Tempo addietro, frugando nel web in cerca di fonti vive e contemporanee che parlassero di letteratura russa, mi sono imbattuta in Dmitry Bykov. Sapevo fosse una delle voci più conosciute del panorama culturale russo contemporaneo, ma non avevo mai letto, né mi ero mai interessata ai suoi scritti. Difatti cominciai ad ascoltarlo solo in relazione al mio obiettivo: volevo sentir parlar di Blok, Pasternak e tutti gli altri, da un russo colto ed entusiasta. E soddisfai appieno la mia ricerca. Dmitrij Bykov è uno scrittore, un giornalista, un professore, un poeta, un saggista, ma mai nessuno lo ha mai definito un vero e proprio creatore di essenze. Di ogni poeta o scrittore di cui parla, Bykov riesce ad estrapolarne non solo l’impronta letteraria, tracciare i contorni della sua opera, ma anche definirne la personalità e in qualche misura l’anima. Recentemente si è imbattuto in un progetto denominato: cento libri, cento lezioni, prodotte dal telecanale russo: Dožd. Si tratta di cento video-lezioni, della durata di circa 20 min, nelle quali Bykov presenta un autore russo del ventesimo secolo, dal 1900 al 2000. Il progetto è nato dal suo amore per la letteratura russa e dalla sua esigenza di divulgare questo sapere ai propri concittadini, i quali “la conoscono poco, e c’è bisogno pertanto di rispolverarla. In secondo luogo è un sapere che bisogna poi farlo conoscere al mondo.”
È un po’ difficile rendere le performance di Bykov in forma scritta, primo perché sentirlo recitare a memoria intere poesie, o stralci di poesie dei poeti di cui parla, sentire il timbro della sua voce, il respiro e osservarne la gestualità, gli sguardi, percepire il significato emotivo che tutto ciò comporta, sulla carta non si può rendere. Secondo, perché sentire una persona che dal vivo ti parla di un uomo, descrivendolo come la persona che ha giocato un ruolo importante nella propria vita, è un’altra cosa. C’è un aspetto interessante delle lezioni di Bykov, ovvero, la sua capacità di attraversare la “facciata” dello scrittore in questione, (la fama, o l’apparentemente banale titolo o trama di una sua opera) e sondarne non solo i pensieri e i moti del cuore ma anche i pensieri nostri e gli eventuali moti del cuore nostro. Certo, è quello che si dovrebbe fare di tutti gli autori che si studiano “a scuola”, ma Bykov, lo fa in un modo tutto russo, attraverso “la compassione”. In russo avere compassione si dice “žalet’”, ma nella Russia antica questo verbo veniva usato anche nel significato di “amare”, “stimare qualcuno”. Eccovi una lezione in parte tradotta, incentrata sulla figura di Leonid Andreev e uno dei suoi racconti Il silenzio. (Isabella Serra)
“Il silenzio” di Leonid Andreev, un titolo per niente casuale. Cominciamo col dire che di fronte a un periodo di rottura e di aspettative, la letteratura russa è sempre stata un po’ insofferente. Si possono individuare, invece, momenti storici in cui per lei tutto è possibile. Un periodo di lunga stagnazione, per esempio, per la letteratura russa è sempre stato un periodo molto proficuo. Durante un periodo di stagnazione, di transizione, la letteratura russa sboccia in tutto il suo rigoglio, come è successo per il secolo d’argento. Un buon periodo per lei è inoltre una situazione portata all’estremo, o una guerra, quando in risposta ad un pericolo, la letteratura russa esplode repentina, come vedremo nella letteratura degli anni quaranta. Ma quello che la letteratura russa, anzi il russo, non tollera affatto è l’azione dell’aspettare, una situazione di cupa premonizione. Di solito la conseguenza di questa situazione di attesa è solo una: il silenzio. Non a caso il detto russo dice: non c’è niente di peggio che aspettare e poi rincorrere. Non siamo capaci di aspettare, non ci piace, non fa per noi. L’anno 1900 è certamente un anno di speranze, ma soprattutto di paura. Paura e inquietudine. Il regno del nuovo zar Nicola II era iniziato male. Era iniziato con la tragedia nei campi di Chodynka, presso Mosca, in cui migliaia di persone erano morte calpestate dalla folla, durante i festeggiamenti successivi all’incoronazione dello zar; era iniziato con forti tensioni sociali a livello internazionale. Erano tempi in qualche modo apocalittici, nessuno si aspettava nulla di buono .E in quel momento, Leonid Andreev, avvocato di formazione, nativo di Orel, un uomo di indubbio talento, non ancora conosciutissimo, scrive una storia basata su un vero e proprio incidente. Ad Orel viveva un prete, tal padre Andrej Kazanskij, che tra l’altro, aveva battezzato Leonid Andreev stesso. Non ci metteremo qui a ragionare sul rapporto di Leonid Andreev con la fede, ma una cosa val la pena dirla: primo Leonid Andreev non è solo il padre di Daniil Andreev, un importante narratore mistico del XX secolo, ma è anche un uomo con una domanda religiosa molto intensa (basta ricordare il suo racconto: “Vita di Vasilij Fivejskij). La sua fede era, diciamo così, particolare.
