
“La scuola ha bisogno di cure speciali. Inutile blaterare di merito o di umiliazione”
Società
Linda Terziroli
L’idrovolante francese su cui è sparito per sempre Roald Amundsen, quel maledetto 18 giugno 1928, tra i ghiacci dell’Artico, forse non era nato sotto una buona stella. Nel volo di prova, alla vigilia del viaggio polare, Albert de Cuvertille, il pilota, nel voltarsi per fare segno al motorista, aveva infilato, per sbaglio, una mano negli ingranaggi del Latham 47-II e aveva perso tre dita. A rivelare questo sinistro presagio e a gettare, finalmente, un fascio di luce tra le fitte tenebre di uno dei misteri più enigmatici del Novecento è L’ultimo viaggio di Amundsen, scritto dall’esploratrice norvegese Monica Kristensen nel 2017 e uscito, in questi giorni, in Italia per Iperborea (traduzione a cura di Sara Culeddu). Il libro documentario, più avvincente di un romanzo d’avventura, affonda le sue radici in una scrupolosa ricerca e in un attento vaglio delle fonti storiche sulle vicende dell’ultimo viaggio del più grande esploratore di sempre. Ma che cosa ci faceva l’Aquila bianca della Norvegia, Roald Amundsen, a bordo di un idrovolante francese? Perché un uomo avvezzo alle spedizioni polari e alle privazioni dei deserti di ghiaccio non è sopravvissuto? I punti oscuri dell’ultimo viaggio di Amundsen si legano indissolubilmente ad un altro mistero che, dopo quasi un secolo, continua ad affascinare e a dividere gli animi. Quello del dirigibile Italia.
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Roald Amundsen era salito sul Latham proprio per salvare il suo rivale e nemico, quell’Umberto Nobile che aveva costruito e che guidava il dirigibile, con cui aveva già intrapreso, due anni prima, la trasvolata polare, a bordo di un’altra aeronave, di fabbricazione italiana, il Norge. I litigi su quel pallone italo-norvegese si erano infiammati poi a terra con polemiche ferocissime, alimentate dalla stampa internazionale. Amundsen e Nobile si erano contesi il merito di quella spedizione polare. Ma, stavolta, era il dirigibile Italia a essere naufragato sul pack, e Umberto Nobile con i suoi era in pericolo. Mentre lui, il grande Amundsen, era sotto la fresca ombra dei suoi meli in fiore, a preparare il pan di spagna per i suoi ricevimenti privati. Alcuni tra i superstiti del dirigibile riuscirono, per cinquanta giorni, a sopravvivere al riparo di una piccola tenda di seta che colorarono di rosso. La tenda rossa. Ma degli altri si persero le tracce. Impossibile non ripensare ai giorni della trasvolata sul Norge. Erano le 2.20 del 12 maggio 1926 quando il dirigibile italo-norvegese Norge su cui viaggiavano Nobile e Amundsen aveva toccato il Polo Nord. La spedizione fascista e italiana, invece, aveva voluto osare, doppiare l’impresa, ma si trasformò in una delle più grandi epopee tragiche dell’Artico e diede vita ad una delle più imponenti operazioni di salvataggio al Polo.
