22 Maggio 2024

“Ho guardato l’immutabilità e la luce”. T.S. Eliot lettore di Rupert Brooke

La lettura della sua tesi, Webster and the Elizabethan Drama,l’ha folgorato, al punto da spingerlo a scrivere della «possessione di morte» del drammaturgo in Whispers of Immortality. La tesi poi diventata un saggio canone è quella di Rupert Brooke, il suo ammiratore è uno dei poeti simbolo del ’900, ovvero T.S. Eliot. I cui Bisbigli d’immortalità citano anche Donne, altro poeta molto amato da Brooke, che contribuì non poco alla sua riscoperta.

Da echi, accenni, spunti sparsi, Eliot sembra aver letto con attenzione l’opera del più giovane poeta. Non l’epistolario, curato dall’amico e compagno di scuola Geoffrey Keynes, e uscito dopo la morte dell’americano nel 1965, per quanto fin dal 1945 – Eliot ancora in vita – Robin Skelton inizia a raccogliere e ordinare le lettere.

In ogni caso le sorprese non mancano. Riguarda in particolare una lettera del giovane Rupert Brooke a Geoffrey Keynes. Siamo nel 1906 e il ragazzo sta per lasciare la scuola di Rugby dove è vissuto e ha studiato (i Brooke hanno sempre abitato nella stessa “Casa” di cui il padre William Parker è preside) per andare al King’s College a Cambridge. Un passaggio intreccia la nostalgia per il verde Close, che da anni ha sotto gli occhi e dovrà lasciare con la sicurezza della scuola, alla visione dell’estate al tramonto:

La bellezza e la luce sono fuggite su ali tumultuose, e camminano in bui luoghi solitari oltre le stelle. Rugby è colma di malinconici spettri di morte speranze e gioie ricordate. […] Gli dèi funesti mi hanno dato qua­si tutto, e poi mi hanno deriso mostrandomi cosa non mi hanno dato. Quell’allegra strega, l’Estate, che m’incantava tre settimane fa! L’ho guar­data in viso e, dietro il belletto & il sorriso, ho visto il vecchio, beffardo volto da meretrice.

(22 giugno 1906)

L’immagine entrerà nei versi che sta scrivendo e in un’altra missiva al suo mentore di quel periodo, il francesista dal nome originale St. John Welles Lucas-Lucas, «La luna pareva un’enorme crosta gialla sulla carne livida di un lebbroso» (Archivio del King’s College, Cambridge).

Che ne sia consapevole o solo per coincidenza, Eliot sembra comunque evocare con chiarezza quest’immagine. L’insistenza sul disgustoso in forme sconcertanti, passando per Baudelaire e Laforgue, riemergerà infatti nella fantasmagorica luna eliotiana della Rhapsody on a Windy Night: «La luna ha perduto la memoria. / Un vaiolo slavato le screpola la faccia», intorno a lei «tutti gli anti­chi odori notturni». Quello della donna-luna-figura straniata pare quasi un calco del «beffardo volto da meretrice» di Brooke:

Guarda quella donna
che esita verso di te nella luce della porta
Che si apre su di lei come un sogghigno

Vi si sovrappone l’idea di sudiciume di cui s’avvolge la protagonista femminile dei Preludes eliotiani, che simbolicamente riflette nella stanza «le mille immagini sordide / Di cui era composta la tua anima».

Certo, Eliot lavorava componendo mosaici. Comunque quelle che sembrano germinazioni poetiche da Brooke si ripetono. Sono echi, accenni, spunti sparsi ma significativi – d’altronde anche Pound considerava Brooke «il migliore dei georgiani».

Un verso da Success, «the strange gods, who had given so much», «gli strani dei, che hanno dato tanto», può forse aver ispirato a Eliot il titolo di After Strange Gods, il pur più tardo saggio sulla crisi culturale e morale del proprio tempo. Così la chiusa di The Night Journey, con la sensazione di solitudine assoluta alla fine di un viaggio notturno che è anche un viaggio di conoscenza e rivelazione di straniamento, «The lamps fade; and the stars. We are alone», «I lampioni s’estinguono; così le stelle. Siamo soli» può – di nuovo – ricordare l’ultima scena della Rhapsody, quando il flâneur solitaire rincasa al temine della notte. A lui la «preparazione alla vita» non porto solo solitudine, coincide piuttosto con il termine della vita stessa: 

La piccola lampada getta un cerchio di luce sulla scala.
Sali.
[…] Lascia le scarpe alla porta, dormi, preparati per la vita.
L’ultimo giro del coltello.

