Alla mostra di Escher al Pan di Napoli inaugurata il primo novembre giorno di ognissanti ci sono andato il due novembre giorno dei morti con la donna che amo, che mi detta dentro le direzioni e le dimensioni. C’era all’ingresso la lunga fila degli impazienti e di quelli che ci tengono a entrare per primi quando un nuovo circo arriva in città, per poi andare loro in giro per la città a rovinare la sorpresa a chi al circo nuovo non c’è ancora andato. Mi incolonnai e lei mi disse “Chiedo una informazione al banco” ma compii tutte le tappe fino alla cassa e di lei non c’era più traccia, sparita. Che fosse stata rapita da uno dei lavori ricorsivi e privi di possibilità di fuga di Escher che l’aveva ammaliata e ghermita a distanza? Oppure era stata bannata dalla realtà perché bella fino al rancore altrui e pertanto segnalata e rimossa da chi aveva ritenuto un affronto l’angustia del doverla ammirare senza possesso; il mito del possesso è il più duro a morire per chi è molle di tempra, per questo non mi spiegavo l’afflusso alla mostra di Escher, la trafila verso l’artista all’insegna dell’incertezza di esistere lambita dalla consolazione degli appigli geometrici che lo stesso poi ti sfuggono di mano. Le cose che non comprendiamo restano quelle che più ci piacciono fare.
Osservavo stranito i due biglietti per la mostra tra le mie dita, come di fronte a uno sdoppiamento della vista, meditabondo, indeciso se arrendermi all’ira dell’abbandonato o se al panico di chi sta varcando uno spazio imprevisto e indesiderato della percezione. “L’enorme tragedia del sogno sulle spalle curve del contadino” recitò una voce. Mi sentii commentato, alzai lo sguardo e a poco da me c’era un uomo dal volto per il quale sfrutto l’aggettivo d’ambiente: escheriano, per tutte quelle righe rugate sulla fronte e sulle guance e per il bianco e nero dei capelli elettrificati e della barba strinata, righe che progredivano, come propagazioni della stessa forma, sull’intera superficie della pelle. Il tempo disegna sul corpo umano con la perizia di Escher ai suoi esordi. L’uomo anziano, antico, mi fece intendere che lui sapesse dove si fosse cacciata lei e che se lo avessi seguito mi ci avrebbe portato, a patto gli avessi ceduto il ticket che mi avanzava.
Taciturno, tra il ricattato e lo speranzoso in chi mi avrebbe restituito il senso pur se in caduta libera di senso, lasciai m’affiancasse quest’uomo d’età, d’epoca direi, che aveva un suo macilento magnetismo ed era conciato da artigiano che conserva la dignità nonostante fosse alle ristrettezze più amare; il volto sempre corrucciato, non so se per un suo dolore costante che lo irritava dal di dentro. Non mi faceva nessuna simpatia, con lui entrai nella prima sala della mostra, vagai lo sguardo in cerca di lei e lui guardava le xilografie giovanili di Escher alle pareti. Si soffermò parecchio sulle illustrazioni a un libretto di poesie. Avvicinò così tanto il naso al disegno Bellezza che temetti stessero per contaminarsi a vicenda: i triangoli neri e bianchi potevano risalirgli sul volto, incastrandosi nella sua sagomatura, oppure avrebbe potuto lui cascarci dentro, in un fragore di frammenti di specchi grafici, e come stesse continuando un suo discorso interno, una enigmatica cantilena, gli sentii dire “semplici credeva le anime dei fanciulli, tra tutte,”.
Preoccupato che potessero riprenderlo e forzarlo all’uscita, per quei suoi atteggiamenti poco ortodossi facilmente scambiabili per senilità da ultimo stadio, mi accostai per spostarlo da lì, non potevo perdere anche lui, e lessi la didascalia del disegno: oh, era una di quelle stampe con cui Escher illustrò il libretto di un suo caro amico e mentre la guardavo mi sovveniva quanto mi aveva raccontato lei di Escher per prepararmi alla mostra napoletana: “Il titolo del libretto era Flor de Pascua: pensa il paradosso, in italiano sono quelle che chiamiamo Stelle di Natale: le parole sono sempre state escheriane avanti lettera”. Ecco chi era il mio accompagnatore: Aad van Stockl, finito chissà come a trascorrere in Italia la sua lunga e a occhio spiantata vecchiaia e che aveva colto la prima buona occasione, quella che per me era la pessima in assoluto, per rivedere le opere che il suo amico Mauk gli aveva donato in gioventù.