Andreev non rendeva le lodi a Dio, né provava gratitudine nei suoi confronti, però gli presentava sempre il conto. Come se Andreev avesse bisogno di Dio, avesse bisogno di qualcuno a cui chiedere qualcosa, a cui chiedere il perché. Perché tanta sofferenza per Vasilij Fivejskij? Perché suo figlio muore annegato, perché sua moglie impazzisce, perché il secondo figlio nasce idiota? Per quale motivo? Perché? Di cosa siamo colpevoli? Ecco, questo è il tono tipico della domanda sdegnata di Andreev. È una domanda di tipo religioso: ha solo un suo significato, tutto particolare. Ed ecco che padre Andrey Kazanskij, il prete che battezzò Andreev, e che in paese non era molto amato, per via della sua avidità e crudeltà, sperimentò, forse, l’evento più gravoso nella vita di un prete: sua figlia si suicida (i preti ortodossi non sono vincolati al celibato). Il suicidio è comunemente considerato un terribile peccato, ma se accade nella famiglia di un prete, beh, allora è paragonabile a una maledizione, a una stigmate. E Leonid Andreev tutto questo ce lo racconta in uno spirito gotico. Ragioniamo un attimo sul significato di gotico. Solitamente chiamiamo gotico tutto. Non solo un goth, ovvero una persona felice e tranquilla che ha deciso di vestirsi di nero e vagare, per esempio, di notte tra fabbriche abbandonate. No, chiamiamo gotico anche Stephen King, chiamiamo gotico ogni pessimismo, ogni delusione di un lavoratore della classe media, che viene licenziato senza preavviso. Ad ogni modo, il concetto di gotico in letteratura è molto più profondo. Se c’è uno scrittore gotico, questo è Leonid Andreev. In cosa crede una persona dalle tendenze gotiche, l’autore o il protagonista di un romanzo gotico? Una persona con questo sguardo crede fermamente che al di fuori della vita, oltre la vita percepibile, inizi un vero e proprio incubo. Crede che la vita sia un minuscolo punto luminoso in un vasto oceano di oscurità e disperazione. Che oltre la vita ci sia solo maledizione, disgusto, che non esista nessun dio, ma solo esseri spaventosi e se un dio dovesse esserci, allora egli è qui, ma tutt’attorno a lui c’è l’inferno, e deserti ghiacciati senza speranza. Questo è il modo di pensare gotico: un mondo immerso nel male. È difficile citare un autore che segua questa tendenza. Edgar Alan Poe, per esempio, è uno scrittore gotico, per il quale il mondo è pieno di orrore inconoscibile, il quale ci avvinghia ogni tanto con le sue lingue di fuoco nero. “Il silenzio” è probabilmente la storia più gotica che Andreev abbia mai scritto, perché qui niente trova risposta. È la storia di un prete che conduce con la sua famiglia una vita tutto sommato tranquilla. Questo prete ha una figlia, Vera, molto amata, la quale da un giorno all’altro non parla più, si zittisce. Cessa di rispondere al padre e alla madre, se ne sta per tutto il tempo sdraiata sul divano di casa al secondo piano senza più avere contatti con nessuno. Il dottore non riesce a fare nulla, vengono chiamati i grandi luminari ma nessuno risolve la situazione: Vera continua a rimanere sdraiata sul divano. A volte risponde brevemente in modo seccato che non le fa male niente e che non dirà nulla di ciò che le è accaduto: non lo sapremo mai. Un tipico caso di pazzia clinica che ha colpito la famiglia del prete. Ma per Andreev la cosa più importante rimane il fatto che non sapremo mai cosa sia successo a Vera. Tutti pensano sia dovuto ad un amore non corrisposto, o forse a una specie di crisi esistenziale, magari una qualche svolta spirituale, o semplicemente depressione, depressione endogena, per usare un termine medico, quella che si genera dal nulla. Fatto sta che due mesi dopo l’inizio della malattia, Vera, senza dire una parola a nessuno, lascia la casa e muore sotto un treno. È chiaro: suicidio. Dopo questo, la paralisi colpisce anche la moglie del prete. Pure lei piomba nel mutismo più angosciante, incapace di dire qualsiasi cosa. Anche il canarino vola via. In casa non si sente volare una mosca. La casa si ricopre di un silenzio angosciante. Qualche volta il prete si reca alla tomba della figlia. All’inizio, subito dopo il suicidio, beh, l’aveva maledetta, perché il suicidio è un peccato mortale, dopodiché, vincendo se stesso, la va a trovare al cimitero. Si getta in ginocchio e nel bel mezzo di quel vischioso pomeriggio estivo, immobile, si sdraia sulla tomba e comincia a chiedere incessantemente cosa sia successo. Dopodiché comincia il miracolo stilistico di Andreev, il culmine del racconto. Cosa succede in quel cimitero? Il prete sente come se delle spaventose onde ghiacciate stiano per travolgerlo; sente avvicinarsi una tempesta muta e immobile che, se visibile, avrebbe spazzato via ogni cosa. La risposta alle sue domande è il mutismo di Dio, il mutismo del mondo, che non è il silenzio, badate. Ora, se Vera fosse stata solo silenziosa, la sua situazione non sarebbe stata così angosciante, sarebbe stato un tratto del suo carattere, quello di parlare poco. Ma lui sente un mutismo esplicativo, quasi sprezzante, quello di Dio che si volta dall’altra parte, che non vuole più parlare, e questo silenzio angosciante riempie tutto ciò che lo circonda. Bisognerebbe conoscere il talento di Leonid Andreev per riuscire a descrivere un pomeriggio d’estate così angosciante, tale da far sentire il gelo sulla schiena del lettore. Di solito abbiamo un’immagine dell’estate piena di suoni e colori: i grilli, le cavallette, gli uccelli che cantano, le farfalle che volano, i fruscii del vento tra le fronde, si sentono suoni e rumori dappertutto, tutto profuma di miele, la natura trionfa. Andreev invece descrive l’estate come colma di un terribile silenzio glaciale dove non si sente voce alcuna, ed ecco che questo mutismo della fede (“vera” in russo significa fede ed è anche il nome della figlia) diventerà il suono dominante del XX secolo e in generale della letteratura russa del XX secolo, perché Dio tace, non vuole l’uomo, non vuole parlare con lui.