In un altro punto mi pare siano reperibili tracce brookiane nei versi di Eliot. È il momento d’estasi sottratto a tempo e spazio nell’episodio della «ragazza dei giacinti» nella Waste Land, «un anno fa mi donasti giacinti…», a cui il protagonista maschile risponde:

Eppure quando tornammo, a ora tarda, dal giardino dei giacinti,
Tu con le braccia cariche, con i capelli madidi, io non potevo
Parlare […], non ero
Né vivo né morto, e non sapevo nulla,
Mentre guardavo nel cuore della luce, il silenzio.

Il centro radiante dell’episodio è il «cuore della luce» che rende attoniti e smarrisce i due, Tristano e Isolde rovesciati di significato, impossibilitati ad amarsi nella «desolazione» della modernità. La perfezione dell’istante sfugge loro, la felicità, mancata, si perde nel vuoto.

Rupert Brooke (1887-1915) nel 1913

Nel giardino brookiano di Dust i due amanti sperimentano al contrario un momento di «radiosa estasi», tanto appagante da indurre in loro un’analoga mancanza di lucidità, che li porterà a non saper più distinguere «se sarà fuoco o rugiada», se venga dalla terra o dal cielo, sia «canto o fiamma» o una vertigine di assoluto di «due che passano, nella luce, alla luce»:

Allora in un giardino al riparo dal vento,
Tiepido ai bagliori ultimi del tramonto,
Coloro che si amano tra i fiori sentiranno
Dolce e strano, un inquieto aumentare
Della pace […]. Ma in quell’istante conosceranno
La dirompente estasi del nostro fuoco…

L’esempio più chiaro di questa esperienza estatica è in Dining-Room Tea, la lirica che vuole bloccare il tempo fuori dal tempo nella contemplazione dell’istante perfetto, e riesce a vedere – in un bagliore, per un secondo – «l’attimo immortale» in cui il protagonista «guarda», appunto, «la luce»:

E all’improvviso, e come da altrove,
Ho guardato la tua meravigliosa bellezza.
Ho guardato l’immutabilità e la luce…

Nel giardino abbandonato di Burnt Norton, con i bambini nascosti tra le foglie, l’istante rivelatorio avviene sotto un raggio improvviso di sole che illumina obliquo il laghetto, regalando la visione inaspettata di quanto sta dietro l’apparenza:

E il laghetto si riempì d’acqua alla luce del sole,
E adagio adagio si alzarono i fiori di loto,
Scintillò la superficie al cuore della luce,
[…] Poi passò una nuvola, e il laghetto era vuoto.

La nuvola poi copre e dissolve la visione, annienta la luce, riporta il reale e la sua fredda staticità. Eppure dietro il giardino di Burnt Norton scorgia­mo stendersi un altro prato, più ampio e spoglio, senza fior di loto e la­ghetti, che scende al fiume nella sua semplicità agreste, e l’acqua che vi scorre è quella del Cam, dove Brooke andava a fare il bagno, anche oggi identico, un paesaggio essenziale lascito di eterno:

cullati dai fiori nell’erba sonnolenta,
Sentir passare la fresca cadenza delle ore,
Finché i secoli si fondono e confondono

Qui l’estasi non è dispersa dalla nuvola, semmai vince la dimensione opposta e i secoli crollano dissolti l’uno sull’altro, nel senza tempo della felicità, il prato e il fiume di casa aprono al sognatore prospettive oniriche sempre più ampie, coperti da «nuvole enormi in cieli da Pacifico», mentre nel verde i piccoli sorrisi non scompariranno, perché vi si aggirano «bambini esili più belli di un sogno». Per loro, per noi, tutto rallenta fino ad arrivare alla visione pura

Un bosco frondoso, il ruscello sonnolento,
E zefiri gentili che s’insinuano
Negli angoli del crepuscolo, quasi assopiti.

L’uomo «non può sopportare troppa realtà», dirà l’uccello in volo di Eliot. E dunque il bosco, il prato e il fiume di Brooke, come il laghetto e il giardino eliotiani confluiscono infine in un’unica immagine di nostalgia assoluta. Diventano – semplicemente – quelli che, una volta almeno, tutti noi abbiamo visto e vissuto: in un paesaggio d’infanzia, in un ricordo o un desiderio. O mentre leggiamo poesia, che sia di Eliot, che sia di Brooke.

