Anne Sexton pubblica il primo libro nel 1960. S’intitola To Bedlam and Part Way Back. La Sexton ha 32 anni, si ammazza 14 anni dopo, alla Boston University, nel 1958, frequenta il corso di scrittura di Robert Lowell. Lowell le insegna la malia del verso, il verso come binocolo sadico spinto nei rifugi del cuore. In quello stesso ambito la Sexton conosce Sylvia Plath, di cui percorre, drasticamente la via – ma era la Plath, invero, a essere invidiosa, per così dire, della spavalderia lirica della Sexton. Nella lettera in cui Lowell accusa la lettura del libro della Sexton, che si prepara a pubblicare All My Pretty Ones, il maestro elogia l’audacia dell’allieva. Tuttavia, le ricorda che le sue scelte liriche sono riconducibili a Life Studies, la raccolta “confessionale” di Lowell edita nel 1959. Eppure, leggendo Rosaria Lo Russo (in: Anne Sexton, Poesie d’amore, Le Lettere, 1996), “bisogna sfatare il pregiudizio: di solito viene indicato Lowell, con Life Studies, come iniziatore dello stile confessional, e quindi modello, in quanto maestro e mentore, della Sexton. Ma il libro del maestro e la prima raccolta dell’allieva sono stati scritti contemporaneamente: all’epoca del corso e della stesura del libro Anne non conosceva la poesia di Lowell, mentre questi aveva letto e supervisionato il manoscritto dell’allieva molto prima della pubblicazione di Life Studies. Nelle interviste la Sexton non si stancherà mai di ricordare, non senza una certa stizza, che il maestro aveva avuto il merito d’insegnarle cosa cancellare da un testo ma non cosa scriversi”. In verità, nella lettera tradotta, si legge come Lowell riconosca una specifica verità stilistica, un percorso poetico autonomo, alla Sexton. Donna di spericolata nitidezza.
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Mi affascinano le lettere non per ciò che di vero si cela in esse, ma per la maschera che indossa lo scrittore nel redigerle. Il linguaggio è sempre un fraintendimento – parlo & scrivo per dare ad altri una certa immagine di me – ma la lettera, che sovverte il tempo (scrivo ora qualcosa che ti arriverà, forse, poi) e il metodo (tu non puoi rispondermi subito, le mie parole depositano una attesa, una attrazione verso la replica), è una menzogna così audace che ammette l’estrema nudità. In fondo, la lettera è una consegna: fai del mio scritto ciò che vuoi. Lascia, per lo meno, che fugga.
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La lettera di Lowell a Jacqueline Kennedy non dimostra soltanto il suo status – viene da famiglia bene di Boston – ma la sua disciplina politica. Negli Usa, come nella vecchia Atene e nell’anglicana UK, fare politica è vivere, l’artista non è rinchiuso nella torre d’avorio, in una schifiltosa magione di intellettuali. Lowell ha sputtanato la sottana della Casa Bianca, ma ha anche dato il suo aiuto durante le campagne elettorali, sempre da poeta, cioè da uomo errante, che sbaglia, che fa lirica e delirio. Che sta nella mischia, che alterna la lotta senza lottizzare la solitdine. La poesia a ‘Bobby’ Kennedy, in ogni caso, è molto bella – sintomo di un tempo, di un’indole, ora sopraffatta dal cinismo.
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Nei lati d’ombra delle lettere, negli angoli, una specie di tenerezza. Come se stessimo sotto il tavolo della sala, mentre qualcuno si muove, tra questa e altre stanze, alcuni si baciano, forse, e questo lo intuiamo dall’alberatura che prendono le gambe. (d.b.)
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New York, 1 dicembre 1961
Cara Anna,
lasciami scrivere alcune impressioni generali, generiche, sparse. Se sono incoerenti, non importa. La cosa migliore del tuo libro è la pienezza incontaminata. Ho come l’impressione che tu aumenti l’offerta e il peso; le migliori poesie della prima parte, infatti, si riversano nella seconda, vi si aggiungono. Non dovresti essere troppo critica, non dovresti essere alla mercé della tua paura, devi soltanto avere paura di perdere il tuo centro e urlare nel vago. Questo non l’hai fatto. La mia poesia prediletta l’hai pubblicata sulla “Hudson Review”, quella su tuo padre, forse la stampa aiuta, ma lì sento passione e concentrazione. Diverse poesie replicano grosso modo lo stile del mio Life Studies; il metodo e spesso le emozioni (questo dipende non da imitazione ma da una esperienza simile – penso spesso e sento così, anche se scrivo altrimenti) mi sono familiari, e ora quasi ti invidio. Sono felice che tu ti sia addentrata nel nuovo, le poesie religiose, gli schizzi sui personaggi. Hanno esiti diversi, ma danno al libro un tono professionale e non solo confessionale, un piacere nella scrittura. La tua Lettera finale è un’ottima idea, si legge come una delle tue lettere. Dubito sia la tua poesia migliore. Forse, finirò per imitarla.
