Di fianco alla porta del Rifugio Bianchet è inchiodata una targa. L’hanno incisa, nel 1999, gli “ex pastori delle malghe”. Siamo a Pian de i Gat, nel bellunese, al delta del gruppo della Schiara, poco meno di 1300 metri di altitudine. Le Dolomiti meno praticate, mi dicono – rari i montanari, in effetti; la rete è assente: privi del contatto con il mondano, nel pieno del mondo, incontattabili, siamo liberi.
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Al posto del rifugio, una volta, erano malghe, raduno di bestie. Il pascolo, in effetti, è di un verde abbacinante: serba un sole sottoterra. L’ultima malga, leggo nella targa, è stata abbandonata nel 1959.
“Cessava allora per sempre il suono dei campanacci del bestiame che, libero, pascolava su questi monti. Ora l’Alpe è silente mentre i pastori superstiti rammentano, con commozione, stagioni di sacrifici ma anche di vita libera tra le bellezze dei fiori e dei monti”.
Mi sembrano frasi magnetiche, che esprimono una poetica della vita. La libertà, mungitura del dolore; i fiori che rispecchiano le stellate, in cielo. Secondo le sacre storie, esiste una pastorizia cosmica; un dio si rivela al cacciatore, uno a chi porta in transumanza le bestie. Campanacci, figliastri delle campane, assegnate al giorno la propria triviale liturgia – ora, è il tempo degli ‘orari di lavoro’, della sveglia, delle ferie comandate.
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Sopraffatti dalla commozione, i ricordi si smussano, tosati da falci zuccherine. Molti anni fa, in estate, andavo ad alta quota con un caro amico. Aveva la casa di famiglia sopra Prali, a 1500 metri, in val Germanasca, Piemonte. Frequentavamo un ragazzo della nostra età che portava le bestie del padre al pascolo: i suoi, avevano allevamenti a valle. Faceva il formaggio, lo aiutava un pastore di fede islamica. Quando una bestia si feriva lo zoccolo, la rovesciava, riparando lo sbrego con una pasta di colore viola. Saltava di rocca in rocca, andando a recuperare – evangelicamente – la bestia smarrita. Ci guardava con un misto di curiosità, rassegnazione, invidia. Beveva il latte delle sue bestie, appena munto. Ce ne offriva. Odore di terra, paglia, sale. Sapeva che quella libertà poteva rivelarsi un giogo: pareva felice. Aveva una forza taurina, eppure, era magrissimo, uno stiletto, si direbbe.
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Il rifugio Bianchet è in mezzo a una conca montana: di notte risuona il fischio del gufo reale. Il gioco è stato più forte di me. Sono uscito dal rifugio, generosamente ebbro, sono salito su una panca di legno, ho cominciato a fischiare. Costruisco una conchiglia con le mani, i pollici fanno da ancia. Ne esce un suono simile, di volta in volta, a quello della tortora o dell’allocco, del gufo o dell’assiolo. Mi ha insegnato un brav’uomo, quando avevo forse dieci anni, abitavo nei recessi della Val Grande. Insomma: il gufo, infastidito, mi dava risposta. Siamo andati avanti per oltre mezz’ora. Le pareti rocciose permettevano al suono di rimbombare ovunque, in mandria. Appena attaccavo, il gufo rispondeva – e così di seguito. Che sensazione memorabile: parlare con l’animale, credere che mi ritenga degno di uno scambio. Quale struttura c’è in questi suoni senza tratturi, bordeggiati di intenzioni con i denti e con le margherite? Che cosa ci stiamo dicendo e secondo quali fraintesi? Fatemi credere che è ancora possibile parlare alle bestie selvatiche.
