“Esistono spiriti liberi e coraggiosi a cui piacerebbe non ammettere che hanno un’anima a pezzi, tracotante, incurabile. A volte, impazzire è un travestimento, per chi ha certezze troppo infelicemente sicure”.
Sulla soglia di un testamento, uno spargimento di cristalli, Christian Bobin, figura eccentrica, isolata per traduzione della letteratura francese muore poco dopo che Gallimard ha allestito una antologia delle “opere scelte”, “Les différent régions du ciel” e pubblicato l’ultimo libro, “Le muguet rouge”. Antoine Gallimard ha scritto, ricordandolo, che “Bobin ci cura dalla tristezza e dallo scetticismo, ci invita a cercare la gioia”. La poesia, però, non scorda di valicare le regioni della disperazione, gli sguardi murati. Uno dei libri-faro di Bobin s’intitola “La dame blanche” ed è dedicato a Emily Dickinson – tali sintonie tra poeti d’oltremanica cronologica irradiano fragori, fulmini e pianto. Luca Gaviani ha tradotto e introdotto quel libro per AnimaMundi, che da anni pubblica con monacale fedeltà Bobin; il testo uscirà in gennaio, qui, in memoria, ricalchiamo larga parte dell’introduzione.
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C’era proprio bisogno di un altro libro su Emily Dickinson, l’ennesimo, su questa donna americana schiva e complicata, vissuta nell’anonimato di una provincia del Massachusetts ai confini del mondo, e per di più nell’ottocento? Serviva davvero un altro trattato sulla storia di questa poetessa che in vita non pubblicò quasi niente, lasciando nel cassetto della sua stanza un migliaio tra poesie e lettere? Era effettivamente necessario un altro ritratto di questa entità così diafana e imprendibile che, a un certo punto, ancora giovane, non esce più di casa? Ebbene sì, ne avevamo proprio bisogno, perché Christian Bobin non è un biografo, è più un agiografo eretico, fantastico il suo San Francesco e l’infinitamente piccolo, ergo la sua descrizione è altra, alta, la sua visione diventa così un faro metafisico posizionato all’interno, che non va a illuminare gli accadimenti, le realtà, le azioni, ma gli sconvolgimenti, l’intensità, le emozioni, ribaltandoci la visuale per meglio vedere, proponendosi di accompagnarci in un viaggio al centro dell’uomo che ha sullo sfondo e di passaggio vite normali, avvenimenti nei quali tutti si possono riconoscere e confrontare, ma il tutto guidato con uno sguardo cristallino, depurato da ogni sovrastruttura morale, culturale o esperienziale.
Emily Dickinson è uno dei più grandi poeti mai esistiti e Christian Bobin, intagliatore di parole, artigiano di frasi, è perfetto per calarsi nel ruolo di esegeta esteta ed estatico, assurgendola al ruolo di divinità. Bobin – che Abita poeticamente il mondo con la sua Presenza pura, che si descrive, alla luce di Mille candele danzanti, in un Autoritratto al radiatore e definendo la sua amante morta Più viva che mai, che paragona il suono della pioggia alle sinfonie di Mozart, che adora le ghiandaie ed è suddito della Sovranità del vuoto, impassibile e impossibile ricercatore del Distacco e della Luce del mondo, che possiede in casa sua una Biblioteca di nuvole, vergata con Lettere d’oro, che si Consuma in un Temporale e considera Antonin Artaud l’uomo del deserto, dicendoci espressamente che Tutto il mondo è occupato, e che in più ha anche un Cuore di neve e dichiara “Folli i miei passi”, pensando che L’amore sia una piccola cosa e credendo fermamente in Un Cristo dei papaveri – è l’unico in grado di intraprendere il cammino iniziatico nella mente di questa contemplativa, di questo corpo poetico che non è altro che un esercizio spirituale fatto carne.
