Il primo amore non si scorda mai: Vasco Pratolini, uno sconfitto di genio
Letterature
Silvano Calzini
“Ha la nostra tessera?” dice il commesso. “Ha la nostra tessera?” chiede quasi all’unisono la commessa di fianco, rivolta a un altro cliente. Tutto si ripete, quasi in un effetto onirico, e così l’immagine da incubo che mi assale all’improvviso: scatoloni e scatoloni pieni di libri, che scandiscono lo spazio vuoto delle stanze di casa mia, identici per forma e colore, disposti regolarmente in fila.
Ho detto casa mia ma non lo è, perché questa casa in cui vivo ancora, nella quale ho vissuto quarantacinque anni, fra breve non sarà più mia. Trasloco! È Pasqua ma mi tocca traslocare. E allora digiuno, riempio scatoloni e digiuno. Quest’anno digiuno per Guido Morselli. Faccio digiuno per lui. Ma anche per ringraziamento. Lo ringrazio di avermi aiutato in un’impresa difficile, quella di superare un esame universitario, quando ero giovane, che poi non ho superato; in realtà l’esame non andò bene, io mi sentivo inceppato davanti alla faccia di quel professore impassibile, ma è dire poco impassibile, la faccia, intendo dire, l’espressione che aveva sulla faccia, l’espressione di una persona infastidita, scontenta, frustrata, probabilmente a causa del fatto, secondo lui, di perdere tempo, di avere cose più interessanti a cui dedicarsi, invece di ascoltare ragazzi impreparati, invece di ascoltare svarioni su svarioni, di stare lì a fare la faccia di circostanza, di uno che comprende le difficoltà, i problemi, questi ultimi, forse, più di uno, anzi, senz’altro svariati e di varia natura, sentimentali, emotivi, famigliari, relazionali, inconsci.
Per giunta il professore, con quell’espressione rincagnata che aveva, e il corpo pure, anche il corpo risultava rincagnato, aveva un nome che era tutto un programma, un nome che rispecchiava qualcosa di acuminato, sebbene nella prima parte, ché per intero era semplicemente il nome di un paese, però con quella prima parte acuminata, appuntita e adatta a colpire, perché lo vedevi che lui era pronto, pur mostrandosi in atteggiamento di sopportazione, era pronto e deciso a colpire. Infatti, alla prima domanda, che era di carattere generale, naturalmente domanda mai fatta, solo per spiazzare l’esaminando e gli altri, gli studenti, che le domande se le segnavano, ecco venir fuori la punta, lo spirito puntuto, che inizia col chiedere il titolo di qualche opera di Umberto Saba. A me, sul momento, viene di rispondere Canzonette, mi viene questo titolo che certo non è l’opera maggiore e senz’altro la meglio riuscita del poeta, per giunta il titolo vero è “Canzonetta”, e fa parte di una raccolta poetica ben più importante, “Il Canzoniere”, ma la mia mente va lì e il guaio è fatto, basta aspettare la reazione del docente, finalmente risorto, liberato della sua repressa angustia, il quale quasi offeso alza un braccio, vibrandolo in un vero e proprio gesto plateale, sul genere di quelli che ti mandano a quel posto e, come se non bastasse, risponde che sì, sì, adesso ci mettiamo a fare le canzonette!
Qui, a soccorrermi, mi vengono due ricordi, il primo è che avevo un’amica di scuola, alle elementari, che si chiamava come questo professore, e che a proposito di punte non ce l’aveva solo nel nome, giacché usava infilarsi uno spillo nella prima pelle delle dita a mo’ di esibizione e con quello spillo infilzato si divertiva a guardare la reazione degli altri. Il secondo ricordo è che quando mi alzai per abbandonare la prova, pensai al libro di Guido Morselli che avevo con me, “Dissipatio H.G.”, l’ultimo che il grande Morselli ha scritto, e io ce l’avevo nella mia cartella, me lo portavo dietro come un viatico per la vita mia, già convinta che più che i pugni in faccia fanno male i giudizi sentenziosi, negativi, il loro tono, o ciò a cui alludono: il male è lì, e all’improvviso ti si rivolta contro, si fa riconoscere.