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Roald Amundsen non era più giovanissimo. Erano ormai passati venticinque anni da quando, in piena notte, era partita, dal molo di Oslo, la sua prima spedizione, con la Gjøa. Monica Kristensen ci regala, oltre ai preziosi dettagli inediti delle due imprese con dirigibile e del Latham, uno spaccato biografico del grande esploratore solitario: era “un uomo di mezza età, alto e magro, con i capelli grigi, il viso rugoso e un’ombra di stanchezza negli occhi grigiazzurri”. Ma perché era stanco? Avrebbe dovuto celebrare l’uomo da cui si era sentito deluso e tradito, l’italiano Umberto Nobile, per la sua grande impresa e poi doveva presiedere i festeggiamenti per il norvegese-americano Carl Eielson l’inglese Hubert Wilkins, i due nuovi eroi che erano riusciti a volare da Point Barrow, in Alaska, fino a Green Harbour, alle Svalbard. Ormai a questo si riduceva la sua vita di eroe dei Poli. Coronare d’alloro la testa di altri, nuovi eroi. E poi era sempre squattrinato, si era indebitato fortemente per le sue spedizioni, per pagare le attrezzature e i suoi compagni d’avventura. Per non parlare poi dell’amore. Roald Amundsen si innamorava di donne giovani, ma già impegnate, sposate. “Ultimamente ripensava spesso a Bess Magids, la donna che aveva incontrato a Nome durante la spedizione della Maud. L’aveva conosciuta un sabato, il 22 giugno 1922, a bordo della Victoria, una nave passeggeri che viaggiava da Seattle a Nome, in Alaska. Aveva solo ventiquattro anni, ma era sposata già da otto con Sam Magids, un commerciante molto più vecchio di lei”. E poi c’era Bess, Elisabeth Magids, che stava per atterrare di nuovo nella sua vita. Bess sarebbe arrivata a giorni, pronta a lasciare il marito, per lui. Stava arrivando, a bordo della Stavangerfjord. Era forse un eroe in pensione? “E, quel che è peggio, la spedizione della Maud gli aveva causato danni fisici fastidiosi e cronici: un’intossicazione da monossido di carbonio nel rifugio di Point Barrow, l’aggressione di un orso bianco, una ferita alla schiena che si era procurato scendendo distrattamente e al buio la scala di bordo per uscire sul mare ghiacciato”. Per non parlare del cancro all’intestino che aveva cominciato ad aggredirlo e che lui aveva combattuto con cure sperimentali. Ma, a volte, quel che ci vuole è una catastrofe per fare rinascere un eroe. E la tragedia era lì, preparata sotto i suoi occhi, al sontuoso ricevimento presso il ristorante Dronningen.
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Il direttore dell’Aftenposten per primo fu informato del naufragio dell’Italia. Alla richiesta di andare in soccorso di Nobile e i suoi, Amundsen rispose nel suo inglese: “Right away”. Eppure quello che successe poi fu una catena deprimente di umiliazioni, da cui l’eroe polare seppe comunque rialzarsi, con coraggio e lealtà. Hjalmar Riiser-Larsen non era uno sconosciuto per Roald, con lui e con il fedelissimo pilota, Leif Dietrichson che lo seguì poi nel suo ultimo viaggio fatale, Amundsen aveva già affrontato una spedizione polare, tra il maggio e il giugno del 1925, solo tre anni prima dei fatti di cui parliamo. Curioso come questi stessi personaggi ritornino in scena nei giorni concitati della primavera del 1928. Già nel libro Il mio volo polare (Oscar Mondadori, 2002, oggi introvabile), Amundsen così descriveva Riiser-Larsen, il suo vice: “Egli è talmente conosciuto in patria come aviatore che ogni elogio a questo riguardo mi sembra superfluo, ma possiede inoltre tali e tante altre straordinarie qualità, che non voglio ora fermarmi a elencare, che lo hanno fatto perfettamente adatto al posto che egli ebbe”. L’impresa epica a cui si fa cenno è il tentativo, fallito per un soffio, di trasvolata sul Polo Nord a bordo di due idrovolanti, due Dornier – Wal, l’N24 e l’N25. Già in quella occasione, di Amundsen e dei suoi si erano perse le tracce, erano stati dati per dispersi. “Allora ci raccontarono quanto avessero aspettato e aspettato ogni giorno, certamente nessuno aveva mai detto di crederci morti, ma nel segreto dei loro cuori ciascuno l’aveva pensato; e improvvisamente stavamo là in mezzo a loro: morti resuscitati”. Stavolta, però, Riiser-Larsen non aveva pensato di coinvolgere il suo superiore, ormai in là con gli anni, nei suoi piani di salvataggio di Nobile. Su un punto, però, i piloti norvegesi concordavano: ci volevano gli idrovolanti Dornier-Wal. Nella spedizione del dirigibile Italia, Nobile aveva chiesto di avere con sé Alessandrini, Caratti, Cecioni e Pomella, i cinque meccanici che avevano già volato su Norge. Pomella fu il primo a morire, sul colpo, nella rovinosa caduta del dirigibile sui ghiacci. E alla spedizione italiana aveva preso parte anche l’importante fisico Aldo Pontremoli. Pontremoli, insieme al giovane giornalista del Popolo d’Italia, Ugo Lago, che scrisse una lettera straziante prima di partire, Attilio Caratti, Calisto Ciocca, Renato Alessandrini ed Ettore Arduino, capo-motorista scomparvero con ciò che restava del dirigibile squarciato ormai ridotto ad un involucro, un pallone in balia dei venti, privo di gondola, con la scritta “ITALIA” che scompariva nel bianco accecante del cielo artico. Il metereologo svedese, amico di Amundsen, Finn Malmgren, era stato, invece, preso a bordo da Nobile e fu suo il consiglio fatale che il comandante italiano scelse di ascoltare. Tornare indietro. Kristensen, in modo imparziale e senza la giustizia sommaria che salutò Nobile al ritorno in patria – un Mussolini inferocito lo giudicò colpevole del disastro polare, della catastrofe, di un’onta per la patria, una sconfitta politica per l’Italia – dipinge un ritratto del comandante italiano, così profondamente diverso dal rivale norvegese.
