
“Una certa armonia del mondo”. Sia lode a Peter Brook
Teatro
Alessandro Carli
“Per me io sono colei che mi si crede!”. Risponde così la Signora Ponza alla fine del terzo atto di “Così è (se vi pare)” di Luigi Pirandello a chi cerca di darle una dimensione.
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“Io per me sono colui che mi si crede”. Scrivo così, non prima di aver ringraziato Alessandro Albert e Paolo Verzone, già vincitori del World Press Photo 2001 e 2009 che nel 2016, in occasione di un censimento fotografico sul guado del fiume Rubicone, mi hanno scelto come modello. Oggi, a distanza di tre anni, quel progetto è finito in piazza a Savignano, appeso sui fili come si fa con i panni che devono essere asciugati. L’amico Johnny, sabato 14 settembre, mi avverte con un WhatsApp che sono in piazza. Mi manda una foto e mi scrive “Il gemello”. Non ho gemelli, grazie al cielo (sarebbe un dramma per l’umanità), e a memoria non sono nemmeno del segno dei gemelli. Guardo la foto che mi ha inviato: “Carlo Alessandri”. Albert e Verzone mi hanno donato un Avatar, un nuovo personaggio, un alter ego con cui giocare e firmare i pezzi, ergo il mio viaggio al “Si Fest” 2019 sarà firmato da due persone distinte e distanti: Alessandro Carli e Carlo Alessandri. Hanno qualcosa in comune, Alessandro e Carlo: la stessa t-shirt, lo stesso orologio. Sono solo cambiati gli occhiali, ma solo per questioni di miopia, e i capelli, che oggi sono più corti. Per il resto, il tempo è stato abbastanza gentile con me…
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“Lessi Croce, l’Estetica, dove dice che tutti gli italiani fino a diciotto anni possono diventare poeti, dopo i diciotto chi continua a scrivere poesie o è un poeta vero o è un cretino. Io, poeta vero non lo ero. Cretino nemmeno. Ho scelto la via di mezzo: cantante”. FdA.
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Il fiore ha molti petali, tutti più o meno colorati. Alcuni però non lo sono, e non per colpa della siccità: scegliere gli opposti assoluti – il bianco e il nero – è una questione di poetica, di sensibilità. Qualche volta di furbizia: incoccare la freccia è un obiettivo preciso. Oggi che tutto è cromaticamente saturo, puntare sull’a-colore (che poi il b/n è, a tutti gli effetti, una variazione dell’arcobaleno) significa far finta di amare il passato. Significa carnevalarsi dell’attualità e giocare con la nostalgia. Un esercizio di stile, un nido sicuro in cui abitare l’abitabile, quello che accade, e forse qualcos’altro .
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A Savignano sul Rubicone (FC) sono i giorni della vendemmia artistica: il SI Fest, il festival di fotografia più longevo d’Italia (è alla sua 28eesima edizione) che quest’anno è stato ri-curato dallo straordinario Denis Curti (lo avevano già chiamato nel ruolo di direttore artistico dal 2001 al 2006), offre agli sguardi dei visitatori e degli appassionati una panoramica di scatti immobili, una finestra da cui affacciarsi sulla prudenza e sulla bellezza. Una vertigine sul limen del titolo della rassegna, “Seduzioni. Fascinazione e mistero”, tre rette che conducono verso un altrove di corpi, visi, sorrisi, tette, culi, oggetti, estraniazioni. Di profumi, di poetiche opposte e stridenti, di certezze, di orgoglio, di sublimazione del sé, qui innalzato sulla soglia del paradiso. Chi fa le foto ci crede, e si crede un Dio sceso sulla terra. Insomma, l’oggi più nudo, più sociale, più autenticato. E forse più patinato, sopraesposto, annegato in una produzione tragica e abbondante di immagini che circonda e scandisce il tempo dell’uomo.
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“A Fabrizio non piaceva farsi fotografare. Amava però lasciarsi guardare e se, nelle fotografie, riusciva a riconoscersi, a trovare qualche traccia di sé per lui inedita o inattesa, allora poteva nascere un rapporto di fiducia e di amicizia. O, piuttosto, un libero e spontaneo interfacciarsi”.
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Fabrizio è ovviamente Fabrizio De André, il maestro dei maestri, poeta assoluto. Ma maestro è anche l’ottimo Guido Harari che negli anni ha “fermato” Faber più e più volte ancora. Le foto, alcune foto, sono racchiuse in Sguardi randagi, visibili al “Monte di Pietà”, (via del Monte di Pietà, 1) anche nei prossimi due fine settimana, quello del 21 e 22 settembre e quello dopo, 28 e 29.
