Tra i nomi circolati in bocca come un chewing gum come papabili Nobel per la letteratura, da anni, c’è quello della poetessa canadese Anne Carson. Classe 1950, classicista – ha tradotto l’Agamennone di Eschilo, e poi Sofocle e Euripide – è da anni, appunto – dal 1998, almeno, l’anno in cui pubblica con Knopf il poema Autobiography of Red – tra i poeti più riconosciuti del mondo anglofono. La lista dei premi ottenuti – dal Guggenheim al MacArthur Fellowship, dal T.S. Eliot Prize al Griffin Poetry Prize – fatica a stare nel contegno di un articolo; Harold Bloom l’ha incapsulata da tempo nel suo personale e transnazionale canone contemporaneo. In un tomo assai sfizioso, Poets and Poems (2005), il titanico critico recentemente scomparso inserisce la Carson, commentando alcuni suoi testi, nella sfilza dei poeti prediletti, da Petrarca a Blake, da Shakespeare a John Ashbery. La raccolta, dai chiari intenti canonizzanti, chiude su Geoffrey Hill, Mark Strand, Seamus Heaney e Anne Carson, di gran lunga la più giovane del corteo. In Italia, tuttavia, sostanzialmente, la Carson è una sconosciuta: nel 2000 Bompiani pubblica il suo capolavoro, Autobiografia del Rosso, nella traduzione d’autore di Sergio Claudio Perroni – ma il libro è “attualmente non disponibile”, quindi, ripubblicatelo gente! – mentre dieci anni dopo Donzelli stampa Antropologia dell’acqua, con stuolo di traduttrici, Antonella Anedda, Elisa Biagini, Emmanuela Tandello. Tutto qui. Cerco di stimolare la traduzione proponendo due poemetti, Kant’s Question about Monica Vitti e Ode to the Sublime by Monica Vitti, pubblicati in origine sulla “London Review of Books” e poi confluiti in Decreation (2005). Sostanzialmente, i poemetti sono, in superficie, un’ode a Michelangelo Antonioni e a due film in particolare, L’eclisse (1962; con Alain Delon, scritto da Antonioni con Tonino Guerra, Elio Bartolini e Ottiero Ottieri) e Deserto rosso (1964; con Richard Harris, scritto insieme a Tonino Guerra). In entrambi i film, la figura centrale è Monica Vitti, che assurge, nell’immaginario poetico della Carson alla ‘Cosa in Sé’, elemento filosofico e turbato, solido platonico e concetto kantiano, elegia della contraddizione, elogio della mente sfibrata. In una nota al testo, come chiarimento a un lettore, nel 2002, la Carson spiegò la sua Ode in questi termini: “Nella poesia, Monica Vitti ci offre un resoconto del film Deserto rosso di Antonioni, in cui recita come una incarnazione del ‘sublime’. Mi pare chiaro che per preparare il suo ruolo la Vitti abbia letto Edmund Burke, che descrive il sublime come ‘composto dalla coincidenza di dolore, piacere, grazia, deformità, ciascuno legato all’altro, a tal punto che la mente è incapace a definire se esso sia dolore o piacere o terrore’. Probabilmente, la Vitti ha esaminato anche la discussione di Kant intorno alla ‘cosa in sé’, che esiste soltanto nelle nostre menti, e che vibra tra lussuria e frustrazione, ‘mentre l’immaginazione si protende verso di essa e torna indietro’”. Domandarsi perché la poesia della Carson non ‘penetri’ nel terreno ignifugo e poderosamente grigio dell’editoria italiana è semplice. Da noi, per deformità d’intenti, funziona la poesia di facile presa emotiva, schietta, scarna, spesso elementare, che pone in versi i facili elementi del quotidiano. All’opposto, convince, invece, una poesia di maniera, del tutto mentale – ma priva di pensiero –, ironica, che dà sfizio all’intellettuale. Proprio della poesia anglofona – da Shakespeare in poi – invece – vado per spanne e semplificazioni in questo contesto – è un discorso ampio, che lega il dato ‘profano’, basso, ‘pop’, all’acuto filosofico, allo scatto del pensiero. Ecco, è una poesia che pensa – penso, per dire, a Charles Wright, a Susan Stewart a Jan Zwicky – quella della Carson. Insomma, ecco i testi, che testimoniano l’abbagliante irrequietezza della poesia contemporanea. (d.b.)
