03 Gennaio 2018

“Un volo in caduta libera nel dolore e nel disgusto”: per iniziare bene l’anno dovete leggere Giuseppe Casa

Un genio è un rimaneggiatore nella maggior parte dei casi. Attinge al vecchio per creare il nuovo. I modelli consolidati sono i suoi più intimi amici. Egli sale sulle spalle dei giganti, ma per guardare oltre. Gli esempi di grandezza non lo schiacciano, lo infervorano. Invece di considerare le massime figure letterarie del passato come vette irraggiungibili, le chiama in causa quali sodali in questo gioco da criminali che è la letteratura. È certo questo ciò che fa Giuseppe Casa con il suo ultimo romanzo, Io non sono mai stato qui, Clown Bianco Edizioni, 2017. Si tratta di un testo fenomenale, non fosse altro per la sua superba ironia. Ironia di una struttura che è tutta da decifrare. Una storia ingombrante di violenza e orrore che farà cascare gli idioti nei rivoli della trama e diletterà i lettori più attenti che sapranno partecipare alla partita intellettuale a cui li ha chiamati l’autore. E, in effetti, la più grande soddisfazione che vi potrà regalare questo testo, alla fine della lettura, se lo capirete – cosa non scontata –, sarà di essere riusciti ad andare oltre quello che avranno visto tutti gli altri. E cosa avranno visto? Semplicemente la storia di un uomo comune, un professore di Lettere delle superiori che si lascia andare lentamente all’infamia e nell’abbrutimento, fino a sprofondare lungo il declivio senza ritorno della follia.

Giuseppe Casa
Secondo Matteo Fais, non si è letto di meglio nel 2017: fidatevi di lui

Omicidio, tortura, crudeltà diverranno il suo unico orizzonte. Alcuni, certamente, non sopporteranno. Si indigneranno, proveranno repulsione, sotto sotto si convinceranno che l’autore stia sublimando certi perversi desideri inconfessabili. Anche perché, contrariamente per esempio alle classiche storie horror a cui siamo abituati – diciamo tranquillamente Stephen King –, non si respira per niente un’aria di redenzione finale nel testo. Già, perché sembra che il male lo si possa trattare, ma solo se preannuncia l’imporsi finale del bene. È una specie di deformazione mentale di chi è cresciuto nell’alveo del cristianesimo. Meglio comunque mettere in guardia il povero lettore ingenuo: Casa non vuole insegnarvi le gioie del male, ma indurvi a una riflessione abissale. Addirittura, vorrebbe farvi ridere dicendo solo e semplicemente la verità. Per farlo, però, adotta una strategia shakespeariana. Crea un personaggio assurdo, folle, psicopatico e ingiustificabile e gli mette in bocca considerazioni sul mondo, sull’Italia, e sulla realtà che viviamo che sono poi quelle di chiunque abbia un poco di sale in zucca – cioè quasi nessuno. Gigantesca allegoria di un tempo di decadenza, questo romanzo recupera la lezione di Shakespeare e Dostoevskij. Allegoria, comunque, che non è mera presa d’atto, ma attacco frontale all’epoca presente e a cui ben si attagliano le parole che, al principio della narrazione, l’autore mette in bocca al protagonista: “Non sono uno scrittore. Ripeto. IO non scrivo. IO reagisco. Con il più che fondato sospetto d’invadere il vuoto”. Un testo immensamente morale, quindi, nella sua immoralità portata al parossismo esasperato del cinismo e della lucidità. Una risposta criptata all’annoso dilemma di Amleto, quell’essere o non essere che ci dilania. E, ovviamente, la risposta è una sola: il ripudio della forma in nome della vita, della cristallizzazione sociale di sé, uno sfuggire al sottile ricatto che tiene in piedi l’esistenza senza sapere bene a che scopo. Nelle parole dello stesso autore: “È un volo in caduta libera nel dolore e nel disgusto che va oltre la sfera personale. Una repulsione rivoltante e torrenziale nei confronti dell’intera umanità in ogni sua forma e manifestazione fin dalla notte dei tempi. Il contorto abominio dell’ordine biologico. Vecchiaia. Malattia. Morte. Non c’è scampo. Anche la bellezza non è che un frutto sul punto di marcire. Eppure, per qualche strana ragione, la gente continua a scopare, a riprodursi e a sfornare altro cibo per vermi, mettendo al mondo altri esseri umani destinati alla stessa sofferenza, come se questo fosse uno strumento di redenzione, un’azione giusta o persino degna di ammirazione. […] Bambini che schiamazzano e corrono al giardinetto, totalmente ignari dell’inferno che li aspetta: lavori monotoni e mutui esorbitanti, matrimoni sbagliati, calvizie, obesità, dentiere, protesi all’anca, apparecchi acustici, solitarie tazze di caffè in una casa vuota e una sacca per colostomia in ospedale, nella migliore delle ipotesi. Oppure c’è il cancro. La maggior parte della gente sembra soddisfatta della sottile patina ornamentale e del sapiente gioco di luci che, di tanto in tanto, fanno apparire più misteriosa, o meno ripugnante, la sostanziale atrocità della condizione umana”. Davvero, non si è letto di meglio, durante l’anno appena concluso. L’unica cosa certa è che il Peggio ha vinto un qualche premio ed è stato anche santificato, pur non c’entrando nulla con l’arte. Al contrario, la storia di Io non sono mai stato qui è anche una grande metafora che spiega il senso della creazione artistica. Perché tutte quelle uccisioni? Per la Bellezza fine a sé stessa. Pura gratuità contro la necessità stringente del quotidiano. Follia, appunto. Come la vera arte.

Matteo Fais

Gruppo MAGOG