“L’amor che move il sole e l’altre stelle”. Queste parole di Dante mi sono venute in mente ripensando alla sera dello scorso 3 marzo in cui, la mano sul cuore di un amico in agonia, ne sentivo il battito sempre più debole e la sua vita allo stremo, per quel che ne restava. Mai avevo toccato così intensamente, con mano, il mistero della morte. Alla fine il cuore ha cessato di battere e in quel momento il mio amico se n’è andato con un ultimo lieve sussulto, quasi un sospiro, passando dal tempo all’eterno “… amor che move il sole e l’altre stelle”. Il che per me non è un’infondata speranza, un’illusione, semmai un’intuizione, un sentire che va oltre la ragione e quel che si può esprimere a parole.
Insieme a me, in quel momento, c’era il professor Gabriele Pellizzari, erede intellettuale del mio amico, che gli accarezzava la fronte, la sede del pensiero e del linguaggio. C’era Rajae, una figlia più che la badante, che per giorni e notti aveva accudito e pulito quel corpo sofferente come forse nemmeno una figlia di sangue avrebbe fatto. Poi ci raggiunse Ivan Cecchin, l’amico d’una vita, e tutti insieme recitammo una preghiera.
La notte poi, restato solo (Rajae, stremata da notti e giorni di tensione e di veglie, riposava nella sua stanza), restato solo con il dolore e la speranza nel cuore, una notte perlopiù insonne e passata a vegliare il mio amico e a pensare – il che in fondo era il mio altro modo di pregare –, ritrovai un libro nella sua biblioteca. Era un mio libro di cui gli avevo fatto dono appena pubblicato, sul finire dello scorso millennio, un libro la cui redazione è già tutta un romanzo che non posso narrare ma solo accennare. Nel libro è impressa a stampa la dedica “a Gabriella”, che allora era una giovane donna senza la quale veramente mi sarebbe stato impossibile scriverlo. Però su questa copia c’è un’altra dedica, scritta a mano: “Al mio magister Remo Cacitti, che mi ha insegnato la via per uscire ‘a riveder le stelle’”.
Il che, più che vero, è sacrosanto. Remo Cacitti, l’amico che avevo appena visto e sentito morire, un tempo ormai lontano era stato il mio severo ma carissimo magister di Storia del cristianesimo antico all’Università degli Studi di Milano. Però il suo magistero, per quel che mi riguarda, non lo aveva esercitato in un’aula della Statale, bensì scendendo agli Inferi (scrivo così non per mitizzare, ma per pudore), dove mi trovavo da un’eternità. Per anni era venuto a farmi lezione, non solo per convertirmi al metodo storico-critico, ma soprattutto per aiutarmi. Il metodo poi – lo confesso – non l’ho mai assimilato debitamente, sino in fondo.
Nel frattempo però con Remo era subentrata l’amicizia e lui aveva capito che ero alla ricerca di un’altra via, più incline alle mie aspirazioni. Sapeva che da molto tempo cercavo un modo di raccontare Dante – per quel poco di certo che sappiamo della sua vita – in modo diverso dall’agiografia o dalla biografia. Però sapeva che, per quante licenze volessi prendermi, non intendevo abbandonarmi ad una fantasia senza freni, bensì fare di Dante il protagonista di un romanzo storico, e narrarlo, soprattutto, nel suo esilio, interiore forse ancora più che esteriore. Narrarlo nei suoi ultimi anni, con uno stile del tutto personale, diverso dalla tradizione e in modo tale da non farmi condizionare dal pensiero e dal timore di quel che avrebbe potuto dire o non dire la critica, soprattutto quella dantesca, ammesso ma non scontato che qualcuno si degnasse di considerarmi degno di nota, seppur di biasimo o di scherno.
Remo mi prese tremendamente sul serio e si offrì di fare ricerca al posto mio, trasformandosi in una sorta di Borges brancolante nella “Biblioteca di Babele”. Così si mise a cercare per me libri più unici che rari, a fotocopiare capitoli o interi volumi che non potevano essere dati in prestito. E ciò sugli argomenti più disparati che a volte non parevano avere un rapporto diretto con il Dante della storia. A mo’ d’esempio: quando Dante si recò a Venezia come ambasciatore di Guido Novello da Polenta, sul finire dell’estate del 1321, com’era l’approdo, Piazza San Marco, la città? Oppure: dal momento che Dante si ammalò di malaria all’andata o al ritorno dall’ambasceria (ed io volevo descriverne gli effetti), qual era lo stato del paludismo alle foci del Po? E così via ricercando e martirizzando il mio amico professore. E con lui Gabriella, la giovane donna che sarebbe diventata mia moglie, alla quale però facevo leggere le varie stesure cercando poi di far tesoro delle sue note, correzioni, tagli, a volte molto dolorosi per il mio orgoglio. A Remo invece non feci leggere le bozze sino all’ultima stesura, né a lui né a Maria Corti, per timore che tanta autorevolezza accademica mi mettesse in soggezione trasformando la mia incosciente vena creativa in rigor mortis.