Chi mi stava aiutando nella ricerca della donna amata dunque era un poeta, che disastro. Rantolava a filo discontinuo, un assetato che si abbeverava al suono delle sillabe dalla sua stessa bocca, che gracchiava versi suoi come per richiamarli ogni volta indietro dal crinale definitivo dell’oblio, e d’altronde: chi altri oltre lui poteva rammentare le poesie di Aad van Stockl? Quanti anni doveva avere un amico di gioventù di Escher per essere ancora vivo, in quale circuito temporale doveva essersi ingabbiato per poter stare ancora da questa parte dello specchio? E in che storia ero finito io: non riuscivo a collegare Aad alla mia donna amata, non spiegavo il loro aver organizzato con successo la pantomima di me che dovevo andare in cerca della mia Arianna in un labirinto museale facendomi guidare da un minotauro canuto.
Aad ora fissava un’altra opera, o meglio: non saprei dire quale delle due che stavano di fianco l’una all’altra, sul muro opposto a quello di prima. Gli studiavo la nuca che tremolava, in preda a uno spasmo strabico dei muscoli alla base del collo. Una delle due opere non era neanche di Escher, era un autoritratto del suo maestro, Samuel Jessurun de Mesquita, arrestato nella Amsterdam conquistata dalla Germania nazista e morto in una camera a gas di Auschwitz assieme a sua moglie Elisabeth perché entrambi colpevoli di essere ebrei o forse di non essere geniali quanto il discepolo Mauk. L’altra opera era di Escher: Il secondo giorno della creazione (la divisione delle acque): un ammasso di nero che soltanto il dettaglio del bianco poteva separare in nuvole, in pioggia, in spuma di mare agitato. Aad diceva, in un lamento, o in una preghiera, o in una imprecazione: “The rain is part of the process” e “OMNIA,/ all things that are are lights”. Quanto tremava! Una crisi parkinsioniana terminale.
Aad tremava come davanti a una contraddizione che potesse dilaniarlo. Io di Aad non sapevo nulla se non che Escher gli avesse illustrato il libretto: che Aad avesse un passato politico che lo avesse portato a rompere con l’amico? Escher lasciò l’Italia fascista quando gli rimandarono a casa il figlio travestito da balilla e l’assassinio di de Mesquita certo non lo aveva riavvicinato alla causa. Aad avrebbe fatto di de Mesquita un sommerso o un salvato? Quando incontro un uomo così vecchio come Aad è sempre lecito domandarmi lui da che parte sia stato, sia potuto stare, durante quell’evento che ha fatto in due il Novecento per non dire tutto l’albero genealogico della mia specie. Da chi mi stavo facendo scortare all’interno del PAN? Cosa succede quando la convinzione si sfida al coltello con gli affetti, quando l’idea combatte con la carne? Pare anche a me che ovunque vada mi ritrovi impigliato nelle stesse domande, nudo davanti al medesimo dilemma, ma non sono io di mia volontà a tornare verso il fatto nefasto del nazionalsocialismo tedesco, è lui che suppura in continuazione e che continua a propagarsi mai del tutto trasformato, formando un cerchio diabolico come in Metamorphosis II di Escher creata tra il novembre del ’39 e il marzo del ’40 e che si trovava qualche sala più in là nella mostra: la fine si risalda con l’inizio e non è armonia da sogno, è l’incubo della condanna alla ripetizione: tutto comincia e finisce come in un rumore di fondo reso visivamente con una nebbia gassosa.
Io non volevo finire in una nube di gas né che ci finesse la mia donna amata e sparita, inseguita attraverso la sequela disturbante delle opere di Escher annotate dalle parole del poeta nobile e inquietante, furioso e fragilissimo, che ne seguiva la pista con gli occhi come stesse fiutando a naso un passato talmente concluso da potersi definire scriteriatamente destino. Davanti alla xilografia Palmboon Aad pronunciò “la gloria nana del mattino s’intreccia allo stelo dell’erba”; davanti ai paesaggi italiani costieri e meridionali degli Anni Trenta: “Io credo nella resurrezione dell’Italia quia impossibile est”; davanti all’incisione Soffione: “in short shall we look for a deeper or is this the bottom?”. E tra una meta e l’altra del suo cammino tra i ricordi di dentro e la visione di fuori, a intermittenza, ringhiava: “I criminali non hanno interessi intellettuali?”
Doveva esserci una intima e ferrea corrispondenza tra le opere di Escher e i versi del poeta, di Aad, come se il legame creatosi tra i due nella prima età non si fosse mai più potuto slegare, o non lo so, come se entrambi, pezzati di storie, avessero provato a raccontare l’esplosione della realtà che sarebbe avvenuta sotto i loro occhi e polpastrelli, ciascuno con i suoi mezzi: Escher mostrando le aberrazioni affascinanti e spaventose della moltiplicazione delirante dei piani prospettici, il poeta raccogliendo i resti dell’esplosione nucleare del discorso, come la sua mente fosse il campo fumante concimata dal fallout delle parole non completamente incenerite, un campo dal quale non poteva che spuntare una messe apparentemente informe e farneticante. “Morte, demenza/suicidio depravazione / cioè, rimbambire diventando vecchi.”