La letteratura russa è stata terribilmente ingrata nei confronti di Andreev, dimostrandoci ancora una volta come essa sia invece tremendamente ricca. Leonid Andreev è uno dei suoi miglior esponenti, uno dei più grandi narratori, dotato di tanti altri talenti: era bravo come drammaturgo, disegnatore, fotografo ed era anche appassionato di architettura. Ma è anche lo scrittore che è stato disprezzato con una certa insistenza dalla letteratura russa. Tutti leggevano Andreev, era popolarissimo al tempo, ma chissà perché la critica russa lo odiava Sono pochi gli scrittori sui quali i recensori si sono avventati a quel modo come hanno fatto con Leonid Andreev. Lo ricoprivano sempre di ingiurie sia dopo i suoi testi teatrali che dopo i suoi racconti. Andreev ovviamente reagiva male a queste critiche, ma a volte le prendeva con filosofia: “beh, se non me l’avessero fatto notare sarebbe stato peggio.” Addirittura lui stesso nei confronti delle sue opere aveva un atteggiamente a volte quasi sprezzante: “Per favore, non leggete “L’abisso” (Il racconto più chiacchierato e più criticato). Considerava molte sue cose non riuscite. Naturalmente tutto ciò lo ha ferito in profondità. Non è un caso che in uno dei pochi frammenti registrati di qualche suo discorso, si senta la voce di un uomo che parla di rabbia e incomprensione come sfondo costante della vita di ogni scrittore. Qual è il problema? Penso che il problema sia lo stesso di cui parla un verso dell’Achmatova: “Ha toccato la piaga più nera senza poterla sanare”. Lei lo ha detto del ventesimo secolo in generale, ma penso si possa applicare anche a Leonid Andreev. Andreev ha toccato davvero la piaga più nera: dalla solitudine, alla paura, fino al nostro buio più recondito. Quando capita, (perché capita) di passare la notte da soli, ci rendiamo conto di quanto buio e disperazione ci sia nella vita di un uomo. Camminiamo appesi a un filo, possiamo finire da un momento all’altro nella povertà, nella solitudine, nella follia, come sempre è accaduto. E per il fatto che Andreev ci ricordi tutto questo, ecco che l’odiamo. Ha trovato una forma di guarigione a tutto questo, ci ha aiutato a superare questo male, ma ce lo sviscera ed è in grado di parlarne con una precisione, tale da farcelo percepire. Ma non per questo ci sentiamo meglio. Non ci sentiamo meglio dopo il “Racconto dei sette impiccati”, né ci sentiamo meglio dopo “Il grande Slam” o dopo le “Tenebre”. Nessuno metterebbe in scena “Vita di un uomo”, un geniale dramma panpsichico, dove l’azione avviene nella mente umana, in un territorio astratto. Si tratta di un grande dramma simbolico che stupisce per la precisione della raffigurazione dei nostri sensi: è proprio in questo modo che percepiamo la giovinezza, la sua fioritura, e il suo inevitabile, ahimè, decadimento, ed è tutto così incredibilmente preciso! Ma tutta questa precisione non ci fa di certo sentir meglio. E in questo senso, forse, Leonid Andreev, se non il principale, è sicuramente lo scrittore più particolare del XX secolo: sente e capisce tutto, tutto può essere nominato ma niente può essere superato. Vive in questo straripante gelido orrore del mondo senza riuscire ad opporvisi. Ed è proprio con questa stessa sensazione che possiamo rileggerlo ancor oggi, con quel misto tra curiosità, gratitudine e disgusto (se non si ha voglia di leggerlo, è comprensibile).