Forugh Farrokhzad, “poetessa del peccato”. Elogio dell’anti-Emily Dickinson
Poesia
Alessio Magaddino
Ho conosciuto l’opera di Valentino Zeichen a Milano, su consiglio del poeta Alberto Pellegatta – un poeta vero, perciò raro. Mi consigliò di leggere, assolutamente, Metafisica tascabile, pubblicato da Mondadori. Quella poesia non mi emozionò, me ne ritrassi, irritato. Il secondo consiglio di Pellegatta, Biografia sommaria, Milo De Angelis, agì in modo contrario, lo trovai più consono, mi vestiva meglio.
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Quando ho conosciuto Valentino Zeichen, in seguito a una picaresca avventura nell’allora Rai Futura, a Roma, ne apprezzai la verve, la battuta salata. “Mi sembrano le poesie di un ottantenne, insomma, mi sembra il libro definitivo di un millenario millenarista che abbia già vissuto tutto”, mi disse, dopo aver letto alcune poesie che avevo raccolto in un libro, L’era del ferro. Avevo 28 anni, lì per lì mi parve un complimento. Il seguito del nostro incontro è stato narrato, con sfoggio grottesco e vespertino cinismo, da Massimiliano Parente, nel romanzo Contronatura, allora pubblicato da Bompiani e ora in Trilogia dell’inumano (La Nave di Teseo, 2017).
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Valentino Zeichen pareva un santo della poesia: ritenuto tra i poeti più importanti del Paese, fin dall’esordio (Area di rigore, era il 1974, con quella benedizione di Elio Pagliarani che lo definì “Un Gozzano dopo la Scuola di Francoforte”), e pubblicato come tale (con Guanda, Mondadori, Fazi), viveva, lo dicevano tutti, in una casa-baracca. Ascoltando, mi chiedevo perché, al posto di parlare con compiacimento del poeta che viveva in una baracca e che andava a cena da Tizio e da Caio, non lo si aiutasse, qualora avesse voluto, a trovare altra sistemazione. C’era una specie di anacronistica aristocrazia nel poeta che vive in una baracca: una nobiltà vissuta da Zeichen e ancor più goduta dai suoi più o meno apparenti amici.
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Hanno continuato a non piacermi le poesie di Zeichen, augustee, ironiche, di una intelligenza fuori tempo – più prossima a Domiziano che alla Roma parlamentare – che di certo stuzzicava i pettegoli mecenati del poeta. Mi convinceva, piuttosto, il poeta in sé, la sua presenza, perfino le sbandate narcisistiche, i giudizi decadenti. Per me, voglio dire, i diari di Zeichen – il poeta in cui tutti ammiravano quello che avrebbero voluto essere senza averne il coraggio, basta lui – che Fazi ha cominciato a pubblicare dallo scorso anno sono l’opera autentica, lo zenit del poeta, la sua poetica, lo scintillio del talento.
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Questo Diario 2000 (Fazi, 2019), ad esempio, si legge con fatale godimento: del giorno il poeta, rapace, sintetizza l’oro e l’ombra, l’ambiguo e il triviale. Vivere da poeta in baracca è a volte imbarazzante, altre divertente. Zeichen, che come i poeti d’epoca imperiale è stipendiato da qualche mecenate, ne ha anche loro: “Mi ha telefonato la mia mecenate e vuole sapere il tono dei commenti dopo la festa data per il mio libro. E anche vedere qualche riscontro della mia notorietà ‘presunto’, sulla stampa quotidiana. Un simile investimento deve avere un tornaconto d’immagine”.
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I giudizi sono ostinatamente frollati nel ricino, per fortuna. “A proposito della poetessa Antonella Anedda; una saprofita letteraria che si nutre dei russi, i più sventurati scrittori e poeti di questo secolo. Ma una poesia fatta, più o meno, di onesto dolore, può bastare?”. A proposito di Alda Merini: “la rastrella-premi, l’ex ospite di manicomi che intenerisce i giurati”. A proposito di Roberto Mussapi: “Un poeta? Forse, ma soprattutto un gran traffichino. Lo osservavo durante lo spoglio delle schede di voto della giuria popolare [si fa riferimento al “premio Camaiore Poesia 2000”, ndr]; aveva un’espressione ancora fiduciosa, distanziato da una lunghezza o due dalla trionfatrice. Ma subito dopo lo spoglio, caduta la speranza di ribaltare il risultato, la sua accurata abbronzatura si è fatta terrea”.
