
Gli anni tagliati con l’accetta e Gratitude
Inediti
Francesca Bartellini
Mi guardo alle specchio e mi riconosco. Riconosco il mio doppio, in quello stesso specchio della camera da letto che è rimasto al suo posto: dietro le spalle un’ombra che si fa luce, una maglia bianco-celeste, di lana, morbida e scivolosa, con uno scudetto a triangolo sul lato destro. Le fotografie alle pareti sono impolverate, chiuse dentro una cornice dorata. È domenica, durante l’ora delle partite di campionato, che una volta si ascoltavano alla radio nella trasmissione “Tutto il calcio minuto per minuto”, con Enrico Ameri e Sandro Ciotti che si rimpallavano la linea per descrivere minuziosamente le azioni di gioco.
Il metaracconto pretende una spiegazione onnicomprensiva dell’esistenza, partendo dalla propria. Ci provo.
Sono diventato uno scrittore a tredici anni, nel 1983, quando venni colpito da un sarcoma di Ewing al bacino. Nacque tutto lì, all’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, in via Pupilli, nella collina fuori Porta San Mamolo, dove mi curarono per quasi due anni al primo piano di quello che fu il convento di San Michele in Bosco prima di essere acquistato dal famoso chirurgo Francesco Rizzoli che trasformò il complesso in un ospedale. Morirono gran parte di coloro che soffrivano del mio stesso male. Io, inaspettatamente, ce l’ho fatta. Si sono registrati due soli casi, fino agli anni Novanta, di guarigione clinica da un sarcoma al bacino. Uno dei due guariti sono io.
Una malattia altamente mortale, sconfitta, mi ha “permeato” in modo disuguale. Ciò che all’inizio innescava il silenzio per un meccanismo difensivo, di disagio colpevole, si è tramutato pian piano nell’urgenza di dire, di raccontare: è nata così la docu-novel Il talento della malattia (Avagliano 2012), un romanzo singolare specie per la sua struttura (il cui seguito, sempre pubblicato da Avagliano, nel 2016, è intitolato L’età bianca).
Non credo di aver scritto una storia del tutto personale, né ho finto, per cui i miei romanzi non sono autobiografici né fiction. Molti malati mi hanno cercato confidandomi di essersi ritrovati specie nel racconto dell’ospedalizzazione, nella paura di morire. In fondo La montagna incantata di Thomas Mann ci dimostra che “l’interesse per la malattia e la morte è l’altra espressione dell’interesse per la vita”.
Vengo al mio male di allora. La psicologia moderna è convinta che il paziente possa esorcizzare il suo stato psichico mediante la cosiddetta “motivazione antagonista”. Il sogno infantile equivale ad un diversivo, al divertimento: per questo i bambini avrebbero una più alta percentuale di guarigione dai tumori.
La mia motivazione era rappresentata dal mio idolo, un calciatore: Giorgio Chinaglia, il bizzoso centravanti della Lazio campione d’Italia nel 1974 e presidente nel 1983. Un personaggio in controtendenza, amato quanto odiato dal pubblico sportivo. Volevo conoscerlo, e il desiderio spingeva a far mio lo slogan dei tifosi della Lazio che lo magnificavano: “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia”. Chinaglia: un idolo, un amuleto, un portafortuna, un Cristo laico. L’attaccante ingobbito, bisonte, sgraziato, ma indomabile. Un cavallo di pura razza.
Cosa lega un ragazzino malato ad un guerriero dello sport, alla stessa cronaca delle sfide sul campo di calcio? Posso dire che la malattia non si fronteggia con la sola speranza di guarire. Né con la commozione, che è un sentimento di tenerezza per se stessi. Meno che mai con la rabbia. La malattia va semplicemente ignorata. Lo so, è un compito davvero improbo. La mia reazione salvifica contro il “vuoto pneumatico” consisteva nel pensiero di un simbolo di forza. Un famoso giocatore di calcio è diventato il viatico per far fronte ai luoghi di reclusione e separatezza dalla vita, gli ospedali. Il campione come simbolo di vittoria, uno spazio di leggerezza e antitesi al sarcoma.