Questo, dunque, il libro che quella notte sfogliavo davanti al mio amico morto, pagine del libro della vita, della sua vita, della mia vita. Credo poco al fato ma ancor meno al caso e al calcolo delle probabilità di un incontro, manco fossimo fatti solo d’un pulviscolo di particelle gettate sulla terra come dadi, e non, invece, creati per “seguir virtute e canoscenza”. Qualcuno – pensavo guardando il mio amico che nella morte mi appariva sempre più un po’ come uno sconosciuto – deve pur averci fatto incontrare, e non il caso e le circostanze. Di questo e di altro avevamo parlato molte volte e a lungo nel corso degli anni. E anche con un certo senso dell’ironia e dell’autoironia.
Ricordo quando pubblicò Indagine sul cristianesimo: come si costruisce una religione, con Corrado Augias. Com’è ovvio sapevo – avendo pubblicato dallo stesso editore – che non era stato Remo a scegliere il titolo, perciò gli dissi che io avrei suggerito alla Mondadori una rosa di titoli più alla moda, tipo L’Algoritmo del cristianesimo, oppure Il Codice genetico del cristianesimo, visti l’infomania e la genomania imperanti. E aggiunsi: “Se poi tu fossi Dante e volessi ripubblicare una versione aggiornata e politicamente corretta della Commedia nella grande editoria, non dovresti accusare di lesa poesia l’editor che ti dicesse di cambiare la parola ‘amor’, nell’ultimo verso del Paradiso, con ‘algoritmo’, L’Algoritmo che move il sole e l’altre stelle, che poi sarebbe perfetto anche come titolo”.
E ci ridemmo sopra. Se Remo da un altro luogo sta scrutando quel che scrivo, sono certo che sorride, ancora una volta, perché spesso riuscivo a farlo sorridere, e persino ridere. Mi riuscì quasi sino alla fine. Invece non avrebbe apprezzato e anzi mi avrebbe rimproverato per quello che, in principio, avevo intenzione di fare, ovvero di narrare quanto e come sia durato il suo calvario, lui così pudìco di fronte alla propria sofferenza e così sensibile verso il dolore degli altri. Detestava l’ostentazione della propria sofferenza, fosse stato anche il Papa a metterla in mostra, com’era accaduto con il papa polacco. Ora però mi pare di sentire il ritornello detto con semiseria severità: “E allora, Enzo, la tesi? A quando la tesi di storia? Compilativa o di ricerca? Vuoi dirmi finalmente l’argomento?!”. E allora così gli rispondo: “Se nell’Eternità ti capita di incontrare quello scrittore cieco come Omero, però non greco bensì argentino, potrebbe risponderti, in vece mia, che la storia in fondo non è che un ramo della letteratura fantastica”.
Così risponderei all’anima immortale di Remo Cacitti, il mio fantastico magister. E ancora: “Però sai bene, e lo sai da quando mi insegnavi a stare al mondo come Dio vorrebbe, che seppure se non ho mai scritto una tesi di storia del cristianesimo (argomento sconfinato, da fare “tremar le vene e i polsi”), però ho scritto qualcosa di non indegno su un cristiano, un povero cristo in politica e negato al successo cortigiano, sempre ricercato, anche dai possibili sicari prezzolati dai parenti delle vittime da lui dannate all’Inferno, un uomo sempre con le pezze al culo, ma, come poeta e dignità, il massimo, ineguagliabile. Ed io ritorno a farti dono di questo piccolo libro, per l’Eternità, nella speranza che il Signore ci faccia ritrovare. Mi rendo conto che sarà molto difficile, per me, il Giorno del Giudizio, soprattutto se il ruolo della pubblica accusa fosse affidato a me medesimo. Però sono certo che tu ancora una volta tenterai di aiutarmi e di difendermi, anche da me stesso, con una buona parola, buona come i tuoi ‘occhi buoni’ e, alla mala parata, come l’altra volta qui sulla terra, farai di tutto per farmi evadere dall’Inferno”.
Non oso chiedergli se finalmente ha trovato Colui del quale per gran parte della vita seguì le tracce, le vere e le ingannevoli, il Gesù della storia. E qui mi viene in mente di un altro libro, un gran volume di Albert Schweitzer che Remo Cacitti mi fece leggere. Fa il punto, questo libro, della storia della ricerca sulla vita di Gesù di Nazareth. E il punto, alla fine, è il seguente:
“Strano destino quello della ricerca sulla vita di Gesù. Partì per trovare il Gesù storico, pensando di poterlo collocare nel nostro tempo come egli è, come maestro e come salvatore. Spezzò le catene che da secoli lo tenevano legato alle rocce della dottrina ecclesiastica, gioì quando la vita e il movimento penetrarono di nuovo la sua figura e quando vide l’uomo storico Gesù venirle incontro. Egli tuttavia non si fermò, passò davanti al nostro tempo, lo ignorò e ritornò nel suo. La teologia degli ultimi decenni ne fu scandalizzata e spaventata, perché divenne consapevole che tutte le sue tecniche interpretative e le sue manipolazioni non erano in grado di mantenerlo nel nostro tempo, ma dovevano lasciarlo andare nel suo. Ed egli vi ritornò con la stessa necessità con cui il pendolo liberato si muove per rioccupare il suo posto originario”.
Così per la ricerca del Gesù storico. Resta però, per noi che permaniamo nell’ignoranza, il mistero del Gesù della fede, ma questa, caro Remo, come tu sai, è un’altra storia.
Enzo Fontana