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Mussolini aveva declinato anche l’offerta d’aiuto norvegese. C’erano vecchie ruggini. Nella spedizione polare del 1925 avrebbe potuto far parte anche l’Italia con un N26, ma, sotto sotto, Amundsen allora non aveva voluto una spedizione italo-norvegese. Nel progetto della trasvolata polare, il dirigibile Italia sarebbe stato seguito da un piroscafo, poco adatto alla navigazione polare, Città di Milano, con il ferreo comandante Romagna Manoja. Riiser-Larsen, il secondo di Amundsen che l’aveva tagliato fuori dai progetti di salvataggio di Nobile, aveva preso contatto, di nascosto, con l’Unione Sovietica, sondando la disponibilità di due delle navi rompighiaccio più grandi del mondo, il Krassin e il Malygin. Il Krassin, nella ricostruzione dell’epopea tragica, rappresentò la salvezza per gli italiani superstiti, ma non per tutti i componenti dell’Italia. E, purtroppo, non per Amundsen e i suoi. Ma andiamo con ordine. Amundsen era sul punto di intervenire nelle operazioni di salvataggio, grazie al suo vecchio amico americano, Lincoln Ellsworth, colui che, grazie alle fortune del padre, aveva reso possibile la spedizione N24/N25 e che aveva poi finanziato e partecipato alla missione nell’Artico con il Norge. Ma le sue sostanze si erano ormai assottigliate e non permettevano l’acquisto di un velivolo adatto alla missione. Inoltre l’americano aveva in serbo altri progetti di gloria: avrebbe partecipato come navigatore alla spedizione di Amelia Earhart, che voleva essere la prima donna ad attraversare l’Atlantico. Così Amundsen trovò altrove i suoi finanziatori, in Francia. “Il direttore della Camera di commercio franconorvegese a Parigi, il grossista Fredrik Peterson, aveva seguito sui giornali francesi la vicenda della missione di soccorso privata di Roald Amundsen. Era un grande ammiratore dell’esploratore e reagì con indignazione quando il 13 giugno la stampa riferì che la Lufthansa non avrebbe messo a disposizione nemmeno un Dornier. Il grossista voleva fare qualcosa, ma non era sicuro di come poter contribuire”.
A questo punto, la narrazione della Kristensen si fa magnetica. C’è da un lato il salvataggio di Nobile e parte dei suoi, resa possibile grazie ad un eroico Biagi che, indefessamente e al limite delle possibilità umane, era stato in grado di riparare una radio e trasmetteva costantemente messaggi. L’apparecchiatura radiotelegrafica, che era stata donata dall’azienda Marconi, funzionava, nonostante il disastro, in modo eccellente. Ma prima che i naufraghi capissero che i messaggi erano stati captati, Zappi, Mariano e Finn Malmgren avevano già deciso di abbandonare la tenda rossa e allontanarsi tra i ghiacci polari. Il comandante Nobile, già provato fisicamente dal disastro, non seppe opporsi all’insubordinazione. Divise equamente le provviste: cioccolato, tavolette di latte e zucchero, un po’ di pemmican. La colt, con cui Malmgren aveva ucciso un orso polare, rimase nella tenda. Kristensen ci porta quindi a bordo dell’impavido rompighiaccio Krassin che raccolse per primo proprio questo gruppo che si era allontanato dal campo della tenda rossa. Ormai Finn Malmgren era morto. Ma il racconto si fa agghiacciante. I tre avevano marciato verso terra per diciannove giorni, poi, dopo una bufera di neve, il metereologo svedese si accasciò a terra e chiese agli altri due di prendere le sue provviste e di lasciarlo lì e di portare la sua bussola alla madre. Gli altri due scavarono per lui una buca nella neve e lo deposero lì, mezzo nudo. Nella notte tra il 18 e il 19 giugno, Zappi udì il rombo di un aereo. Era l’idrovolante su cui viaggiava Amundsen? Sì, secondo l’affascinante versione di Kristensen. Il 12 luglio 1928, il rompighiaccio Krassin raccolse i due naufraghi, dal loro singolare accampamento. I russi avevano trovato Zappi in preda ad un’agitazione febbrile, una “psicosi polare” e il capitano Mariano seminudo, deperito, in una buca d’acqua gelata scavata nella neve, deperito e con le caviglie nude appoggiate sulla neve. Pare che avesse dato il permesso a Zappi di mangiarlo, ma solo dopo la sua morte. Dai molti particolari che Zappi, sovreccitato e in preda ad un’ossessione