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Al contrario di Alda Merini, Zeichen non riesce a intenerire i giurati. “9 milioni dai troppi zeri, questo era l’ammontare del premio Gatto, assegnato al vincitore Maurizio Cucchi. Mi confida F. Cordelli, giurato e sostenitore del mio libro Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio, che fra le motivazioni a sostegno della mia casa c’era anche quella sulle mie condizioni economiche difficili, perciò Franco era per l’assegnazione del premio a me. E Alba Donati ha riferito a Franco la reazione di Cucchi: ‘E che dobbiamo pagare noi per lui perché ha pochi soldi?’”. Al di là della pochezza, lo sketch ci fa capire che ai premi letterari, come supponiamo, di tutto si parla fuorché dei libri. Se uno è miliardario e poeta eccellente, che vinca: non dovrebbe contare il conto in banca ma il genio sovrano.
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Frigna spesso, Zeichen. Quando accusa il premio Viareggio, “banda di mafiosi comunisti, capeggiata da Cesare Garboli e Giovanni Giudici”, ne fa non tanto una questione etica (“non rispetta nessuna oggettività basata sulle valutazioni critiche delle opere, avvalorate dalle recensioni”), ma privata: voleva vincerlo lui. In calce, sputtana De Signoribus, “modesto… onesto poeta delle Marche”. Il livore di Zeichen – espresso, sempre, con una scrittura cristallina, spoglia, da moralista francese – è significativo: non altro è la poesia italica, un piagnisteo di autentici poveracci.
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A volte, ripeto, si assiste alla marziana serenità di un poeta latino, risolto in un insano stoicismo (“Stanotte vado a letto senza cenare. Digiuno dietetico, precauzione igienica, purificazione? Definizioni insensate per un gesto casuale. La verità è che non ho niente da mettere sotto i denti”). Altre volte, a implacabili rivelazioni: “Il destino del poeta è: consegnare le chiavi della perfezione estetica alla morte, che tutela l’immortalità della bellezza delle forme, respingendo le logoranti ingiurie del tempo. La morte è la banca della bellezza, vedasi le banche divenute vere e proprie pinacoteche”.
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Verso i mecenati era gentile, ma mai inchinato, Zaichen. Sapeva che sono loro, i benestanti, a essere in debito con lui, con il poeta. Egli nutre la loro vuota esistenza, loro non fanno che riempirgli, a volte, lo stomaco.
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Quando scrive del suicidio della sua mecenate, Lita, ne scrive come chi sa che si muore per una voluttà, per uno sfarfallio di disperazione, per una gioia malriposta, per una cattiva interpretazione: e chi te lo fa fare? “Domenica, nelle prime ore pomeridiane, è mancata l’amica Lita, la mia cara mecenate si è sparata alla tempia un colpo di calibro 38, ha ucciso quello che era rimasto vivo di lei. A seconda dell’età in cui ci si uccide, tenuto conto della durata di una vita media, si ammazza solo una percentuale variabile della propria vita. Lei ricercava in ogni cosa la compiutezza formale, ed esigeva un perfezionismo attivo da tutte le persone che le erano vicine; dal vestiario all’espressione verbale, era un continuo invito a superarsi”. Ci si supera fino al supremo sparo.
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L’editore, in calce, pubblica Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio, il libro poetico del 2000. Forse a conferma che la vera opera di Zeichen, che anche quando è crudele lo è con serenità narrativa, è il diario.
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Pensieri che paiono scritti da Orazio, quasi a dire che la poesia uncina i millenni, il poeta è un fiume. “Ho nuovamente riparato il tetto, e provvidenzialmente viene a piovere per collaudare la tenuta. Giorni fa c’era già stato un breve acquazzone, e l’acqua gocciava dal tetto. Adesso piove insistentemente, è una pioggia fitta e regolare che si infiltra là dove ho riparato; è un’acqua che ha tutto il tempo per pensare”.
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Più che altro, viene fuori una idea della poesia italiana come una cattedrale di gossip, una milizia di malizie, una folla di mercenari proni al proprio tornaconto. Un inferno volgare, un artificio di melma, dove Zeichen sguazza con la sagacia di Marziale, ricco – va detto – della propria povertà, brandita ad ascia. Viene da pensare – e di questo sono grato, post-mortem, a Valentino – che se è questa la poesia italiana e il suo sotterfugio e il suo sobborgo, meglio adempiere l’esilio, scrivere su frontoni di pietra e condividere il verbo con gli alberi, la luce, il vento. (d.b.)
*In copertina: Valentino Zeichen (1938-2016) secondo Eric Toccaceli