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“Fotografare Fabrizio voleva dire viverlo, respirarlo, accettare il confronto con il suo carattere, la sua immaginazione, la sua cultura. Godere, con umiltà e gratitudine, del ticchettio della sua intelligenza, assecondando i suoi tempi, le manie, le esigenze, procedendo per piccoli spostamenti creativi, da un’idea all’altra, o proprio senza nessuna idea. Come scrive James Hillman, si guarda l’altro per vederlo dentro. Potevano bastare una giacca buttata sulla sedia, una bottiglia di whisky e una chitarra, o un attimo di estraniamento, di salvifica solitudine agguantata in mezzo all’incedere della vita. Esserci, consapevoli della propria fortuna, questo contava con Fabrizio, per parlare o, più umilmente, ascoltarlo parlare. O non parlare affatto. Definendomi ‘aforistico’, aveva colto la mia predisposizione all’ascolto piuttosto che alla prevaricazione con inutili parole. Non mi riusciva di vederlo come una persona qualunque: Fabrizio era fuori dall’ordinario in tutto. Quando gli raccontavi qualcosa di te, non stava semplicemente ad ascoltare, ma partecipava, e il suo modo di pensare e porgere i pensieri era una scintilla poetica, una sintesi evocativa come la sua voce.
Capitava che la macchina fotografica non fosse il miglior viatico al ‘vivere Fabrizio’. Ci sono stati attimi di pudore e di sospensione, quando la fotografia ha preferito cedere il passo al semplice senso delle cose, senza rimpianti. Ma, riguardando oggi queste fotografie, riesco a sentire di nuovo la voce e le parole di Fabrizio, spezzando così il silenzio dell’assenza. ‘Preferisco leggere che vedere’ diceva, ma il bello delle immagini qui è che spesso raccontano anche l’invisibile, il fuori scena, le emozioni e l’unicità dei momenti trascorsi insieme. In questo senso ‘Sguardi randagi’ vuole condividere frammenti di una vita straordinariamente complessa e, al contempo, incredibilmente semplice. Viviamo di memoria, di sguardi all’indietro, ancor di più man mano che il futuro si assottiglia. La memoria stessa ci si impone come un’intenzione dell’anima, secondo quanto scrive ancora Hillman: ‘Senza storie non c’è trama, non c’è comprensione, non c’è arte, non c’è carattere; soltanto abitudini, avvenimenti che scorrono davanti agli occhi di un osservatore ozioso, una vita che nessuno legge, una vita perduta nel viverla’. Un materiale così volatile è frutto di assoluta estemporaneità. Sono solo giochi di luci e ombre, per incontrare ancora una volta Fabrizio, in passaggi di tempo e di pensiero”. Guido Harari.
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Anche Fabrizio De André era un fotografo. Un fotografo di rime e di parole. Anche lui amava fotografare le persone, soprattutto quelle che non avevano voce. Del resto le fotografie sono mute…
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I suoi scatti migliori risalgono agli anni Settanta. Non al denaro, non all’amore né al cielo è un album, o meglio, un reportage fatto a Spoon River. Prendi uno a uno i ritratti che ha fatto assieme alla Fernanda Pivano: sono perfettamente a fuoco.
C’è Un matto, quindi Frank Drummer, un personaggio ritenuto pazzo e che fu internato in un manicomio perché non riusciva a comunicare i suoi pensieri attraverso il linguaggio.
C’è Selah Lively, un uomo da sempre deriso e vittima di malelingue a causa della sua bassa statura. Un giudice perfido che ha “il cuore troppo vicino al buco del culo”. Quello che, studiando giurisprudenza nelle “notti insonni vegliate al lume del rancore”, diventa giudice e si vendica della sua infelicità attraverso il potere di giudicare e condannare (“Giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male”), incutendo timore a coloro che prima lo irridevano.
C’è Un blasfemo, uno che ha accusato pubblicamente Dio di aver mentito all’uomo “per paura che ormai non avesse padroni” e che per questo è stato perseguitato e imprigionato dal potere costituito: “Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte / mi cercarono l’anima a forza di botte”. Ora che è morto, il blasfemo non ce l’ha più con Dio, ma con chi sfrutta la religione per esercitare il potere: “E se furon due guardie a fermarmi la vita / è proprio qui sulla terra la mela proibita / e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato / ci costringe a sognare in un giardino incantato”.