polare, raccontò ai molti giornalisti a bordo del rompighiaccio sovietico, si diffusero atroci leggende sul cannibalismo della spedizione fascista. Il comandante Nobile (su cui gravava una taglia, il premio assicurativo per chi l’avrebbe trovato ben cospicuo) intanto era stato salvato e raccolto per primo e unico, dallo svedese Einar Lundborg, con il suo Fokker 31, il 23 giugno del 1928. Ma il primo velivolo a raggiungere gli italiani, era stato un italiano, era Maddalena con il suo Savoia-Marchetti che aveva lanciato provviste, armi e munizioni, lanciandole sul ghiaccio a tutta velocità, come proiettili. Ma che fine avevano fatto i sei italiani che erano rimasti a bordo del dirigibile Italia che si era alzato in volo dopo il naufragio?
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Prima di partire col Latham, Amundsen aveva detto ad un giornalista dell’Aftenposten: “Il gruppo rimasto sul pallone è quello che ha più bisogno d’aiuto”. Amundsen, poi, li conosceva personalmente. “Il 18 giugno, al momento della partenza del Latham da Tromsø, si conosceva la posizione dell’accampamento di Nobile – anche se in seguito si sarebbe rivelata sbagliata – e i sopravvissuti avevano fornito alcune indicazioni sul pallone: la colonna di fumo avvistata da Nobile e dai suoi subito dopo il disastro poteva solo far pensare ad Amundsen che il relitto non si trovasse lontano dall’accampamento”. Alla partenza da Tromsø, quella bellissima mattina di lunedì 18 giugno, Roald Amundsen si comportava in modo strano, sembrava guardare con aria assente quello che gli capitava intorno. Si era stretto la cintura della tuta e si era seduto in coda all’aereo. “Poi chinò la testa, si voltò e rivolse a Zapffe uno sguardo difficile da decifrare”. La scomparsa di Amundsen non scosse solo la giovane Norvegia ma fu un caso che sconvolse tutta Europa. Il suo rivale e nemico, Umberto Nobile, venne additato come colpevole della morte dell’eroe polare. Ad Amundsen si tributarono discorsi e onori, nonostante non si sapesse ancora nulla di certo dell’idrovolante francese su cui viaggiava. Dei dispersi nel pallone del dirigibile Italia, molto presto gli stessi italiani di Città di Milano non vollero occuparsi e l’aliscafo fece rotta verso sud. Con la grande indignazione dell’equipaggio del Krassin disposto a proseguire le ricerche, ma con l’aiuto necessario. Kristensen passa quindi in rassegna tutti i ritrovamenti veri e presunti dei “pezzi” del Latham nei mari intorno alla Norvegia. Sembra quindi improbabile che l’idrovolante francese sia precipitato in mare. Nel 1936, un ritrovamento solleva nuove e affascinanti ipotesi sul destino degli scomparsi, da Amundsen ai naufraghi del pallone Italia. “Nel 1935, l’Università di Oxford organizzò una spedizione di studenti che vide la collaborazione dei professori Binney e Ahlmann. Guidata da Alexander Glen, era formata da giovani con la sua stessa formazione in illustri college di Oxford e Cambridge”. Cosa ritrovarono? Il 10 aprile due studenti, Mackenzie e Wright, in slitta dal Rijpfjord fino all’interno del Zorgdragerfjord e tutt’intorno alla penisola di Platen, trovarono un rudimentale accampamento, con un mucchio di sassi piramidale, alcune scatole e vecchie lattine. “In una delle scatole c’erano documenti italiani, carte di cioccolato e un grosso pezzo di tela plastificata, di quella che si usava per i palloni dei dirigibili. I due studenti fecero uno schizzo dell’accampamento e annotarono i punti in cui avevano trovato i diversi oggetti che furono poi portati alla base centrale e mostrati al capo della spedizione e agli altri partecipanti”. Nell’accampamento, pare ci fossero anche uno sci spezzato, un osso di foca, un pezzo di giornale norvegese, biscotti secchi o crostini di pane. Ma la posizione non venne mai chiarita. Probabilmente era un accampamento dei naufraghi del dirigibile Italia. Oppure era l’equipaggio del Latham? “Quando dopo l’impatto la gondola si era staccata, il pallone si era sollevato ed era scomparso. Dopo una ventina di minuti molti dei sopravvissuti avevano notato una colonna di fumo a circa 20 chilometri di distanza. Presumibilmente la direzione era la stessa del vento, ovvero nordest”.