La letteratura vive anche nel calcio. Sapevo che il numero 9 della Lazio era andato nello spogliatoi della Roma a dire che li aspettava fuori, in campo. Long John, dalla marca di whisky che beveva, segnava ed esultava sotto la curva occupata dai fanatici della squadra avversaria. Mostrava una gamba all’uscita degli spogliatoi, per irridere la folla. Faceva le corna a chi lo insultava. Finì la carriera negli Stati Uniti, nei Cosmos di New York del grande Edson Arantes do Nascimento, detto Pelé, dove lo pagavano a peso d’oro.
Giorgio Chinaglia era già un “compagno insostituibile” di giochi nell’infanzia, incarnato fantasiosamente come soggetto di fedeltà al quale appellarsi nella solitudine. La compartecipazione con le vicende sportive prende origine da una risonanza puramente emotiva e da un meccanismo di immedesimazione con il campione preferito. Il mito calcistico (il “basso epico”, per dirla con Jorge Borges) garantiva quella “felicità bambina” che è diventata anche il modo migliore per affrontare il sarcoma di Ewing.
Il talento della malattia non è solamente un’opera letteraria, ma una testimonianza impudicamente, energicamente affermata e ribadita con lo sguardo fanciullo di una volta. Parafrasando Ernest Hemingway, si potrebbe dire: “Avere un cuore da bambino non è una vergogna. È un onore. Un uomo deve comportarsi da uomo. Deve sempre combattere. Ma non gli si deve dire come un rimprovero che ha conservato un cuore da bambino, un’onestà da bambino, una freschezza e una nobiltà da bambino”.
Di fronte alla morte ci vuole l’irriverenza. Ci vuole un gesto pari a quello di Giorgio Chinaglia che sparava alle lampadine durante i ritiri con il suo Winchester, il fucile a leva, una carabina con la canna. Ci vuole la sfrontatezza di chi manda a fare in culo l’allenatore della nazionale italiana ai campionati del mondo del 1974 in Germania, e lo hanno visto in mondovisione.
Mi dissero che con ogni probabilità sarei guarito, proprio la settimana che la Lazio, a Pisa, si salvò dalla retrocessione e Chinaglia corse ad abbracciare idealmente i suoi fedelissimi supporters. Allo stadio c’erano 20.000 persone venute da Roma. Era il 13 maggio del 1984. Ricordo principalmente questo, del mio male. Cioè il corollario, l’appendice.
A Giorgio Chinaglia dico grazie. L’ho conosciuto personalmente e mi ha abbracciato, mentre stavo male. Il motto “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia” lo urlavo da un letto d’ospedale, mentre intorno vedevo ragazzini amputati alle gambe o alle braccia. Il mio voleva essere un grido di riluttanza alla morte, di opposizione. Per questo non credo alla resistenza ideologica nella storia, ma alla resistenza biologica di ogni singolo uomo. Il romanzo segue le mie vicende e quelle del giocatore diventato presidente della Lazio per una breve parentesi, nel 1983. Prevale una specie di connubio che è durato qualche anno, con Chinaglia. Lo racconto senza infingimenti. Avevo qualcosa da scrivere, non più da sussurrare sottovoce. Qualcosa che non potevo più trattenere.
*
La morte la si può guardare a distanza, non in tempo reale. L’ho fatto dopo trent’anni. Adesso è la malinconia, paradossalmente, che mi tiene agganciato alla storia del mio male e dell’incredibile guarigione. Sì, la malinconia. In un certo senso è come se fossi rimasto un adolescente. Ma l’adolescenza, solo l’adolescenza, è un’età eterna. Uno scrittore non può diventare mai un adulto fino in fondo, perché sarebbe banale nel suo conformismo. L’adolescente, invece, è sempre fiero, invulnerabile, trasgressivo.
Ho vissuto una vicenda agghiacciante durante l’ospedalizzazione durata due anni. Non solo perché mi diedero tre mesi di vita (oggi ho quasi cinquant’anni e sto bene), ma anche perché sono stato ricoverato per lungo tempo in una specie di lager camuffato in reparto, un “altrove” infernale dove i bambini che erano con me sono morti asciugati dal male, annientati brutalmente. Uno, in particolare, morì sotto i miei occhi, mentre la madre, incredula, delirava.