Lei dov’era? La mia guida non mi guidava per niente, io cercavo lei spaesato negli interstizi delle tessellature ma Escher non lascia scampi, occupa la superficie con la protervia di un esercito invasore. Le opere degli Anni Cinquanta si popolano di creature, rane e scarabei, soldati moreschi a cavallo – che lo perseguitino, dopo il saccheggio inventivo compiuto all’Alhambra? – e pesci volanti e cani muscolosi e il girone infernale di Mosaico II: che la mia donna fosse invischiata lì tra trichechi e dromedari idrocefali, pitoni e canguri con la scoliosi, draghi ventre a terra e lumache marziane, per dire dei neri; i bianchi sono: le tartarughe dal guscio a ghianda, l’elefante albino, l’uomo nudo di schiena, il gallo segnavento, un demonietto dalle orecchie da segugio e una puntina di tette: che fosse lei la donna che cercavo, mutata e incastonata, punita, costretta anche lei a fuggire dalla paura del vuoto per schiantarsi nell’orrore della saturazione a tutti i costi?
Gli altri visitatori bisbigliavano infastiditi, mi avranno preso per un imitatore esibizionista, se Max il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler era diventato famoso masturbandosi davanti alla fica stretta all’origine del mondo di Courbert, tagliata alla Lucio, Fontana anche lui come Max e come l’orinatorio divelto di Duchamp, io lo sarei diventato rompendomi in lacrime davanti al demonietto femmina di Escher, implorandolo di fuoriuscire dalla maledizione, di sottrarsi all’ammasso per tornare il prodigio della persona che si da a te per te e non perché a qualcuno bisognerà pur darsi per non sentirsi del tutto superflui e disfunzionali? “Sergente XL credeva che una nazione sovrappopolata / chiedesse strage di tanto in tanto”. Aad continuava a autocitarsi, ormai anche lui vittima della perversione ottica che lo circondava, tra sfere deformanti e effetti Droste psichedelici. C’era quella litografia che ha tanto fatto ringalluzzire i matematici perché Escher l’aveva lasciata incompiuta: Galleria di stampe, del 1956. Ci sono voluti cinquanta anni perché due universitari di Leda chiudessero la mappa isogonica, nella mostra c’è il video che ricorre al volume riproduttore di un motore informatico: il visitatore entra nel quadro che entra nel quadro che entra nel quadro, alle sue spalle c’è una camera che lo segrega nel cattivo infinito della riproduzione. Ah sfoggio di potenza di tecnica e di calcolo!, ma era tanto più bello lo spazio bianco firmato da Escher al centro della litografia: il limite umano raggiunto, solo un cretino può pretendere di poter risolvere l’enigma con le piccole leggi strette della sola ragione, e l’opera incompiuta non è il fallimento: è la vera linguaccia, il buco fatto nel tempo, l’incarico agli altri di dover andare avanti, allargando il cuore dell’enigma mica stritolandolo con un intrattenimento da videogioco.
“Insomma cercheremo più in profondità o questo è il fondo?” disse Aad ripetendo sé stesso perché questo verso l’aveva già cavato fuori, prima. La firma di Escher nel cerchietto bianco della litografia Galleria di stampe è come la virgola alla fine, fine?, dell’ottantunesimo canto pisano di Pound nell’edizione americana di New Directions del 1948: lo sberleffo supremo “nella diffidenza che fece esitare”. Mi sbarazzai del poeta impalato davanti alla ripugnante xilografia Nastro di Moebius II del 1963, con quei suoi insetti giganti, striscianti, con gli occhioni delle creature dello spazio profondo, nella disperata ricerca della seconda faccia di una medaglia al valore che non c’era. Aad strillava, strillava: “Formica solitaria d’un formicaio distrutto / dalle rovine d’Europa, ego scriptor.” Sempre più forte strillava “Ego scriptor! Ego scriptor! Ego scriptor!” Aad era totalmente suonato, quando i vigilanti del museo gli piegarono un braccio mettendolo in ginocchio io non feci niente; mentre lo strattonavano via, minacciando di rinchiuderlo in una gabbia dove se ne sarebbe dovuto stare accucciato come quel cagnaccio che era, io non feci niente, anzi ero sollevato. Un pazzo in meno che potesse urlare che il pazzo certo era lui, anche noi con lui però, e che “Cassandra, i tuoi occhi sono simili a tigri”. La sola riflessione consequenziale che Aad mi fece, me ne sono ricordato mentre rileggevo questo resoconto e lo correggevo, è stata: C’è chi dice Escher non sia veramente un artista. Poco male, sapessi in quanti dicono di me che non sono mai stato un poeta. Un farabutto, piuttosto. Ebbene dimmi cosa dev’essere un artista, un poeta, se non un indispensabile farabutto? Cercati l’etimologia. Non abbiamo radici a cui dover rispondere se non quelle che ci urlano contro dall’argilla delle parole. Possibile me la sia inventata questa riflessione. È evidente sia di tutt’altro stile che non quello di Aad.
