Nell’iconografia, sembra la Maddalena di Donatello. La penitenza, però, è mutata in pia pienezza: il corpo di Akka, come quello della Maddalena, è rivestito di lunghi capelli; il viso, tuttavia, non è incavato, ma florido. Entrambe le donne soffrono l’ardore d’amore: se la Maddalena ne è disseccata, Akka è nella sua primavera, sboccia.
In entrambe, l’attributo femminile per antonomasia – i capelli – è ritorto in mera veste, in smunta cinghia o bisaccia. I capelli di quelle tallonate da Dio sono tappeto e voto, alcova e confessionale. Al vederle, tutti impallidiscano al cospetto di tale sposalizio capovolto, odoroso scandalo. Le vedove – dice la Bibbia – si tosano, si fanno calve come avvoltoi; ma qui, a contrario, siamo davanti a una costante danza d’amore – che alla fragranza dell’attesa segua il miraggio e l’abbandono è perpetuo dramma, vita tra chiodo e miele.
Figura straordinaria della religiosità indiana, Akka Mahādēvi nasce intorno al 1130, in un villaggio nei pressi di Shimoga, nel Karnataka, terra di tigri e di sciacalli dorati. Secondo la leggenda, fu introdotta, ancora bambina, alla venerazione di Śiva, di cui intuì la feroce purezza: lo chiamava, secondo una sua formula d’erotico esoterismo, “dio bianco come il gelsomino”. I genitori la obbligarono a un uomo, lei disarcionò le avance dei pretendenti: pare – secondo dipinti agiografici – fosse bella; preferì slacciarsi dai legami con il mondano. In una poesia, Akka dice, senza mezzi termini, che questo mondo è una latrina, che l’amore tra gli uomini è mero bordello. Si diede al vagabondaggio, in sequela d’amore per Śiva: aveva alta dottrina, partecipò a dibattiti teologici pubblici, spiazzando i guru del suo tempo. Preferì il martirio d’amore, però, alla maestria nel tempio: da qui, il modo discinto e allo stesso modo ascetico del suo andare, la vestaglia dei capelli, la via dell’insussistenza. In un distico, chiede al dio che le elemosina a lei donate vadano ai cani; chiede di morire di fame se priva d’amore.
“Secondo la leggenda, ha preferito vivere senza abiti, ultima concessione al mondo, come estrema sfida sociale, vagando coperta soltanto dei suoi capelli. Accerchiata da feroci attenzioni maschili, vagava, scandalosa e afflitta, affermando la legittimità dell’amore illecito per il suo dio, inseguendolo, procurandogli stuoli di devoti… Vagò per tutta la vita, selvaggia e inebriata dal dio, sfidandolo, sfiorandolo”.
A.K. Ramanujan
Secondo gli studiosi – ci si basa sul testo di A.K. Ramanujan, Speaking of Siva, Penguin, 1973; 1985 – le poesie di Akka Mahādēvi sono tra le più alte in kannada, lingua dravidica diffusa in particolare nel sud dell’India. “Le sue poesie registrano la ricerca d’amore in tutte le fasi, secondo i canoni della poesia indiana classica, sanscrita in particolare. L’amore proibito, l’amore nel distacco, l’amore nell’unione sono tutti presenti – e a volte intrecciati – nella sua poesia. L’immaginario tradizionale della poesia d’amore, si contamina con una eccezionale scelta di vita, fino a sfociare nell’ascesi mistica”.
Morì giovanissima, poco più che ventenne, Akka, “dopo una breve e lancinante combustone d’amore”, un prodigio la sua sfida. Certo: la devota deve svuotarsi affinché il dio si acquatti in lei, scelga il suo corpo come quartiere. Ma le lucide estasi di Akka – riassunte in quattrocento poesie, un canzoniere di implacabile coerenza – dicono che amore mai s’intiepidisce, mai si squaglia nell’ordinario; chi vive sulla soglia dell’eterno – gloria e condanna – sa che la fiamma è corona e criniera, incendio e chimera, il dio che fu leone ora viene come sussurro, come cobra, finanche come dubbio.
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Akka Mahadevi
Respiro fragranze:
di fiori non ho bisogno.
Pace, pazienza, perdono, autocontrollo:
la Suprema Postura è inutile.
Il mondo ritrova se stesso
finché resto sola
o dio, bianco come il gelsomino.
*
Ha barattato il mio cuore
razziato la carne
preteso come un tributo
il mio piacere
su ogni mia cosa
ha dominio
Tutto si è preso:
sono la donna in amore
del mio dio, bianco come il gelsomino.
*
Se sapessi
forgiarmi zanne da serpe
e incantare il cobra
vorrei un recinto di crotali.