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Il mistero, con il ritrovamento, si infittisce. “Non tutti i ritrovamenti nell’accampamento misterioso hanno una facile spiegazione. Perché qualcuno aveva portato un pezzo di giornale norvegese in quella landa deserta? Era stato usato per impacchettare? Conteneva un articolo particolarmente significativo? Ma il più inspiegabile di tutti era il ritrovamento dei crostini di pane secco: non era tra le provviste dell’Italia”. Si fa così strada la più affascinante delle ipotesi. Roald Amundsen, a bordo del suo idrovolante francese, inadatto ai ghiacci dell’Artico, aveva ritrovato il gruppo dei naufraghi del pallone Italia che non erano mai stati localizzati. Ed erano stati dati per morti. Solo l’equipaggio del Latham, di sicuro, poteva avere con sé un pacco di kavringer e un giornale norvegese. Nel film La Tenda rossa, del 1969, straordinaria pellicola del regista Mickail K. Kalatozov, dedicata al disastro polare del dirigibile Italia, Amundsen, un fascinoso Sean Connery, attraverso uno squarcio tra le nubi, trova il relitto del dirigibile Italia e gli uomini sparsi tra i rottami, paralizzati dal gelo della morte. In una desolazione artica, nella immacolata solitudine della morte, il destino si compiva, mentre il vento si insinuava dentro l’involucro, disarmato e inservibile, dell’aeronave. L’ipotesi fantastica e suggestiva della produzione cinematografica italo-russa poteva non essere poi così lontana dalla verità storica. Ma, a questo punto, Amundsen e i suoi avrebbero trovato in vita i sei del dirigibile. E poi c’era un dato inconfutabile: il ritrovamento di un serbatoio del Latham che portava segni di un intervento umano e che minava alla radice l’ipotesi di un’avaria al motore e della distruzione dell’idrovolante. Monica Kristensen, grazie alla sua immane ricerca, riesce nell’ardua missione di testimoniare come il grande eroe polare Roald Amundsen sia riuscito anche in questa sua ultima missione, ritrovare i sei uomini del dirigibile Italia e a salvarsi. Era ormai senza benzina e con un idrovolante ormai irrecuperabile. Bastava solo che si decidessero a salvarlo. Ma il 3 settembre – prima di successivi eloquenti ritrovamenti dei resti del velivolo – Roald Amundsen, Leif Dietrichson e i francesi del Latham venivano dichiarati presumibilmente morti. La pagina funebre dell’Aftenposten, la croce e il volto di Amundsen con i solenni necrologi è appesa, incorniciata ancor oggi al primo piano del Polar Museet di Tromsø. Forse, mentre il giornale andava in stampa, l’Aquila della Norvegia era ancora in vita. In una delle sue ultime interviste, il grande esploratore artico e antartico si era abbandonato alla confessione del suo desiderio più inconfessabile ed estremo: “Ah, sapeste com’è bello il paesaggio lassù! È lì che vorrei morire, vorrei una morte cavalleresca, che mi cogliesse nel corso di una grande impresa, una morte rapida e indolore”. Forse, anche stavolta, quest’ultima volta, aveva realizzato i suoi sogni.
Linda Terziroli
*In copertina: Roald Amundsen nel 1925, alle Svalbard