**
La domanda di Kant intorno a Monica Vitti
Era nascosto in lei e dava piacere a Kant. L’Eclisse comincia con il vento che soffia tra i capelli di Monica Vitti. Lei è in una stanza.
Kant sperimentò un piacere in parte negativo. Da dove arriva quel vento?
Kant provò piacere in quella che chiamava Cosa in Sé. Lei vaga per la stanza con gli occhi bassi, osservata con intensità da un uomo sulla poltrona.
La Cosa in Sé è inattingibile, insormontabile. Lei tenta di uscire dalla stanza.
La Cosa in Sé non può essere rappresentata. Le tende sono decorate, la stanza è piena di oggetti, le lampade stanno bruciando, qui e là, chi sa che ora può essere, in che notte siamo? I suoi capelli si muovono lentamente.
Tuttavia proprio per il fatto di non poter essere rappresentata, la Cosa in Sé può essere inscritta tra i fenomeni. Solleva un pezzo di carta, lo poggia.
Kant nota un fruscio tra le barriere sensibili. La sua inquietudine la trascina, esonda, va.
Un ventilatore è sul tavolo accanto all’uomo in poltrona.
Kant si sentì fragile come un’onda.
Ora può andarsene. La superficie del film si placa.
Kant lasciò che la sua anima si espandesse.
Si vergogna un po’, ma è felice di camminare.
Felice di affrontare un’alba ancora più difficile.
*
Ode al Sublime di Monica Vitti
Io voglio ogni cosa.
Ogni cosa è nudo pensiero che ferisce.
Una sirena nella nebbia che fischia ci fa supporre che la nebbia sia ogni cosa.
Uova di quaglia mangiate sulle mani nella nebbia rendono ogni cosa afrodisiaca.
Mio marito scrolla le spalle quando lo dico, mio marito scrolla le spalle per ogni cosa.
I laghi dove la sua azienda ha avvelenato ogni cosa sono bellissimi come un Bruegel.
Conservo il mio negozio perché così posso vendere ogni cosa, anche se è vuoto tengo la luce accesa.
Ogni cosa può rovesciarsi.
Lo sai che nello spazio più profondo del mare ogni cosa diventa trasparente?, chiede
Corrado, l’amico di mio marito e io dico Lo sai quanto ho paura?
Ogni cosa vuole attenzione, il mio collo non è rilassato neanche quando bacio Corrado.
Kant dice che ‘ogni cosa’ esiste solo nella nostra mente, condotta da un moto di piacere e
dolore che si getta avanti e indietro quando sono sul letto di Corrado e lotto
contro ogni cosa con Corrado che guarda dall’altra parte della stanza e poi viene a letto
e mi monta e questo non fa differenza eccetto il fatto che ora devo combattere contro ogni cosa attraverso
Corrado, che ho reso ‘imperterrito’ (così Kant) sul suo letto gelido nel clangore di mezzanotte.
Cosa prenderai?, chiedo a Corrado che parte per la Patagonia e quando dice 2 o 3
valige dico che se dovessi partire porterei con me ogni cosa che vedo.
A questo Corrado non risponde se non che pensa il contrario di ogni cosa che dico.
Non è giusto quello che vorrebbe dire mio marito, lo dice su ogni cosa –
soprattutto da quando sono uscita dalla clinica, una clinica per persone che vogliono ogni cosa,
ogni cosa che vedo ogni cosa che assaggio ogni cosa che tocco ogni giorno anche i posacenere e
nella clinica domandavo soltanto una cosa Cosa devo farne dei miei occhi?