Se sapessi la via
del corpo vorrei
un collier di corpi.
Un corpo errato è pari
a una madre che si rivela vampiro.
Ma chi è preda del tuo amore
non ha più un corpo o dio
bianco come il gelsomino.
*
Fu pari a uno scroscio
nel baratro secco
di un lago – pari a pioggia
che si riversa su piante
dagli scheletrici rami.
Fu pari al piacere di questo mondo
fu il viatico all’altro
entrambi in me si congiungono.
Vedo i piedi del maestro
il dio bianco come il gelsomino
mi credo degna
di inseguirli.
*
Come il baco che tesse
il suo nido con amore
dal proprio midollo
e muore
tra i fili del suo corpo
che si avvolgono stretti
e lo accerchiano
lo accerchiano
così io ardo
a vuoto
cane dei desideri del mio cuore.
Ti prego, signore,
leva l’avidità del cuore
polverizzalo, mostra
come posso liberarmi
o dio bianco come il gelsomino.
*
Costringimi di casa in casa
con le braccia tese come ciotole.
Che nessuno mi conceda elemosina:
che cadano a terra quando me le offrono
che un cane le inghiotta
prima che io le raccolga
o dio bianco come il gelsomino.
*
Gli uomini
maschi e femmine
arrossiscono quando il velo
che copre le loro vergogne si assottiglia:
se il padrone della vita
vive inabissandosi senza volto
nel mondo, che senso ha il pudore?
Tutto il mondo non è che l’occhio del potente
egli ci fissa ovunque: cosa credi
di poter celare, di poter nascondere?
*
Mezzogiorno rende visibile
l’ampiezza del cielo
i moti del vento, le foglie
e i fiori, i sei colori
degli alberi, i cespugli
e i rampicanti: chiama
tutto questo devozione
del giorno.
La luce della luna, gli astri e il fuoco,
i fulmini e tutti i lumi
sono in adorazione della notte.
Notte e giorno
a te miro – di me
mi dimentico
o dio bianco come il gelsomino.
*
Cosa mi importa dello scheletro
di questo mondo moribondo?
Latrina illusoria
bordello di fulminee passioni
catacomba di maniaci:
con un dito puoi sentire
il fico e decidere
di non mangiarlo.
Prendimi come sono
con tutti i miei difetti
o dio
bianco come il gelsomino.
*
Da quando sono diventata
Te, chi dovrei servire?
Da quando la mia mente si è mutata
Te, a che pro invocare, per chi pregare?
Da quando la mia conoscenza in Te
si è persa, cosa dovrei ancora conoscere?
Essendo Me in Te
attraverso di Te di Me ho perso memoria.
*
Tu sei la foresta
sei gli enormi alberi
del bosco
sei l’uccello e la bestia
e giochi sopra e sotto
gli alberi
o dio bianco come il gelsomino
tutto e tutti riempi.
*
Poi sottrarre
i soldi da una mano
puoi rubare
la gloria dal corpo.
Togli ogni veste
che indossi: puoi
levare il Nulla e il Nudo
che mi velano?
La svergognata si copre
con la luce del mattino
del suo dio, Bianco Gelsomino:
idiota
perché ti adorni di gioielli?
*
Come un elefante
che ha perso la mandria
e viene catturato
ricorda le sue montagne
io ricordo. Come un pappagallo
è imprigionato nella gabbia
e ricorda la sua compagna
io ricordo. O dio
bianco come il gelsomino
mostrami le tue vie.
Chiamami: Bimba, vieni
vieni con me, il resto dimentica.
*
Se mi impone
di mollare tutto
e di combattere al fronte
accetto e resto zitta.
Ma come sopportare questa
frustrazione: Lui è nel mio cuore
e rifiuta di prendermi.
O mente, o memora del passato
se non mi aiutate a raggiungerLo
come potrei continuare a vivere?
*
Cosa ne sanno
le sterili dei dolori
del parto?
Cosa le matrigne
delle cure amorevoli?
Come possono
gli illesi conoscere
la sofferenza dei feriti?
O dio bianco come
il gelsomino, la lama
del tuo amore trafigge
e scassa la mia carne
sono tarantolata
dal dolore:
cosa potete
saperne voi, madri?
*
Conosci
i meravigliosi
modi dell’amore:
una volta scoccata
la freccia si conficca
fino a sparire:
se abbracci un corpo
le ossa si sgretolano
il legame esiste
purché si scinda
la saldatura
l’unico amore
è quello per il nostro dio.
*
Dov’eri
quando non mi conoscevo?
Come il colore sotto
strati dorati, eri già in me.
In te, dio
bianco come il gelsomino
ho amato il paradosso:
eri in me
senza mostrarti.