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Più tardi, mettendo insieme la commozione degli ex pastori d’altura e il suono del gufo. Al di là della cornice retorica, non credo che Virgilio abbia tratto impropriamente il canto dai pastori. Titiro e Melibeo conoscono i nomi delle piante, l’alfabeto delle bestie, i misteri stellari. Spezzano la parola lirica perché si faccia profezia. Allo stesso tempo, Gesù abita il deserto “con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano” (Mc 1, 13). Allo stesso modo, il pastore errante di Leopardi – intriso della medesima sapienza dei pastori virgiliani – si rivolge alla luna e al gregge. Poco importa che il cosmo, al suo ardore, sia muto e senza ricamo di risposta il bestiame. Quello, credo, è il proclama di una poetica: il poeta volta le spalle al linguaggio umano – alla sua coercizione utilitarista, che ordina l’ordinario –, parla alle bestie e alle altezze, sta tra il muggito e l’egloga, tra l’inno e l’ululato, tra il fischio del gufo e la giaculatoria, tra Pater e paternità della fiera. Tutto il resto, è lingua d’uso, d’usufrutto, da latifondisti del verbo, da mettere a coltivo perché il frutto sia industriale prima che industrioso, a far messe. Ma qui, all’epicentro del logos, la parola può sfumare nel famelico fischio del predatore, sfinire nel formulario della prece – parola che precede ogni parola, parola antica, memorizzata, da recitare quando ogni altra parola è in eccesso, senza più accesso. Parola-fuoco, suono-albicocca sulla boccuccia intrepida dell’erbivoro.
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Ai piedi del bivacco, un teschio di cervo, quel palco che sembra reggere Saturno. Indossalo, se vuoi abbarbicarti nel bramito e andare dove il dire è a brandelli.
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San Paolo dice delle “lingue degli angeli”; i grandi pittori medioevali davano ai serafini le ali del pettirosso e quelle del falco, la livrea azzurra dell’aquila, in un capofitto di luce, il tono bruno della poiana. L’angelo può farsi gufo. Che il poeta, nudo, si rivesta di piume: metta il becco nell’annuncio.
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Forse poesia è riprodurre, con bestiale grazia, la voce delle bestie. Le poesie onomatopeiche del Pascoli, i canarini di Saba, l’airone di Antonio Porta…
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“Sia il Falco che il Luccio (come il Toro) sono privi di moto, mi appaiono immobili. In modo forzato, li ho iniziati all’angelo – sospesi nella loro radiosa gloria, attorno al trono del creatore, composti di un sacro, formidabile potere (l’uccello rapace del libro di Giobbe), totalmente immobili, o mentre si muovono con grave lentezza – in pace, composti della sostanza ardente della legge. Come Figli di Dio. Luccio (luce: pesce di luce), Apis il Toro, Horus. Ho inteso il mio mondo – questi esseri familiari alla mia giovinezza – in una dimensione ‘divina’”.
Ted Hughes, Poetry and Violence, 1971
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Nel mondo inglese, Ted Hughes è il poeta che con lungimirante destrezza ha ‘imitato’ il dire delle bestie. Come gli antichi sciamani, ha indossato la veste del corvo (Crow, la raccolta lirico-teurgica più possente è del 1970), si è voltato in lupo e in volpe. Diverso è il caso del poeta che ‘ambienta’ la bestia nel panorama lirico, che la usa come un ‘simbolo’. Non è un caso se la sua poesia più autentica sia per lo più negletta in Italia: è più aspra, immune dall’umano e dal sentimento, a dispetto di quella della sua sfortunata consorte, Sylvia Plath.
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Il vero avo di Ted Hughes, con profondità compenetrate d’abisso, è il poeta americano Robinson Jeffers; qui si tenta la traduzione di Feriti falchi:
I
Il pilastro dell’ala si sgancia dall’incastro
e l’arto si trascina come uno stendardo in rotta;
non potrà più afferrare il cielo, vivrà di fame
e pena per qualche giorno: né sciacallo né volpe
allieteranno la sua attesa di morte: intorno è pieno di prede senza artigli.
Sotto la quercia attende
le rotte vie della salvezza; di notte ricorda la libertà
e vola nel sogno e l’alba gli rovina in petto.
Egli è forte e il dolore è peggiore per chi è forte, dolorosa l’impotenza.
