29 Giugno 2020

“Scopo dell’arte è donare se stessi, non clamore o successo”. Dialogo su Boris Pasternak con Alessandro Niero

Dico – indipendentemente dal mio ardore, dalle mie primaverili passioni. Mi è sempre parso un paradosso. Una idiozia, meglio. Le poesie di Boris Pasternak, tra i poeti più grandi del secolo, in Italia sono introvabili. Certo, c’è l’antologia Einaudi, rabdomantica, di Angelo Maria Ripellino, una specie di miracolo: ma quella, appunto, fa venire voglia di leggere tutto il resto. Assente. Boris Pasternak è il solo poeta a cui il Nobel per la letteratura – egli lo intuiva, per altro – abbia fatto l’effetto di una ghigliottina, di una affettatrice. Pasternak, così, è passato alla storia della mistificazione letteraria come l’autore del Dottor Živago, romanzo potente, per carità, non indimenticabile (le parti più belle, guarda caso, sono quelle ‘liriche’); e Mondadori ha dedicato a un poeta un ‘Meridiano’ per le Opere narrative (tra l’altro, ottimamente introdotto da Vittorio Strada e con una congrua Cronologia curata da Evgenij Pasternak). Paradossale, appunto. Così, per leggere i poemi di Pasternak (L’anno novecentocinque; Il sottotenente Schmidt; Spektòrskij) bisogna raspare nei mercatini (io ho una versione delle Edizioni Accademia del 1968), mentre Mia sorella la vita, la raccolta stupefacente del 1922 (l’anno dell’Ulisse di Joyce e della Terra desolata di Eliot; l’anno in cui muore Proust, in cui Kafka comincia Il castello e Rilke termina le Elegie duinesi), la più nota, è pubblica – con copertina orrenda – da Mondadori, per la cura di Nadia Cicognini, nel 1999, ora è sparita dal circolo librario. Insomma, si è sempre trattato il poeta Boris Pasternak a pesci in faccia, o con progetti editoriali al limite dell’irrisorio (Le poesie di Jurij Živago edite da Feltrinelli nel 2018, che tutti conoscono perché sono in calce al fatidico romanzo). Per fortuna, da qualche anno, in visione di un anniversario doppio, importante – quest’anno sono i 60 anni dalla morte di Pasternak, i 130 dalla nascita – Passigli ha cominciato a pubblicare le poesie dell’immenso poeta russo. Dopo l’antologia curata da Marilena Rea, Anch’io ho conosciuto l’amore (2016) sono seguite le pubblicazioni di singole raccolte, Temi e variazioni (2018, a cura di Paola Ferretti; in origine 1923), Sui treni del mattino (2019, a cura di Elisa Baglioni; in origine 1943) e ora Quando rasserena, per la cura di Alessandro Niero, che esce a Parigi, in russo, nel 1959. L’ultima raccolta di Pasternak – che si poteva leggere, ma solo in parte, nel volume Feltrinelli Autobiografia e nuovi versi, ormai irreperibile – ha la gioia del congedo, la concretezza di ciò che non muta, senza invidia di cielo. Quando rasserena raccoglie alcune delle poesie più note di Pasternak, All’ospedale (“Spegnendomi in un letto d’ospedale,/ sento il calore delle mani Tue./ Mi tieni come fossi un manufatto,/ come un anello mi riponi in un astuccio”) e Arano, ad esempio, e alcune dichiarazioni di poetica che lasciano senza fiato per immediatezza, che vanno scritte sui muri di casa: “In ogni cosa ho voglia d’arrivare/ fino al nòcciolo, al nucleo”; “Scopo dell’arte è donare se stessi,/ non clamore o successo”; “Si deve invece vivere senza impostura,/ vivere così da attrarre, in fine, a sé/ l’amore dello spazio,/ udire la chiamata del futuro”. Mentre lavora a questa raccolta, nel 1958, Pasternak scrive a Nina Tabidze, pieno di una energia imperiale, nuova, evocando il futuro, il prossimo candore, “di fronte a me, ancora vivo, si libera uno spazio la cui integrità e purezza vanno dapprima comprese e poi riempite di questa comprensione”. Pasternak è il poeta che ausculta il mistero, la sua forma di vento e di betulla, di sciacallo e di collina – e a noi, tra le mani, poverissime, pare un premio. (d.b.)

