal suo comportamento e lei non avrebbe messo in imbarazzo se stessa o la sua famiglia davanti ad amici o sconosciuti”. Questa bolla dell’apparenza rinchiude ogni persona dietro un porta chiusa a chiave così che “alla fine ognuno si ritrovava talmente concentrato sulle proprie maniere che nessuno trovava tempo e modo di occuparsi di analizzare quelle degli altri”.
Non c’è salvezza, non c’è via d’uscita per la giovane Lisa, in questo breve romanzo. O forse sì. Era tornata a Roma, ma doveva salire a Milano per dare un esame all’università. La madre Antonella sta male, ma Lisa deve andare in stazione, per prendere il treno. Così decide di lasciare da sola la madre per venti minuti. Che cosa saranno, dopotutto, venti minuti nella vita di una donna, una madre, alla fine dei suoi giorni?
Linda Terziroli