Oggi, leggo “Fede e critica”, scritto fra il ’55 e il ’56, e sono entusiasta, è il libro religioso di Morselli che affronta il mistero della sofferenza umana, il perché del male: perché esiste il male se c’è Dio? E lo leggo col cuore, leggo con piena commozione le riflessioni di questo grande incompreso, di cui ci restano le sue opere, il primato che egli dava alle parole, quindi lo slancio, la grandezza, l’intelligenza, il talento, e, ripeto, la determinazione di uno slancio sincero, gratuito, sempre sostenuto da una convinta ragione. In “Fede e critica” lo scrittore si chiede che cosa fa nascere tutto, di che cosa sono fatti la nostra esistenza, la fede, gli incontri reali e quelli che abbiamo sperato, oppure che cosa lega una vita intera a Dio, nei secoli, per generazioni, uomini e uomini, nel tempo, fedeli a Dio, alla memoria, noi che siamo destinati a essere dimenticati, o almeno così sembra. Qual è il volere di Dio? Perché ci ama? Il credente ha la sensazione profonda, di non essere lui ad agire, di non riuscire a capacitarsi di niente senza la convinzione che tutto sia determinato da qualcosa che non sta in noi ma che ci arriva, si fa vicino e ci fa agire, ci domina, ci fa innamorare, ci fa desiderare, o ci lascia delusi, ci fa rimanere sconfitti e delusi, addirittura senza speranza, persino senza volontà. Il libro è animato dal mistero delle cose che nascono e perdurano, le pagine più belle parlano di ciò che è inconsapevole di essere, eppure esiste, sguardo che sta con gli occhi sbarrati a intendere non solo quello che si presenta davanti a noi ma che include gli occhi stessi che guardano, che vivono. Questo sguardo è la vita che c’è nell’umanità tutta, che è in noi, in queste parole che scrivo, la vita che c’è dentro. Il fulcro è della preghiera e “dell’azione divina nei riguardi delle creature, il problema fondamentale della Provvidenza. Una spiegazione è la seguente. Non c’è fede né preghiera valida senza costanza; la fede diverrebbe superflua se la preghiera raggiungesse subito, o una volta per tutte, il suo scopo” (pag. 237).
Meraviglioso è il racconto di una donna che ha compiuto una novena per ottenere il ravvedimento di una persona a lei cara, che vive nel peccato, ebbene, dopo aver avuto l’Eucarestia, viene presa dall’estasi che si diffonde dal suo palato a l’intero suo essere, e torna a casa sicura che la grazia le è già stata concessa, non cercherà nemmeno di sincerarsi che questa sia avvenuta. “Ella che prima sorvegliava discretamente quella persona, procurava di seguirla, di impedirle certe occasioni, certi incontri, adesso la lascia sola e libera. Sa che ‘quello’ non può più accadere” (pag. 240). Incredibile è la testimonianza del miracolato di Lourdes, affetto da una malattia mortale, e amico dello scrittore, il quale, incerto nel suo animo sul perché la grazia fosse toccata proprio a lui, perché lui fosse stato proprio il prescelto, in mezzo a centinaia di malati, la persona più impreparata e incredula, conclude dicendo che non si può far altro che “convincersi della positiva consistenza del proprio prossimo, non c’è che dovergli rifare il letto e la medicazione, o portarlo in braccio pel corridoio d’un vagone. È un metodo sicuro!” (pag. 246). Lui che, recuperata in pieno la sua salute, l’ha collaudata. Perciò evviva Guido Morselli, la sua vita non è stata per niente!
Così esco, cerco distrazioni, attraverso il parco vicino casa e ascolto, registro, afferro qualche frase volante, sento un giovane con un cane che parla a una tizia: “Io lavoricchio – dice – e nel tempo libero sto scrivendo un libro”. Più in là c’è una donna seduta su una panchina, parla anche lei ma allo smartphone, lei però ha quattro cani intorno: “Devo traslocare… per forza, mi mandano via”, dice. Perfetto, manca solo di sentir dire: “Niente, non vuole saperne di me, secondo lei ho un’immaturità emotiva”, e poi sono io in ogni punto, in ognuno vedo una scheggia del mio ritratto, o qualcosa di me che mi assomiglia dovunque, in chiunque, e riecheggia in mille frammenti sparsi.