Ripellino amava poco l’ultimo Pasternak; d’altronde Pasternak stesso sembra minimizzare, in alcune lettere, le poesie di Quando rasserena: come mai? In verità, lì raccoglie alcune delle sue poesie più note, profonde, umane. Cosa è cambiato dall’epoca di Mia sorella la vita?

Nella splendida edizione einaudiana delle Poesie di Pasternak, che non contiene prelievi da Quando rasserena (siamo nel fatidico 1957, ma prima che compaia Il dottor Živago), Ripellino, in effetti, sembra paventare una involuzione dello scrittore: «Il poeta si scioglie dai vecchi viluppi di suoni e immagini, per tornare nell’ambito del “melodismo”. Questo mutamento ci fa temere che la poesia pasternakiana, perdendo il suo peso specifico, si abbandoni in futuro a cadenze gratuite, a una generica musicalità orecchiabile […]». Nell’edizione del 1959, che già, invece, contempla una ventina di liriche da Quando rasserena, il giudizio rimane come sospeso: «Le più recenti poesie tuttavia sostituiscono alla calcolata strumentazione una scioltezza cantabile, riprendendo quasi la liquida melodicità dei simbolisti». Certo, anche così è difficile sottrarsi all’impressione che Ripellino nutra qualche dubbio sulla “nuova”, illimpidita maniera dello scrittore. A un traduttore come lui, che veniva dalla possente opera di antologizzazione della poesia russa del (primo) Novecento, e quindi era uso a confrontarsi con una stagione che innalzava – per necessità, certo (anche se non sempre) – la bandiera della complessità come segno distintivo, la relativa semplificazione del tessuto lirico pasternakiano può essere apparsa come un décalage. O, peggio, come un adeguamento al «minimalismo estetico» (sono sempre parole di Ripellino) della coeva poesia sovietica, che, tra l’altro, Ripellino di lì a poco proporrà al lettore in Nuovi poeti sovietici (Einaudi, 1961). Ragione o torto che abbia, temo che queste circostanze possano aver fatto velo sul lascito umano e profondo dei testi di Quando rasserena (anche se questi tratti non sono sempre garanzia di tenuta poetica). Non amo fare le classifiche, ma, del resto, ho l’impressione che l’intensità dello sguardo di Mia sorella la vita, pur comportando una certa quale ermeticità, rimanga insuperato in termini di prodigiosa lettura del mondo e sintonia con i fenomeni atmosferici. L’ultimo Pasternak, va letto con il metro di una pacificata senilità, di un allentamento della tensione immaginativa giovanile. Se ciò, poi, rappresenti un passo in avanti o indietro, è materia dei critici. Per parte mia posso dire che trovo commovente la condizione dell’ultimo Pasternak, con la sua fiducia ormai minimale (perché insidiata dal tempo e dall’esperienza) nella poesia, anche laddove essa porti a esiti sguarniti, quasi basici. E non dimentichiamo che questo signore di quasi settant’anni è reduce dall’affresco del Dottor Živago, spossante sotto ogni profilo e, forse inevitabilmente, capace di relegare sullo sfondo tutto il resto. Ma – mi si lasci dire – il Dottor Živago è anche latore di un’informazione di fondo: Pasternak è, e resta, principalmente un poeta: anche il poeta di Quando rasserena.

Domanda al traduttore: rispetto ad altri grandissimi (chessò: Achmatova, Mandel’štam, Majakovskij) qual è il carato, il carattere linguistico di Pasternak?

È una domanda che costringerebbe ad affrontare una fetta enorme della storia della letteratura russa. E, credo, costringerebbe anche a indagare su quanto sia diversificata la poesia stessa di Pasternak al suo interno. Suppongo che nemmeno con uno sforzo supremo (e un po’ ingrato) di semplificazione si possa fare, almeno in questa sede. Temo, quindi, di poter tentare di sintetizzare solo qualcosa sul Pasternak di Quando rasserena, riprendendo – inelegantemente – me stesso. Lo scrittore, da più di un decennio ormai, si sta allontanando dal suo stile precedente e orientando verso quella affabilità di dizione e relativa comprensibilità di contenuti che contraddistinguono la cifra della sua fase estrema. La sua «fedeltà alla vita, alla vocazione di scrittore, alla natura animata dall’attività fruttuosa dell’uomo» (sono parole del figlio Evgenij) vengono restituite in uno stile dove è come se Pasternak si fosse definitivamente scollato dallo sgargiante groviglio metaforico-metonimico delle sue prime raccolte, senza però smarrire la concentrazione dello sguardo e, semmai, schiarendo la sua vena di «preciso e brusco descrittore» (D. Bykov). Siamo vicini, quindi, a quanto Pasternak stesso disse il 25 giugno 1935, a Parigi, al Congresso per la difesa della cultura: «la poesia […] giace nell’erba, sotto i nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e raccoglierla da terra».