Il giorno giunge e lo maledice, lo tormenta
a distanza: nessuno tranne la morte redentrice umilierà quel cranio
la regale prontezza, i terribili occhi.
Il Dio selvaggio della terra qualche volta è misericordioso
con chi impetra pietà, non così spesso con gli arroganti.
Voi non lo ricordate, volgari uomini, lo avete dimenticato;
ma il falco, intemperante e intrepido, ne ha memoria;
bello e imparziale, soltanto i falchi lo ricordano – e gli uomini, in punto di morte.
II
Preferirei uccidere un uomo piuttosto che un falco
ma il grande codarossa non era altro che inabile miseria
dalle ossa frante, impossibile ripararle: l’ala vampava
sotto gli artigli quando tentava di muoversi.
Lo abbiamo nutrito per sei settimane, gli ho dato la libertà;
ha vagato per le colline del promontorio, è tornato a sera,
chiedendomi la morte. Non come un mendicante:
aveva gli occhi di un vecchio implacabile e fiero.
Al crepuscolo, gli ho elargito il plumbeo dono. Ciò che cadde
era nella quiete: lanugine di gufo, morbidi, femminee piume – ma
ciò che si levò in volo, dopo: la feroce rincorsa, le nitticore presso
il fiume dai larghi fianchi che gridano di paura al suo sorgere
mentre prima non era che una creatura sguainata dalla realtà.
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Poi, si entra nel bosco, nella notturna inquietudine, come ci si immerge in acqua – il gufo tace – finalmente qualcosa che non ha contrafforti, non ha argini di protezione. Essere sotto minaccia riempie di una enigmatica, assurda gioia.
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In rifugio, con me, c’era Pietro Lacasella: antropologo, alpinista, giornalista (autore, tra l’altro, di “Sottocorteccia. Un viaggio tra i boschi che cambiano”, People, 2024), responsabile del quotidiano digitale “L’Altramontagna”. Mi piace condividere questo suo contributo, nato in quegli stessi luoghi:
“Chiudo gli occhi per meglio viaggiare tra suoni e rumori e, in mezzo a questo prato, di fronte al rifugio dove sono sdraiato, come mi capita ogni volta che provo a lanciarmi in questo esercizio, vengo travolto da uno spaventoso analfabetismo uditivo.
Sento, sì, qualcosa, ma spesso non riesco a dargli una forma, un nome; non riesco ad associarlo a tale insetto, al tale uccello, alla tale chioma mossa dal vento.
E questi suoni sconosciuti si palesano solo ora, nella concentrazione, perché appena apro gli occhi e la concentrazione svanisce, scivolano via lasciandomi percepire solo le vibrazioni familiari.
Nella distrazione della quotidianità sento quello che conosco, il resto sfiora le mie orecchie senza riuscire a farsi catturare.
E allora, in questo silenzio apparente, in questo prato di fronte al rifugio, vengo per qualche istante attraversato dalla vertiginosa consapevolezza di riuscire a cogliere, dall’arena sociale, soltanto le riflessioni che già hanno attecchito in me; che già si sono depositate nel mio bagaglio culturale. Di conseguenza, in modo pressoché involontario, rischio di ignorare le traiettorie di pensiero che mi circondano, ma alle quali non riesco a dare una forma. Un nome.
È proprio così – penso – che si vengono a creare le cosiddette camere d’eco: bolle sociali – oggi amplificate dagli algoritmi di internet e soprattutto dei social network – al cui interno si raccolgono modi simili di interpretare il mondo. Entrando in queste camere troviamo conforto, ci sentiamo meno soli, ma al contempo rischiamo di perdere contatto con la pluralità di idee che ci circonda.
Allora ogni tanto vale la pena chiudere gli occhi, aprire la porta della propria camera, e affacciarsi nella novità: per lasciarsi attraversare da prospettive inedite, per provare a comprenderle e per decidere volontariamente se accettarle o scartarle”.
Pietro Lacasella