Si fa presto a parlare, a criticare, intanto il tentativo è rappresentato dalla fuga, gli scatoloni aumentano per casa, e la verità è che mi sono rincagnato anch’io, per giunta il mio animo s’è come sdoppiato, triplicato, quadruplicato nel tempo, in infinite correnti culturali, mode del momento, pensieri effimeri, virtualità digitali, spese assurde, epoche fantastiche, stili difformi, ritmi esotici, esperienze sublimate, collezioni ridicole, sogni miei e altrui, desideri miei e altrui. Ora entro in un grande Bricocenter per acquistare le mie scatole di cartone, per porre rimedio alla mia mancanza di realtà, e girando qua e là nei reparti penso a due libri che ho trovato a casa, che non ricordavo più di avere, sono “Traslochi” di Andrea Canobbio e “Traslochi” di Hebe Uhart, scrittrice argentina. Nel primo si legge che “senza dubbio ogni trasloco è una sorta di viaggio” (pag.16), e non è che traslocare vuol dire mettere via e basta, si scopre anche. Mi colpisce quando l’autore scrive che la casa abbandonata viene umanizzata, come un animale ferito che grida; ma siamo noi quella casa, siamo noi gli abbandonati, gli animali feriti, quel grido siamo noi. È vero quando dice con spaventevole immagine da horror, che gli scaffali vuoti hanno “l’aspetto terrifico involontario degli scheletri” (pag. 9). È vero che “in ogni trasloco ci sono due tipi di movimento: il primo è la metamorfosi di adattamento degli oggetti che trasferiti da una casa all’altra devono trovare un nuovo equilibrio con l’ambiente restando comunque uguali a se stessi; il secondo è il cambiamento radicale di altri oggetti che prendono forme inconsuete irrompendo nella vita di chi ha traslocato con l’arroganza della novità, ma non tardano a diventare norme loro stessi” (pag. 5). È vero nel dire che certi appartamenti, presentano oggetti come un campo di battaglia pieno di cadaveri e feriti, e allo scrittore viene di fare questa fantasia: sentire la voce delle cose che parlano tutte insieme, un frastuono di grida e di lamenti, “come se in ogni portacenere fosse nascosto un fumatore, e in ogni vaso di fiori un innamorato respinto, e in ogni libro un lettore” (pag. 84).
“Traslochi” e “Traslochi”. Già disposti in questo modo, i due titoli fanno pensare a un’impresa di trasporti, un’impresa commerciale con camion enormi che vanno lontano, la cui reclame pubblicitaria vagheggia viaggi internazionali, testimoniati da foto che hanno sfondi di grandi città straniere, non si sa se vere o frutto di fotomontaggi. Allora immagino tutta l’umanità che se n’è andata altrove, sono gli italiani raccontati da Hebe Uhart, emigrati in Argentina, e i nomi dei protagonisti lo dimostrano, la famiglia Ramondi, la famiglia Malarini, Maria, Atilio, Teresa, Adolfo, Rodolfo, Elena, Carolina, Emma, mescolati a nomi più ispanici, ma sempre familiari a noi. La vita, lì, è rimasta quella agricola dell’Italia del Sud, fra orti, galline, carri, porci, vipere, rospi, proverbi, profezie, demoni, santini, pregiudizi, scemi del villaggio, lavandaie, ristrettezze economiche, l’aspirazione ad acquistare una macchina, a essere liberi. Liberi!, ma con tutta la polvere che c’è come si fa? La polvere è dappertutto!, la polvere è la protagonista ossessiva dei traslochi e nega la libertà, la nega, dico io, costringe a starle sempre dietro, s’impone, dice: curami, curami, io esisto, tu non mi cancelli, io esisto sempre, io vengo a trovarti anche in capo al mondo, anche se tu ti trasferissi dall’altra parte dell’universo, ammesso che esista, o su un altro pianeta. Ma c’è la polvere sulla luna?, mi chiedo, forse la polvere cosmica, non lo so, in effetti lassù è tutto polvere, comunque nel romanzo di Hebe Uhart se ne avverte la presenza ovunque, sembra essere in ogni cosa, in ogni descrizione, persino nelle parole dei protagonisti, sotto il fico a cui abbandonarsi per il riposo, o sulla strada sterrata, o sul giardino dissodato, lì vi hanno disposto un tendone per una festa nuziale. Si convive con la polvere e si è stanchi, stanchi davvero. Si cerca qualcuno con cui condividere questo dramma nostro, che però è di tutti. Come si legge nella letteratura sull’argomento. “È giusto traslocare?”, si chiede alla fine il romanzo di Canobbio, e la domanda viene considerata impossibile. Cos’è giusto?
“Ti abituerai” dice una mia amica (la vera responsabile della frase che mi ha messo di fronte alla mia immaturità), più saggia e più attenta di me, più sensibile di me, più meditativa rispetto a me, alle mie scelte, nel cogliere il buon senso dentro le pieghe profonde, abissali, dell’anima, dove il dolore non è limitante e oppressivo, bensì racchiude una necessità che non nega la vita, anzi, è il segnale di un percorso che continua, va oltre. Lei sa più di me che io di me stesso, per questo le voglio bene, per questo l’aspetto, per capire quanto lei conosce più di me stesso il mistero mio. E vedo un uomo quasi identico a me, solo più basso, che tiene appoggiati i suoi scatoloni piegati a una pila di altri scatoloni, come sto facendo anch’io per riposarmi, e in una busta di plastica, resistente, ha infilato un grosso volume della Treccani che porta uno alla volta alla scuola in cui insegna, ogni giorno porta un volume dell’Enciclopedia Treccani alla sua scuola, per non gettarlo via, per carità cristiana, per lo sguardo caritatevole che gli si legge negli occhi, lo stesso del mio, che mi viene dalla interpretazione del mondo che ho ricevuto, dal fondo della realtà mia, che non ha mai visto così bene un’apparizione di sé, ed entra ed esce da sé stesso ogni momento che può, per comprendere, per agire bene, per ciascun respiro dato, per un’esperienza che non sia solo varia, ma che sia unica, frutto di profondità, di destino. Se esiste la felicità, se è raggiungibile, quella, è di essere destinati, penso io.
