01 Febbraio 2019

Caino, Abele e l’esplosione della supernova: dialogo con Raffaele Riba, autore di uno dei romanzi più stupefacenti della stagione (scritto in blu)

La custodia dei cieli profondi (66thand2nd, 2018) è il terzo romanzo di Raffaele Riba, autore cuneense classe ’83, che nel 2014 ha esordito con Un giorno per disfare (66thand2nd), e nel 2015 ha pubblicato con Loescher Abbi pure paura.

Ecco, dopo aver contestualizzato vorrei partire da qualcosa che non c’entra nulla, un tiro in porta dove chi afferra il pallone con due mani senza riuscire a trattenerlo è il lettore. Deve aver fatto una gran cosa chi ha calciato. Trasmesso intensità.

Il giorno in cui ho letto La custodia dei cieli profondi per la prima volta mi sono limitato a questo, al titolo, che ha iniziato a girarmi in mente come l’estremità più profonda di un vortice. Punto che sono riuscito a raggiungere – e quindi a sfuggirgli – soltanto dopo l’ultima riga della pagina finale.

Quante volte vi sarà successo di avviarvi pigramente a una conclusione? “Sì, sta per finire. Ci siamo. Peccato, quella cosa resterà nascosta. O forse meglio così (ma non divaghiamo). Fine. Saluti a casa”. Ma in questo caso stiamo parlando d’altro, di uno dei migliori romanzi del 2018 – uscito in sordina verso fine anno. E senza influire sulla prima lettura di chiunque posso dire che l’ultima frase de La custodia dei cieli profondi è roba da far saltare in aria le sopracciglia. L’ultima di una serie di cose regalate dalle sue pagine. Che consiglio di leggere. Tutto qui. Mettersi da parte è una forma di rispetto difficile, ci provo ugualmente, e per non entrare in un circolo vizioso penso che la cosa migliore sia lasciare spazio al dialogo con Riba.

La custodia dei cieli profondi è un romanzo caratterizzato da una scelta linguistica non in linea con la narrativa contemporanea. E una convinzione diffusa recita che la buona letteratura non necessita di una trama da romanzo giallo. Questo significa che la lingua è parte integrante della narrazione? E se sì, fino a che punto?

“Sì, ma c’è di più. Non credo che separare significante e significato, trama e lingua, sia un buon modo di vedere le cose. Per me un intreccio nullo, raccontato con una prosa sopraffina, è una storia brutta raccontata bene. Così come un intreccio mozzafiato raccontato male è una storia interessante raccontata male. In entrambi i casi siamo di fronte a qualcosa di incompleto o comunque uscito male. Trama e lingua sono due ingredienti da dosare al meglio per ottenere un qualcosa di nuovo, una soluzione omogenea con caratteristiche proprie, ben bilanciate e stabili”.

Personalmente, ho notato una morfosintassi narrativa che rimbalza costantemente fra il vuoto interiore di Gabriele, il protagonista, e il contesto in cui si trova – ucronico, se così possiamo definirlo. Ciò che accade dentro si ripercuote fuori, è giusto? E data l’entropia come colonna portante del romanzo, quanto pensi sia simbolico il limite che separa chi scrive – mentre sta scrivendo – dalla realtà?

“Certamente ne La custodia dei cieli profondi c’è un legame forte tra la fine di una casa e di una famiglia con la fine di una stella. Il primo è un evento tutto sommato naturale, che solo nella percezione del protagonista (e voce narrante) diventa drammatico e violento. Ma se Gabriele guardasse con occhio sereno il cielo, potrebbe vedere che la fine di una stella – quella sì, violenta e traumatica come può essere una supernova – è un messaggio, una sorta di preghiera laica che non solo riverbera il suo stato (emotivo e biologico), ma gli potrebbe fornire una risposta. Per quanto riguarda il limite tra chi scrive – il suo immaginario – e la realtà è sempre molto più labile di quanto siamo abituati a credere. Ma non lo dico certo io. Ci sono molti studi di linguistica cognitiva e di biologia della letteratura che ne parlano ormai da qualche anno”.

Secondo la concettualizzazione di Lotman esistono due principi fondamentali che caratterizzano i romanzi di formazione: il principio di caratterizzazione – che prevale in caso di epiloghi delineati – oppure quello di trasformazione, che si verifica quando una narrazione trova il massimo della sua ragion d’essere nel sopprimersi in quanto racconto. Ecco perché ho pensato al tuo come a un romanzo di deformazione. Com’è nata La custodia dei cieli profondi?

“Sette anni fa ho cominciato col voler scrivere la storia di una fratellanza. La fratellanza è un sentimento strano, in grado di abbracciare tutte le sfumature di una relazione tra due individui: si può passare dal massimo dell’amore al massimo dell’odio e ritorno in un battito di ciglia, almeno quando si è piccoli. Da adulti le cose diventano più lente, ma anche potenzialmente più intense. Emanuele e Gabriele, i due fratelli di questo libro, sono una specie di Caino e Abele, ma dei giorni nostri, quindi dalle caratteristiche più sfumate, meno nette, senza cattivi né buoni. La custodia doveva raccontare il trasformarsi e il disperdersi degli elementi del loro rapporto, e della casa della loro infanzia. Dal disperdersi e dal riorganizzarsi della materia, al sole blu (l’altro protagonista del libro), che racconta il ciclo evolutivo di una stella, il passo è stato breve e naturale. Chi cantava ‘Siamo polvere di stelle’ aveva scientificamente ragione”.

Passiamo a cose più frivole. Perché il testo è scritto in blu? E la grafica: è stata una tua idea? Hai trovato prima il titolo o il romanzo?

“No, il merito è di Silvana Amato, l’art director di 66thand2nd. Sia per il colore del carattere (perché è blu si capisce a pagina 1, ma non facciamo spoiler) che per la grafica. E il titolo: è sempre stato un mio tallone d’Achille. Su quello sono costantemente insicuro: è venuto fuori dopo infinite ipotesi e probabilmente non era neanche quella migliore”.

I tuoi prossimi piani invece quali sono? Stai già scrivendo altro?

“Lo sto pensando, passo sempre da lì prima. Ci saranno Ponzio Pilato e un albero secolare”.

Nicolò Locatelli

Gruppo MAGOG