12 Luglio 2019

“Obbediente nella violenza su me stessa”. La lettera di Marina Cvetaeva su cui potremmo fondare una religione

Il 22 maggio del 1926 è un sabato, lei è in Francia, e chissà se sa che pochi giorni prima Umberto Nobile e Roald Amundsen, sul Norge, hanno appena trasvolato il Polo Nord, che Hirohito è asceso al trono del Giappone, e chissà se le avrebbe letto, qualche mese, dell’arresto di Antonio Gramsci. Fuori dal proprio tempo, in coabitazione con l’assoluto, Marina Cvetaeva ha una illuminazione. Ne scrive a Boris Pasternak e questa lettera andrebbe letta come le lettere di San Paolo, andrebbe ritagliata e costantemente consultata, perché raduna una radiosa investigazione nel corpo saturo, assatanato della vita.

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“Boris!”, comincia così, con l’appello esclamativo. “Il mio distacco dalla vita diviene sempre più irreparabile. Mi trasferisco, mi sono trasferita portando con me tutta la passione, tutto il non speso, non come ombre esangui, ma portandoli via al punto che potrei spremerli e ubriacarne tutto l’Ade!”. Ha 33 anni, si è trascinata da Praga a Parigi, dove pubblicherà, nel 1928, l’ultima raccolta in versi. Qui è l’ultimo grammo d’oro nella vita addolorata della poetessa. La scrittura cruda, cinetica e sintetica, senza mediazioni logiche, ‘paolina’, è propria dei mistici. “La testimonianza è il mio modo di essere esatta nella vita. Così si recitano i ruoli imparati a memoria. Tu non conosci la mia vita, non conosci proprio questo particolare della parola: la vita. E non la conoscerai mai dalle lettere. Ho paura di parlare a voce alta, ho paura di portar male, ho paura di coinvolgere, ho paura dell’ingratitudine – non si può spiegare. Ma evidentemente questa preziosa nonlibertà mi è così poco consona che dall’autodifesa mi trasferisco nella libertà – piena”.

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Marina non si adatta al clima intellettuale degli emigrati russi – dove si muovono, grevi di idee, tra i tanti, Ivan Bunin, Zinaida Gippius, Vladislav Chodasevic, Vladimir Nabokov. “Il carattere sempre intransigente e a suo modo ‘superbo’ della Cvetaeva, poco incline ai compromessi, nemica del conformismo di ogni tipo, lontana dal gretto e viscerale antisovietismo dell’ambiente emigré, poco a poco le vennero creando intorno un’atmosfera di ostilità, allietata solo da poche amicizie” (in: Cvetaeva, Pasternak, Rilke, Il settimo sogno. Lettere 1926, Editori Riuniti, 1980; libro da cercare per mercatini ma necessario perché segue con dettagliata perizia il ‘rapporto a tre’). Le amicizie, per MC, si saldano nell’ineffabile lontananza, si cibano di impossibilità, si esprimono per verbi. Marina non vuole i volti, il crisma della carne: pretende che le siano date tutte le parole possibili.

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La rivelazione arriva improvvisa, declinando in decalogo la rinuncia: “vivo come si deve, in modo non disdicevole (ma indicibile, come non si può), mantenendo la parola, difendendomi, appartandomi dalla felicità, semiviva (per gli altri più che – ma io lo so certo meglio), ignorando io stessa perché vivo in questo modo, obbediente nella violenza su me stessa, e andando perfino su quella montagna dei Cherubini – seguendo una voce, per volontà altrui, non mia”. Parole adatte a Caterina da Siena, a Santa Chiara, a Veronica Giuliani, a Ildegarda, a una delle vaste ispirate. Qui MC, preparata al rivelare dalla poesia, è verbo che acceca, a imbambolare i lupi all’assalto. Dovere, obbedienza, ignoranza, abbandono, violenza, abdicazione alla felicità terrena: i tratti della mistica femminile (si veda l’antologia, Scrittrici mistiche italiane, a cura di Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi, Marietti 1996).

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Poi accenna a Dio. “Boris, io non so cosa sia il sacrilegio… Il bianco (dio) può essere bianco per forza, per la purezza della combustione? La purezza. Che io immancabilmente vedo come una linea nera. (Semplicemente come una linea). Ciò che brucia senza calore è Dio”. Al di là del puro, Dio cicatrizza o taglia, è lo stesso.