Boris Pasternak in un disegno del padre, Leonid

Fino a che punto possiamo dire che con Quando rasserena si chiude la parabola lirica di Pasternak? E che rapporti intrattiene questa raccolta con Il dottor Živago?

Credo che la parabola lirica di Pasternak si sia chiusa solo con la sua morte. Non immagino un Pasternak totalmente svincolato dal suo essere agganciato all’universo tramite la scrittura in versi (anche se l’ultimo grande progetto a cui lavorava era, a dire il vero, un’opera teatrale: La bellezza cieca). Anzi, mi sarebbe piaciuto percorrere criticamente il sottile crinale di gusto e di talento che comunque avrebbe separato Pasternak dai suoi colleghi coevi (almeno nell’ambito della poesia ufficiale), fin da subito ben disposti verso una poesia intesa come programmaticamente veicolabile a (e condivisibile con) un pubblico ampio e, anche, “popolare”. Quanto al rapporto con Il dottor Živago, riprendo – di nuovo – alcune mie suggestioni. Se consideriamo che Jurij Živago, “fratello letterario” di Pasternak, elabora, senza sbandierarlo, uno status da superbo dilettante, quasi un contegno da anti-poeta sideralmente lontano dalla comunità/consorteria letteraria, mi vien da pensare che, in Quando rasserena, è come se Živago fosse idealmente uscito dalla pagina, smettendo la sua natura di alter ego, per ricongiungersi con il suo creatore, Boris Leonidovič Pasternak, per irrorarne l’estrema, preziosa fatica.

Scelga una poesia, un verso della raccolta che ha tradotto, a suo avviso esemplare. E mi dica perché.

Potrà sembrarle strano, ma la poesia che vado a scegliere è tra le più “semplici” del volume e s’intitola Arano (con voluta, e imprudente, declinazione pascoliana: Aratura avrebbe funzionato altrettanto bene) e la saluto come esemplare in quanto portavoce del tema “mondo naturale”, importantissimo in Quando rasserena. Allo sguardo del poeta (o dell’io lirico implicato) si apre uno spazio vasto trapuntato di natura sia disciplinata dall’uomo (i campi arati) sia, semplicemente, in fiore. Spira una tale armonia tra lavoro contadino e rinverdire primaverile, si sposano in modo talmente felice i toni pastello delle betulle e quello dei terreni toccati dall’opera dell’uomo, che mi prende nostalgia di questa possibilità di connubio (specie in tempi come questi, dove è quasi più normale parlare di un conflitto tra uomo e natura). E mi delizia la limpidezza – perfino demodé, se si vuole – con cui Pasternak si affida all’incanto di quel paesaggio “natural-colturale”, così gentilmente calato in semplici quartine, dove comunque si sente, quasi schivo, l’occhio parcamente trasfigurante del poeta. Inoltre, e per finire, è l’incipit che mi colpisce in modo particolare, con quel trapassare della terra nel cielo (o viceversa). Lo cito: «Cos’è successo al posto di sempre? / Tra cielo e terra il discrimine è stinto. / Caselle arate, come di scacchiera, / si sono sparse a perdita d’occhio»

Ultima. L’autore che vorrebbe tradurre. Quello che le ha dato più gioia tradurre.

Ho studiato per almeno una dozzina d’anni e amato (e amo tutt’ora) l’opera di Iosif Brodskij, ma, per motivi vari, sempre non dipendenti dalla mia volontà, non ho potuto mai dare alle stampe il non molto che, in privato, ho tradotto. L’autore che mi ha dato più gioia tradurre è quello che ha inaugurato, nel 2013, la collana «Russia Poetica» di Passigli, ossia Boris Sluckij («Il sesto cielo» e altre poesie), un poeta sovietico di grandissima levatura, diviso fra fedeltà all’establishment politico e tentativo di essere integerrimo. Non è un caso che sia tra i pochissimi lirici salvati – appunto – da Brodskij, che non era tenero con la poesia sovietica.

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