Errori? Non penso ci siano. Sono inevitabili limitazioni umane – le tue! Ci sono alcuni spigoli, una certa monotonia, un modo di scrivere che molla il tema centrale in modo troppo frettoloso, ci sono zone vuote, momenti poco ispirati che sbucano con la maschera della poesia, poesie che tutti potranno dire “sono Sexton” e quindi sono preziose. A volte ho la sensazione che tu sia uno dei pochi poeti in grado di scrivere un libro intero, come l’Antologia di Spoon River, in cui i piccoli momenti giustificano i grandi momenti, con pochi sprechi. In certa misura, così hai fatto – e hai fatto tesoro della tua vita. Questo suona sapienziale! Dopo tutti questi anni “Spoon River” non è proprio così, sopravvive in una manciata di pezzi migliori. Comunque, che pugnalata una raccolta intera di brevi poesie!
Ultimamente, mi stupisce che pur facendo molte cose diverse restiamo sempre gli stessi. La maggior parte delle persone, tuttavia, non è che all’inizio nella scoperta di sé. Quando qualcuno sa chi è, come hai fatto tu, e si denuda con questa profondità, è assurdo sottolineare i piccoli difetti. Ne hai molti, ma non contano, perché il libro, in generale, dà l’idea di una revisione profonda, di una rielaborazione radicale. Penso che il tuo prossimo libro costituirà un ulteriore passo avanti.
Sarò a Boston dal 7 al 9, da Bill Alfred. Ho una raffica di impegni, ma potremmo lavorare su qualcosa, sabato o domenica, altrimenti potremmo accordarci per telefono e potresti fermarti qui un giorno. Dubito tuttavia che sarebbe utile discutere di poesia. Stai cavalcando la marea e sei sola. Sarebbe bello vederti, però.
Grazie per la lettera e il libro, con affetto.
Cal
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New York, 10 giugno 1968
Cara Jackie,
avrei voluto scriverti una lunga lettera, una lettera intrisa di lutto, ma anche di scuse, perché penso che avrei potuto fare qualcosa per Bobby, avrei potuto aiutarlo, con qualche parola, qualche consiglio di cautela, forse. Ci ho provato molte volte, non con intenzione cosciente, con istinto. Sapeva quale fosse il suo destino, ha scelto: una vita gloriosa, benché breve. E forse è questo il meglio. Spero che non mi sottrarrai dagli impegni per la campagna di Eugene McCarthy. Non potrei fare altro. Penso di essere una delle poche persone a desiderare ardentemente tuo cognato o McCarthy.
Sono stanco, non posso scriverti una lunga lettera, ti prego di considerare questa breve poesia – parte di una serie di 120, intitolata Notebook of a Year) come un tributo.
R.F.K
Qui nel mio studio, la sua indolenza
vacanziera, una vecchia casa vittoriana,
ermetica e rivestito da vecchie estati,
lontano dal calabrone che ronza –
è solo solitudine, traccia di fumo che screzia
l’aria. Che cosa posso prenderti ora?
Sventura era intessuta nei tuoi nervi, nella camicia,
sventura intrisa nel grande clan; furono leali
tu eri il più leale tra di loro… da morirne.
Per loro, come un principe, partivi ogni giorno
dalla torre verso la miseria nel tuo vestito migliore.
Qui, solo, ora, nella mia sfera plutarchiana, mi manchi
dolorosamente, tu, fatto di carne, creatura di Plutarco –
per sempre fai ingresso nella nostra giovinezza.
Non so dire altro. Condivido il tuo dolore. Come sempre, con affetto, Cal.
*I testi sono tratti da: Robert Lowell, “The Letters of Robert Lowell”, ed. Saskia Hamilton, Farrar, Straus and Giroux, 2005
**In copertina: Anne Sexton e Galway Kinnell, 11 novembre 1968, photo Jill Krementz