Ero precipitato nel dubbio più angosciante: e se la lei che avevo perso non fosse esistita affatto, se me la fossi immaginata e basta? Ognuno abita il suo mondo di visioni ma in quanti si rifiutano di percorrerlo con la consapevolezza che t’insegna a non scomporti al cospetto delle metamorfosi. Un uccello nero nel cielo bianco non è che la controfigura di un pesce bianco nel mare nero. Cambiare sala nel Pan impossessato da Escher equivaleva a cambiare universi. Anche i visitatori avevano smesso di rifugiarsi nel loro apparente anonimato ugualitario, non erano più gli innocui pastorelli della litografia Atrani, adesso erano i nasoni a quattro zampe di Incontri, i camaleonti catturati dagli ottaedri di Stelle, lo stolido simurgh di Altro Mondo II. Escher ha fatto molto in due volte; a Napoli ho visto le versioni II e a dir la verità non so se esistano le versioni I. Non posso escludere Escher cominciasse da subito dalla seconda volta.
Mi ci sentivo io il simurgh rimbambito con quel suo appeal da piccione appollaiato su tutti davanzali di un mondo al cui interno sono collassate le distinzioni e in cui per girarti a sinistra devi andare a destra, dove guardando in alto ti ritrovi sulla faccia i tuoi piedi pigiati sulla superficie di una luna senza più facce e con una lunga teoria inesplicabile di crateri, e a quel punto non so chi disse “la mente diventa satura quando null’altro vi entra” perché Aad era già stato deportato via, messo sotto chiave in un manicomio appeso a un gancio, come in una gabbietta pensata apposta per un simurgh canterino, esposto alle intemperie e alle intemperanze, a gorgheggiare: “Se la brina afferra la tua tenda / Renderai grazie che la notte è consumata”. Magari l’avevo detto io.
Raggiunsi l’ultima sala espositiva senza aver provato nessuna meraviglia per le litografie escheriane degli Anni Sessanta, per le costruzioni delle strutture paradossali, trovo più paradossale chi crede nella regolarità delle strutture, nell’inganno della modellizzazione perfettizzante e idiotizzante, e ero disperato perché davanti a me c’era la soltanto la parete con sopra la resa grafica in bianco e nero del principio prospettico utilizzato per la Galleria di Stampe: un gorgo deformato di passerelle risucchiate verso un centro che non è un centro ma solo il continuo inabissarsi nelle deformazione. Mi lasciavo ipnotizzare dalla traduzione visiva del sortilegio matematico che solo per me dichiarava sé stesso: quella spirale corrispondeva al disegno Bellezza davanti al quale s’era incanto per primo Aad van Stockl riconoscendovi l’illustrazione per il suo primo e chissà se ultimo libretto di poesie! Al disegno Bellezza era stata data una violenta spinta di rotazione secondo una inclinazione irriproducibile fino a provocare quel buco bianco&nero, con conseguente scombinamento delle forme e delle forze, coi triangoli bianchi e neri diventati parallelogrammi scaleni bianchi e neri ridisposti in un accavallamento totale. L’enigma unico e molteplice della bellezza sottesa a tutte le disposizioni dei segni…
E la rividi, bellissima, nitida, come in un ritratto di Leonardo. Forse avevo toccato il fondo del gorgo e quel gorgo era un buio in cui galleggiavano pianeti uguali a perle sottomarine. Feci per allungare la mano, per sfiorarle il viso, come in quella michelangiolesca storia d’amore impossibile tra dio e l’uomo che si cercano le punte degli indici come due amanti ancora trattenuti dal panico della passione che li condurrà all’amplesso innominabile, ma il mio dito cominciò a sbucciarsi e così il volto di leì. Non c’è altro verbo per dire di quel che accadeva: il mio involucro e il suo si districavano, eravamo due nastrini di DNA e dal dentro delle forme non si riversavano frattaglie e liquori inzuppati: c’era soltanto l’universo dopo lo stato gassoso, quando la vita si agglutinò incendiando di stelle il vuoto immenso. Riformammo un vincolo d’unione incollando le nostre ridicolizzanti striscioline, carta straccia scuoiata e innamorata.
Cos’altro sia successo e come abbia fatto io a raccontare della mia visita il giorno dei morti nel Pan dedicato a Escher non lo so.
Antonio Coda