Paola Tonussi

**

Polvere

Quando in noi la bianca fiamma sarà scomparsa,
E la gioia del mondo perduta
C’irrigidiremo al buio, lasciati soli
A sgretolarci ciascuno nella propria notte separata; 

Quando i tuoi mobili capelli saranno fermi nella morte,
E sospinto tra le labbra il disfacimento
Avrà bloccato lo sforzo del mio respiro –
Quando saremo polvere, quando saremo polvere! –

Non morti, non privi ancora di desideri,
Eppure senzienti, ancora insoddisfatti,
Cavalcheremo l’aria, brilleremo volteggiando
Presso i luoghi in cui siamo morti,

E danzeremo come polvere davanti al sole,
Con lievi piedi, e senza confini
Andremo svelti di strada in strada, di corsa
Per gli incarichi del vento.

E ogni granello di polvere, per terra o nell’aria,
Sarà veloce e lucente, lungo giorni a venire,
E come pellegrino straniero viaggerà
Per sollecite e invisibili vie,

Non riposerà né dormirà
Finché, oltre il pensiero e la vista,
Un granello della polvere che sarò io
Incontrerà un atomo che sei stata tu.

Allora in un giardino al riparo dal vento,
Tiepido ai bagliori ultimi del tramonto,
Coloro che si amano tra i fiori sentiranno
Dolce e strano, un inquieto aumentare

Della pace; e, lasciato ogni desiderio,
La bellezza nell’aria,
E la luce e i canti laggiù,
E la radiosa estasi,

Non sapranno se sarà fuoco o rugiada,
Se venuti dalla terra o dal cielo,
Canto o fiamma, profumo o colore,
O due che passano, nella luce, alla luce,

Oltre il giardino, sempre più in alto, in alto…
Ma in quell’istante conosceranno
L’estasi dirompente della nostra passione,
E i deboli cuori senza passione bruceranno

Avvizzendo in quel grandioso bagliore,
Finché l’oscurità sbarrerà il cielo;
E sapranno – poveri sciocchi, sapranno! –
Per un secondo, cosa significa amare.

Dicembre 1909 – marzo 1910

*

La collina

Senza fiato ci slanciammo su per la collina piena di vento,
Ridevamo nel sole, e baciavano la meraviglia dell’erba.
“Attraversando gloria ed estasi, dicevi, noi scompariremo;
Il vento, il sole, e la terra rimarranno, gli uccelli canteranno ancora
Quando saremo vecchi, vecchi…” “E quando moriremo
Tutto ciò che è nostro finirà; e la vita continuerà ad ardere
In altri amanti, in altre labbra,” dissi io,
– “Cuore del mio cuore, il nostro paradiso è adesso, è nostro!”

“Noi siamo il meglio della Terra, che qui ha appreso tutto.
Il nostro pianto è la vita. Siamo stati fedeli!” dicevamo;
“Scenderemo con passo non riluttante
Nell’oscurità incoronati di rose!… Eravamo fieri,
E felici di poter pronunciare quelle verità coraggiose
– E poi d’improvviso tu hai pianto, e te ne sei andata.

*

Presenze

Nel grigio tumulto seguito a questi anni
Cade spesso il silenzio; gli esperti zelanti se ne vanno
Ed echi fantasma di lacrime ricordate
Zittiscono l’assordante rivolta del cuore;
E un’ombra, tra i ranghi dell’allegria e del pianto
Brama, soffre, e ogni moto di passione spento, –
Perduto, ma mai dimenticato, eterno,
Torna l’incanto della tua quiete.

Così un povero spettro, presso le sue confuse correnti,
È colto da strani dubbi, sogni sfuggenti,
Segni di vita prima del Lete, di uomini,
Stelle, rocce e carne, cose incomprensibili,
E di luce sull’onda dell’erba, non sa quando, 
E piedi in corsa, ma dove, non sa.

Il Pacifico, 1914

Rupert Brooke

*La scelta e la traduzione delle poesie sono di Paola Tonussi. Per le Edizioni Ares, Paola Tonussi ha curato la biografia “Rupert Brooke. Lo splendore delle ombre” (2024)

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