“A quale santo ti sei raccomandato?”, mi chiese dieci anni dopo, nel 1993, Mario Campanacci, il grandissimo oncologo e ortopedico di origini parmensi.
Fu chiamato a Dallas quando al figlio di Ted Kennedy venne diagnosticato un osteosarcoma al ginocchio. Il ragazzo “figlio della Grande Mela” si salvò, ma gli amputarono la gamba. Campanacci ha eseguito la revisione di migliaia di casi di tumori muscolo-scheletrici trattati fin dai primi anni del 1900 presso l’Istituto Ortopedico Rizzoli, maturando una profonda conoscenza diagnostica e clinica. Negli anni successivi ha intuito l’importanza di un approccio multidisciplinare ai sarcomi e fu uno dei pionieri al mondo del trattamento combinato e della chirurgia conservativa per i sarcomi primitivi dell’osso.
“Ti abbiamo restituito al mondo, vai”, aggiunse Campanacci nel guardarmi spiritato. Se gli avessi detto di Chinaglia mi avrebbe preso per un pazzo. Quell’anno fu trafugata la mia cartella clinica e visionata nei maggiori congressi mondiali di ortopedia. Appena due anni fa, ancora una volta, a Madrid.
Cosa ha potuto decidere la mia quasi esclusiva guarigione? Il caso? La medicina? Un miracolo? La bravura di Mario Campanacci che mi tenne in sala operatoria dieci ore? La motivazione impressa da Giorgio Chinaglia? Non lo so ancora, non lo sa nessuno.
Ho assimilato una terminologia scientifica, dopo anni di studi, per fare un’indagine sulla cura del sarcoma di Ewing al bacino e annotarne accuratamente. Oggi guarisce il 25% dei malati, ed è ancora una roulette russa.
Che altro dire dopo tanti anni? Sono preso da un sentimento romantico di appartenenza all’infanzia, che per me è stata dolce, e all’adolescenza, dolorosa ma paradossalmente affascinante in seguito al “talento della malattia”. Ho pensato spesso che il mio osservatorio sia quello di un sopravvissuto, di un reduce. Allontanandomi definitivamente dalla stagione della malattia, è cresciuto in me l’amore per il calcio che non c’è più, quello in bianco e nero. Massimo Raffaeli, un critico fondamentale per la mia formazione, lo dice spesso che l’affezione per il calcio non isterico e non televisivo, nasce per qualcosa di cui si è privati. Provo la stesso sentimento, specie ora che Giorgio Chinaglia è morto e che rimane un’icona pre-moderna contro la tecnologia al servizio dello sport. Una specie di divinità, dice il direttore del Tg5 Clemente Mimun, lazialissimo e chinagliano. Sento spesso i figli di Giorgione che vivono a Boston e il capitano di quella Lazio scudettata, Pino Wilson.
Li hanno definiti maneschi e fascisti. Eppure hanno scritto una delle pagine più belle del calcio italiano. La Lazio guidata da Tommaso Maestrelli, l’allenatore buono, vinse il campionato di calcio 1973-’74. Due anni prima militava in serie B. Era appunto la Lazio di Chinaglia e Wilson: l’uno un ragazzone bizzoso, figlio di emigranti, l’altro colto e raffinato. Siccome non sopportavano chi parlasse lombardo, l’allenatore aveva diviso lo spogliatoio in due. Di qua i chinagliani, di là Martini e Re Cecconi, “quelli del nord”. Durante le partitelle infrasettimanali volavano spintoni, schiaffi, calci e i fondi di bottiglia. La domenica, però, quel mucchio selvaggio era un blocco unito, granitico. Quelle narrazioni mi eccitavano, mi tenevano vivo, mi incitavano a non mollare. Se non ci fosse stato, forse, sarei morto. Oggi è un personaggio leggendario, è letteratura non solo sportiva.
Giorgio Chinaglia voleva vedermi nel 2012, ma non poteva rientrare in Italia perché sotto processo per un tentativo maldestro di scalata alla società laziale. L’ultima volta che lo sentii mi disse: “Non sono io ad aver giocato con Pelé. È lui che ha giocato con me”. Ridemmo di gusto.
Alessandro Moscè