Quindi sono fuori dal Bricocenter e prima di uscire mi sono soffermato a guardare incantato, vicino alle casse, il reparto delle torce di bambù, nonché delle candele profumate, e delle candele votive. Roba da chiesa, mi viene da pensare, infatti oggi è domenica e si va a messa. Raggiungo San Pietro in Sala con i miei scatoloni acquistati, piegati sotto il braccio, volo!, mi sembra di essere un surfista armato della sua tavola, in attesa di solcare le onde dell’Oceano. Ma mi smistano giù, nella cripta, per via delle norme in corso; scendo le scale, sono solo, solo io e cinquanta sedie vuote, nella sala in cui campeggia lo schermo che trasmette il rito domenicale. Entra una ragazza e mi chiede sottovoce se devo fare la comunione, dopo un po’ entra un altro tizio e mi fa il gesto per dire se voglio disinfettarmi le mani. Finalmente arriva qualcuno che resta, è una donna, una giovane filippina, credo, a giudicare dai tratti del viso. Quando lei si alza, io mi alzo, quando lei si siede, io mi siedo. Lei dice: “Rendiamo grazie a Dio”. Io ripeto: “Rendiamo grazie a Dio”. Lei dice: “Ascoltaci, Padre buono”. Io ripeto: “Ascoltaci, Padre buono”. Siamo in due ma siamo il mondo, siamo i primi cristiani del mondo, siamo come quelli che hanno iniziato a pregare per primi, siamo l’immagine di quelli che hanno iniziato a sperare, siamo la testimonianza di quelli che hanno sperato in Dio, dalla distanza dei secoli, a invocare Gesù, dalla solitudine infinita del deserto, che hanno contemplato la Croce per primi, che l’hanno invocata per amore, hanno chiesto l’amore fissando il Crocifisso sofferente, ponendo lo sguardo sulle sue ferite, sul suo sangue, sulle sue piaghe, perché di questo si tratta, a proposito di inizi.
E a proposito di questo, mi torna in mente a vampate “Scritti cristiani”, il libro di Mario Pomilio che traslocando ho ritrovato fra gli scaffali scheletrici, ci ripenso perché è stata proprio una rivelazione la sua scoperta, è stata una fiammata incominciare a leggerlo dal centro, dal mezzo del libro, quasi acceso d’ansia per incominciare a godermelo dal cuore, per incominciare a prenderlo dal cuore, ad assaggiarlo da lì, per capire che cuore aveva, se era un cuore buono, un cuore fidato, se aveva una radice profonda, di cuore profondo e infinito; e ho continuato così, leggendolo in questo modo. Si è formata una sorta di raggiera mentale nel mio spirito. A furia di percorrere il libro in due direzioni: una che si è andata sviluppando verso l’inizio vero e proprio (le prime pagine), e l’altra che andava verso la fine del libro, alternando la lettura in due diramazioni opposte, apparentemente divergenti una dall’altra, ma in realtà come a voler divaricare l’apertura di una forbice il più possibile, per divaricarmi anch’io, a guisa di voler aprire il mio cuore il più possibile di fronte alla lettura di questo capolavoro, e così divaricato abbracciare i poli estremi, fino a unirli in un abbraccio, in un arco ampio, che comprendesse una visione che unisca tutto, capace di abbracciare tutto e dunque di far diventare esperienza concreta l’attività di una lettura.