Lui, Christian, conta i passi di Gesù, l’Uomo che cammina, e a tal proposito vorrei raccontarvi l’aneddoto di come ho conosciuto io, Bobin, anche e soprattutto se non vi interessa. Una settimana santa di circa vent’anni fa decido di accettare l’invito di una strana comitiva, capeggiata da un prete carismatico ed energico, formata da una trentina di ragazzi e ragazze, per partecipare ad un triduo pasquale di meditazione sulla Parola di Dio. Il posto è bellissimo, un eremo affacciato sul Lago di Garda, a strapiombo sull’acqua, con di fronte le montagne innevate, una vista mozzafiato dalla finestra della mia camera singola. Una notte, mentre sto leggendo o forse pensando che cosa sia venuto a fare, vedo passare da sotto la porta un libricino, bianco, edito da Qiqajon, la casa editrice del monastero di Bose, con sulla copertina raffigurato un Cristo in bassorilievo, che ascolta i discepoli di Emmaus dandogli le spalle. Lo afferro, leggo il titolo, L’uomo che cammina. L’autore, Christian Bobin, è a me sconosciuto. Incuriosito dal gesto, mi butto a capofitto sul testo per, letteralmente e letterariamente, non uscirne più – vivo? –. Rimango sul racconto, lungo appena venti foglietti tascabili, più piccoli di un A5, tutta la notte, lo leggo e lo rileggo, anche ad alta voce, nel silenzio nottambulo, lo sottolineo e scrivo appunti a margine. In epigrafe il volume contiene anche la trascrizione di un dialogo radiofonico tra Gabriella Caramore e Guido Dotti, monaco di Bose.
Questo autore mi infiamma, mi esalta, mi risveglia, da quel giorno cerco ogni cosa che ha scritto, comunicato, appuntato. Il suo stile, calibrato con frasi sedimentate e ariose, seppure brevi, sembra nato per esaltare le cose più nascoste, impercettibili, dotate di potenza e fondamenta. La sua poetica rilascia profumi magnetici, sensi sensazionali, incanti incauti. Bobin risveglia in noi l’inconscio incorrotto, la primizia che tenevamo nascosta, conoscendoci meglio di chi afferma di averci creato. Non ho mai saputo né indagato su chi mi avesse passato sotto la porta il libello, ma sono sicuro che sia stato qualche angelo serafino, abitante di quelle foreste e di quelle nuvole e di quelle acque, incuriosito dalla mia presenza…
Christian ed Emily sono due poeti così simili, rinchiusi in casa e non a caso, per descriverci meglio il mondo, due personalità uguali, attigue ed attiche, due entità affini e finissime, che scelgono l’isolamento e il ritiro per accompagnarci e partecipare più intensamente alla nostra vita e a quella degli altri. Bobin riesce quindi a distillare, descrivendo la vita della Dickinson nei suoi passaggi chiave, dalle sue esperienze più estreme a quelle più consuete e ripetitive, tutto il sidro che scaturisce dal suo diamante, e che rifulge la luce accesa entrando dagli alambicchi dei suoi occhi.
Diciamo subito che Emily non fu molto fortunata in campo amoroso, nelle relazioni umane, ma su di lei Dio aveva progetti ben più ambiziosi, voleva che diventasse il suo cantore, il suo postino, il messaggero in terra, e che gli scrivesse, inviasse, portasse per sé e con sè, le sue parole più divine e ammaestrate. Le poesie di Emily non sono altro che esuberanti ed esorbitanti, infiammanti e infirmate lettere all’Amore, cesoie e setaccio di un dio giardiniere e cuciniere, missive come missili alla vita, raccomandate ai sentimenti più profondi che ci abitano, alle cose che non hanno voce, siano esse insetti, inflorescenze, uomini ordinari, mansioni casalinghe od oggetti inutili. Tutte le attività che la Dickinson svolgeva, intraprendeva, sembra dirci Bobin, oltre a quella di scrivere, sono state un prolungamento della sua penna e della sua attenzione più precisa e vibrante, più minuziosa e coinvolgente, verso chi si espone in modo timido, dimesso, rimanendo in disparte e sottomesso. Nel sangue di Emily scorreva l’inchiostro più rosso e più raro che il suo cuore potesse ricavare e ricreare, ricercare e ricalcare, per poi intingere un’emozione pura, un’estasi magnifica e meravigliosa perché più umana.
