Oggi siamo talmente abituati ai cambiamenti da non accorgerci nemmeno di quando avvengono. Spesso ce ne rendiamo conto quando sono già alle nostre spalle e noi irrimediabilmente mutati. Dal lavoro alla tecnologia, dalla lingua alla scrittura, il cambiamento è probabilmente il principale fattore che caratterizza le nostre vite. A volte cambiamo addirittura per noia. Cambiamo automobile e cellulare con la medesima facilità; le stesse leggi cambiano, tentato di stare al passo con le maree sociali, spesso senza riuscirci.
Ci sono voluti decenni ma alla fine, pubblicità dopo pubblicità, ci siamo finalmente convinti che le radici non servono a un accidente. È per questo che guardiamo agli anziani con quel misto di compatimento e compassione, senza riuscire a comprenderli. Non capiamo le ritualità, i ritmi, i timori.
Oggi ci siamo dimenticati cosa significhi il vero mutamento, perché a confronto di ciò che hanno vissuto questi vecchi prossimi alla sparizione, le nostre sono sciocchezze, capricci. Questi anziani ancorati all’essenziale della vita e incompresi da noi patrioti del superfluo, hanno vissuto sulla loro pelle il più traumatico dei cambiamenti: la scomparsa della campagna, di un vero e proprio mondo fatto di uomini, fatica, terra, animali. Certo, di campagna ce n’è ancora molta, ma non è più quella di un tempo; non solo per via delle macchine, ma proprio per il tipo di società che quel tipo di campagna presupponeva, con le sue famiglie allargate, i casolari, i tempi del raccolto, e, in fondo, quel po’ di magia che rendeva grande e misterioso il piccolissimo spazio dell’aia.
Proviamo a immaginare un mondo, l’Italia prima della guerra che ne sconvolse il volto, un mondo prettamente agricolo e debolmente connesso a ciò che poteva accadere oltre i confini dei propri poderi, dove le generazioni si susseguivano, padre dopo padre, nelle grandi famiglie mezzadrili, col fattore che viene a fare i conti, i padroni che stanno in città come un residuo della nobiltà terriera. Tutto questo è stato spazzato via, magari non subito, non in un colpo solo, ma le famiglie si sono disgregate, perse nella diaspora sociale che segna l’inizio dell’inurbamento e del mondo come lo conosciamo oggi.
Carossa non è soltanto un luogo, una casa, un podere. È una delle tante realtà mezzadrili della Romagna di inizio Novecento, e chi vi abita prende il nome di Carossa, si identifica con essa. Ancora oggi si incontrano i resti di questa usanza. Mio nonno, di Faenza come me, come anche Marabini, e come anche i Carossa, era conosciuto col nome del podere e non con il suo cognome. E quando mi è capitato di portarlo a far visita ai morti al cimitero, passando davanti a un grande sarcofago in marmo, lo ha indicato e ha detto: “e mi padrò”, il mio padrone. In quel sarcofago non erano racchiusi soltanto i resti del padrone della terra dove lavorava da ragazzo, prima di diventare un proprietario, ma anche i resti di un mondo tutto diverso. Soltanto uno come mio nonno, come i nostri nonni, possono comprendere il valore della terra, perché ottenuta col sudore e la fatica. Un mondo dove il tempo ha un suo preciso ritmo, dove la terra sa essere crudele e benedetta in egual misura, con la morte che porta via cristiani e bestie allo stesso modo, con i litigi e le bestemmie. Certo, la guerra ha cambiato tutto, ma c’era qualcosa di più.
“Pensare è un vizio. Giapì ascolta dentro di sé una specie di rumore, un brontolio, che è come il tuono che viene dal fronte. Sembra il rumore del terremoto, quando si annuncia dalle viscere della terra. È un rumore che è nel sangue, dentro le vene, nel petto, nella scatola del cervello e da lì invade tutto Carossa, come se Carossa fosse una zattera in mezzo al mare. […] Eppure quel rumore viene anche dalla terra ed è un rumore che essa non ha mai conosciuto. Si mescola col tuono della guerra, fa un rombo che cancella la mente e i pensieri”.
Giapì, reggitore di Carossa, e sua moglie sentono che qualcosa sta cambiando, non è soltanto la guerra, ma qualcosa di più profondo, qualcosa che smuove prima l’anima e poi i corpi.
Marabini scrive così un romanzo sul tempo, sul cambiamento che investe le coscienze degli uomini afflitti da un domani incerto, prendendo così il posto che gli spetta insieme ad altri illustri romagnoli, tra cui Dante Arfelli e Francesco Serantini, autori che con le loro opere hanno saputo dar voce alla fin di un mondo, saputo raccontare la corsa di queste ultime generazioni verso un domani ignoto, trasformando un tramonto in letteratura.