Solo la somiglianza con Gesù ci salva, penso io, solo dove scopro una somiglianza con Gesù mi sento salvato. E in una conferenza del ’79, tenuta all’Università Cattolica di Milano, Pomilio conferma la sua attualità quando dice:
“Oggi noi ci troviamo di fronte a una situazione che è inutile cercare di nascondere. Il fenomeno più imponente, più radicale del nostro tempo, che s’effettua sotto la spinta congiunta di determinate ideologie politiche da un lato e dell’ideologia del consumismo dall’altro, è quello che noi chiamiamo ‘decristianizzazione’. Il fenomeno non è nuovo: già nel Settecento l’incipiente industrialismo da un lato e ideologie progressiste che l’affiancarono dall’altro fecero sì che l’intera Europa, per lo meno nella sua facciata, si scoprisse non cristiana. Il fatto si ripete, oggi, in maniera più estensiva, in quanto tocca più intimamente gli strati popolari, e in forme che spesso assumono l’aspetto disperante dell’indifferentismo religioso. Nuova però è la risposta del cristiano, il quale esclude sia la battaglia, sia il rifiuto, sia l’isolamento – anche quando sa di essere rifiutato e isolato -, e al contrario si mette come a disposizione degli altri, si situa appunto in missione presso gli altri, attuando una forma di testimonianza operativa che non passa solo attraverso la predicazione dei principi, ma anche, e soprattutto, attraverso il concreto delle opere. È un cristiano, cioè, che tende il più delle volte a confessare Dio mediante l’offerta silenziosa di sé, l’offerta della propria carità”.
Lo scrittore continua affermando che le promesse ideologiche hanno portato a fallimenti e vuoto. Quindi, andando in direzione del primo capitolo, quello dedicato al padre, la “Lettera al padre”, leggo del suo amore filiale, pieno di rimorsi sanati, rimorsi dovuti ai diversi temperamenti dei due uomini, alla infedeltà, o disobbedienza, come la chiama Pomilio, alle idee del padre. E nel leggere il libro, segnato di piegature agli angoli dei fogli e interrotto da segnalibri che indicano l’altra direzione, che prosegue dall’altro lato, verso il fondo, leggo le lettere della conversione dello scrittore: la “Lettera a una suora”, la “Lettera a un amico”, la “Lettera a una figlia”. Scritti profondi, affrontati con intensità d’animo, mentre il mio percorso di lettura si amplia, si arricchisce, distendendosi nelle opposte vie e aprendosi a scoprire passi sempre più significativi, ad esempio dove si dice che occorre salvare tutto l’uomo, tutto, a partire dalla sua anima. In un passaggio di “Umanesimo profetico”, del 1983, l’autore scrive:
“Occorre perciò riguadagnare l’uomo intero, con le sue conquiste materiali e gli stessi valori laici elaborati nel corso della sua storia, al disegno di Dio; o altrimenti, liberarlo dal suo disagio, dalla sua paura del futuro e dal disincanto che manifesta allo scoprirsi senza direzioni o fini credibili, ricordandogli, come prima si diceva, la sua qualità di figlio e riproponendogli, in un progetto unitario di continua ricreazione della storia e del mondo che non escluda nessuna delle sue terrene vocazioni, la promessa, la speranza e la potente carica d’ottimismo contenuta nell’idea che a lui, pur con tutti i suoi sviamenti, compete pur sempre di scrivere la storia della salvezza”.
Il testo afferma che la prova che Dio ti mette di fronte è fatta per essere superata, in ragione che Dio ti fa gioire, dopo, ti consente di gioire per la prova che ti ha messo davanti, affinché tu gioisca a seguito del successo che hai ottenuto. Prova anche della Sua vicinanza, in quanto possiamo dire che non è vero il nostro amore senza di Lui, non sono vere le nostre emozioni, non è vera la nostra carne, la sensazione della nostra carne, i nostri stessi desideri, la nostra stessa speranza, senza di Lui. Niente è vero! Oppure diciamo che tutte queste cose sono niente, o vuoto che deve colmarsi sempre di nuovo, e di nuovo della parola infinita e assoluta di Gesù, davanti al quale le nostre intenzioni, il nostro vivere, appaiono velleità; bisogna riconoscere che “di fronte alla tranquilla scolastica delle altre filosofie, quella Cristiana è l’unica veramente in movimento” (pag. 49). Nell’autore di “Quinto evangelio” emerge non un mondo cristiano pacificato e dogmatico, bensì un mondo in ricerca. A pagina 39 si legge:
“E mentre tra rovelli e speranze ci interrogavamo su alcune delle cose che ho appena accennate, e in particolare sul ruolo del cristiano nel mondo d’oggi, a me tornava alla mente il finale di Roma senza papa di Guido Morselli: quando il Papa, esule a Palestrina dopo aver lasciato una Roma dissacrata, alla fine di un’udienza a un gruppo di fedeli, li conta e poi dice (cito a memoria): ‘Cosa mai ho da insegnarvi? Non siete voi dodici?’”.
Morselli, non a caso ancora Morselli! C’è una vertigine in questi scritti: si tratta di rimanere nell’amore.