Christian Bobin ci mostra una donna capace di entrare in profondità e in empatia con tutti gli esseri con cui aveva a che fare, per riportarli alle altezze che gli erano più congeniali, nella condivisione di un dolore, che non è una maniera di essere con loro, ma di scoprire in coloro una miniera d’oro. La Dickinson eleva e riabilita, per Bobin e non solo, il ruolo di donna, da custode e protettrice del ménage a custode e protettrice dell’anima, di quella porzione di eterno che abita e si agita in ciascuno di noi, mettendoci tutta l’attenzione di cui una persona può esserne capace e rapace, rimanendo in ascolto e in guardia del grido più acuto e silenzioso che intorno a noi chiede incessantemente aiuto, come un specie di cacciatore mistico, con al posto del fucile un calamo e, dalla sua altana, col suo richiamo più musicale mai sentito, aspetta la preda, per fargli il verso.
Lo scrittore francese non fa di lei la donna invisibile, ma la incorona regina dell’impercettibile, del minuscolo, della particella più inscalfibile della magia, dell’atomo indivisibile della Grazia. Lei, che con i suoi capelli rossi e un’espressione solenne ed enigmatica, poteva benissimo esser presa, passare per una strega, all’opposto conosce invece tutti i segreti della magia bianca, degli incantesimi soavi, le formule magiche per immortalare il bene più profondo. […]
La Dickinson non si augura la morte, ma la giustifica, la custodisce, la invoca come protettrice, la blandisce, la incuriosisce, la accompagna. Scrivere non è altro che intromettersi tra la morte e ciò che rimane di noi, intrattenendosi con lei come per guadagnare tempo (o forse perder tempo, chissà), giocandoci, a nascondino, a un due tre stelle, dove la poesia è la tana che liberatutti o il sensore di movimento. La sua scrittura non è altro che il sepolcro vuoto, la scacchiera aperta dove la dama nera e la dama bianca si toccano e si annullano, elidendosi a vicenda. Dentro la poesia convivono tutte le speranze risolte e risorte. Bobin utilizza anche lo spazio bianco, dove Emily e anche noi possiamo fermarci a riflettere, a prender fiato, tra una vocale che ci si blocca nel palato e una parola così dolce che non si stacca dalla punta della lingua. Tra un paragrafo e l’altro, come in un respiro, un bagliore improvviso che ci acceca, un ghiacciaio da attraversare in punta di piedi, un silenzio da scorrere con lo sguardo, una neve leggera che è scesa per cancellare la terra nera, ci si deve trattenere, interrompere, smarrire.
L’opera di Bobin non è assolutamente una riabilitazione, la Dickinson, dall’alcova della sua grandezza, non ne ha certamente bisogno, ma è più un atto di ammirazione, di stupore e di santa invidia, verso chi, incompreso e rispettato, ha voluto gettare, nel mare errante della letteratura, una scialuppa di salvataggio circondata di fiori, con all’interno una bussola d’argento che, al posto del nord, punta dritto al paradiso. […]
Ritornando ad Emily, come non parlare della dimensione sacra, celestiale, misteriosa, del rapporto amicale, diretto e stimolante con Dio, gli angeli, il diavolo. Tutti questi partecipano alacremente e appassionatamente alla poetica della Dickinson, e in modo non meno sopraffino e puntuale, a quella di Bobin, che sembra ridefinirsi in lei, suo alter ego femminile, in una forma di ritratto espressionistico, come colorando in maniera febbrile e meticolosa il suo dagherrotipo ottocentesco.
La vita della dama bianca, appuntata e miniata da Bobin come un monaco della Chartreuse, non è altro che una promessa mantenuta, tenuta per mano da un bambino schivo e irreprensibile, saggio e burlone, una preghiera rivolta come un calzino ad un dio ballerino, che danza sulle nostre anime come un cigno cenerino, che scivola sui nostri cuori come un pattinatore artistico e arcaico. Bobin inoltre posiziona, in questo racconto biografico e diografico, i bambini, come i veri protagonisti principali, i personaggi salienti che compaiono sulle scene più importanti, unici attori sul palco di Amherst che capiscono pienamente Emily, forse perché ne condividono l’indole, la sensibilità, l’ingenuità del genio.
Non ci resta che ringraziare Bobin per la riscoperta dell’America, lui che ha preso delicatamente in mano Emily Dickinson, poi, da dente di leone qual era, l’ha trasformata in soffione e, non prima di aver espresso ed esaudito il nostro più intimo desiderio, ha soffiato i suoi piumini come una domanda nel vento.