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L’ultima agnizione. “Da tutte le parti amore, amore, amore. E – non mi fa felice. Il nome, di cui prima io ero così generosa – anche quel nome si sta logorando. Non mi oppongo. Non rispondo. (Il nome ha bisogno del nome)”. Amore non è felicità, ma riedizione della vita, redazione della crescita – logorare i nomi è il compito. In uno dei suoi distici celestiali, Angelus Silesius scrive: “Temere Dio è cosa molto buona, ma è meglio amarlo/ e ancor meglio è esser sollevato in lui oltre l’amore”. Il compito è andare oltre l’amore, allora.

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La Cvetaeva è rinforzata dalla presenza di Rainer Maria Rilke, con cui ha appena iniziato a scriversi. Rilke è un enigma e un emblema, l’emblema di chi ha abiurato alla vita per l’arte, di chi ha preferito l’eremitaggio artistico alla condizione monca, parziale del padre, del marito, del ‘professionista’. “Com’è noto, Rilke realizzò il suo ideale di artista-eremita andando ad abitare nel 1921 nel piccolo e antico castello di Muzot, in Svizzera… Il nome del poeta tedesco, che vive nella sua torre medioevale isolato da tutti gli avvenimenti del mondo, dalle guerre, dalle rivoluzioni, dalla povertà e dalle distruzioni, appare a molti, nell’Europa postbellica, come il simbolo della poesia stessa, della vera arte, della sua profondità” (così Kostantin Azadovskij, Elena e Evgenij Pasternak nell’introduzione a Il settimo sogno). Più tardi, Marina scriverà: “Rilke non è nato né su ordinazione né per ambizione del nostro tempo, ma per essere il suo contrappeso. Le guerre, i macelli, la carne lacerata dalle discordie e Rilke. È per Rilke che il nostro tempo verrà perdonato al mondo… Rilke è necessario al nostro tempo come un sacerdote sul campo di battaglia: per pregare, per questi e per quelli, per loro e per noi: perché vengano illuminati gli ancora vivi e perdonati i caduti”. Sul corpo di quale poeta verrà perdonato questo tempo? Sul corpo di Pasternak si è perdonato Stalingrado. Il poeta si sacrifica alla vita, perché sia accesa al perdono la Storia. Qui la vertigine è così scoscesa che basta soltanto ricalcare le parole, come facevano i monaci, e in quel cespuglio nascondersi.

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A Pasternak, la Cvetaeva, in quella lettera rivelativa, scrive così di Rilke: “Rilke è troppo preso, non gli serve niente, nessuno, soprattutto, non gli serve la forza; la forza attrae sempre: distrae. Rilke è un eremita… È più vecchio di Goethe e più vicino alla sostanza delle cose. Da lui sento soffiare su di me l’estremo gelo di chi possiede e nei cui possedimenti io, consciamente e a priori, rientro. Non ho più nulla da dargli – tutto è già stato preso. Sì, sì, nonostante l’ardore delle lettere, l’ineccepibilità dell’udito, la purezza del mio ascoltare – io non gli servo e neanche tu gli sei necessario. Questo incontro è per me una grande piaga, un colpo al cuore”. Dunque un uomo può essere un monastero, è vero, il colonnato delle gambe, il chiostro-costato, l’altare conficcato nel palato. Il poeta non ha necessità di nulla – e lei gli è devota per quello. Non chiede ‘in cambio’ niente: che sia in vita, è già il dono sufficiente per amarlo senza risparmio.

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Il sigillo è questo. La Cvetaeva, qualche giorno prima, aveva mandato a Pasternak due fogli. Nel primo c’è un breve biglietto, per lui, da parte di Rilke: “Che abbiate potuto consacrarmi un così grande posto nella Vostra anima, va a gloria del Vostro cuore generoso. Che ogni benedizione scenda su di voi. Vi abbraccio”. Nel secondo foglio, la Cvetaeva trascrive alcune parole di Rilke, che riguardano Pasternak. “Sono così commosso dalla forza e dalla profondità delle sue parole che oggi non riesco a scrivere più nulla: ma mandate il foglio qui accluso al Vostro amico di Mosca”. Il commento dei curatori commuove: “Pasternak conservò tutta la vita quei due foglietti. Nell’estate del 1960 li togliemmo da una busta con la scritta ‘la cosa più preziosa’ che stava in un portafoglio di pelle nella tasca della sua giacca”. Pasternak era morto il 30 maggio del 1960. Nel suo portafogli, la lettera di Rilke, morto il 29 dicembre del 1926, la grafia della Cvetaeva, che si uccide il 31 agosto del 1941. Che mio padre sia nato lo stesso giorno di Pasternak e sia morto nel giorno della nascita di Rilke è una casualità a forma di cuspide. Parlare di morte, se si parla di poeti, è inutile. (d.b.)

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