C’è Un malato di cuore, quel Francis Turner che muore in quanto il suo cuore non regge la troppa emozione che prova non appena conosce le labbra di una donna. Debole sin dall’infanzia, è costretto a sfiorare la vita senza poterla mai vivere, provando solitudine e invidia verso i suoi coetanei (“come diavolo fanno a riprendere fiato […] e mai poter bere alla coppa d’un fiato, ma a piccoli sorsi interrotti”).
C’è Un chimico, Trainor, il farmacista di Spoon River che non riesce a comprendere l’amore e le unioni tra uomini e donne come invece capisce e controlla le unioni tra gli elementi chimici, motivo per cui non si è mai innamorato o sposato. Ironicamente morì “in un esperimento sbagliato / proprio come gli idioti che muoion d’amore”.
C’è Il suonatore Jones che alla fine muore poverissimo ma in pace (“Finì con i campi alle ortiche, finì con un flauto spezzato / e un ridere rauco e ricordi, tanti / e nemmeno un rimpianto”).
E c’è, ma in un altro rullino (“La buona novella”), la fotografia più bella in assoluto, un’ecografia di bellezza che scende verticalmente negli occhi. Ne Il ritorno di Giuseppe Fabrizio De André firma il suo scatto più cristallino: “E lo stupore nei tuoi occhi / salì dalle tue mani / che vuote intorno alle sue spalle / si colmarono ai fianchi / della forma precisa / d’una vita recente / di quel segreto che si svela / quando lievita il ventre”.
La poesia, la fotografia, il ritratto che tutti i padri dovrebbero dedicare alla propria compagna che sta portando dentro di sé la magia più grande, quella di una nuova vita.
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Le immagini di Guido Harari sono bellissime. Randagie come certi cani che vivono nelle strade, ai margini dell’urbanità, sempre alla ricerca di una carezza, un’attenzione o di un pasto. Come quella che ritrae Faber che dorme sdraiato per terra vicino a un termosifone, distrutto dall’alcol o dalla stanchezza. “Durante le prove in vista dei concerti cominciava un piccolo gioco di sparizioni e avvistamenti, come quando, vagando per i camerini del palasport di Bologna, me lo ritrovai sdraiato contro un termosifone, che dormiva. Nacque così una delle immagini a cui tutt’e due siamo rimasti più legati, e che lui volle commentare parafrasando il testo de Il pescatore: ‘Col culo esposto a un radiatore s’era assopito il cantautore’. Chi l’aveva mai visto così vulnerabile? Fabrizio, buttato per terra in un angolo al pari dei personaggi di certe sue canzoni. Quando gli mostrai la foto, mi ringraziò e quella fiducia divenne la cifra del nostro rapporto” ha raccontato Guido Harari.
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A Savignano si aggira Isa Perazzini, la mamma di Marco Pesaresi: una tamerice per energia e forza, attenta ad ogni particolare. Ha il compito di divulgare l’arte di suo figlio, grandissimo fotografo che Rimini ha colpevolmente dimenticato per anni. Da un po’ di tempo la Provincia si è svegliata – lo ha fatto comunque prima quella di Forlì-Cesena – e sta iniziando a capire la sua importanza.
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SI Fest è anche tanto altro. Marco Craig e il suo lavoro-scoperta della fascinazione verso le icone sportive, la sensualità eroticheggiante degli scatti di Lady Tarin (Guiltless), le burle(sque) di Cesare Cicardini (The New Burlesque). L’ottimo Silvio Canini e i suoi Alieni maledetti, un gioco curioso di ombre marittime, passo successivo al geniale progetto delle “Figurine Canini” di qualche anno fa. Rosangela Betti e la sua valigia vintage degli anni Ottanta che contiene il libro Ana / Lisboa: è incazzata nera, nei prossimi giorni ci vediamo. Ha qualcosa da dirmi…
E i tanti appassionati che camminano lungo la via principale del borgo. “Il dado è tratto” anche quest’anno, lanciato sul tavolo obscuro della camera. C’è poi il portfolio in piazza, una “Corrida” sui generis: i fotografi – dilettanti, amatoriali ma anche già robusti – portano i propri lavori che vengono esaminati da una giuria di esperti. Qualche opera interessante, molte invece lo sono meno. Non volano ciabatte né si ode il famigerato buire ma alcune critiche potrebbero spezzare anche i cavalletti più robusti. Del resto la fotografia è muta. Non parla. Semmai fa parlare di sé.
Alessandro Carli e Carlo Alessandri
*In copertina: una fotografia di Guido Harari dal progetto, “Fabricio De André. Sguardi randagi”