È all’incirca un mese che vivo come lettore nella Kolyma, l’inferno umano disseminato nei ghiacci sovietici, spostandomi al seguito di Varlam Tichonovič Šalamov che nelle lande terribili (Antonio Moresco direbbe: terminali) fa da Virgilio, Beatrice e Dante – in quest’ottobre orbato di Nobel-alla-Letteratura il mio personale Nobel l’ho assegnato a Šalamov, così meno postumo di tanti altri premi Nobel magari ancora vivi ma mai quanto i “Racconti di Kolyma” di Šalamov. Quando ho saputo dell’ultimo libro di Antonio Moresco però ho dovuto momentaneamente evaderne, per entrare ne Il grido, edito per la SEM, con in quarta di copertina un quadro di Nicola Samorì, una Maddalena con la bocca sfasciata, come un portale attraverso il quale entrare nel libro pur se dalla fine ma con Moresco, ormai, voler precisare cos’è l’inizio e cos’è la fine è pretestuoso: tutto è in rottura e in collisione nella sua opera letteraria.
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Voglio continuare a leggere Šalamov e entro in una libreria, prendo Il grido e comincio a leggerlo per strada e in casa, di giorno e di notte. Moresco m’ha gettato qualche sortilegio da quando ho letto Canti del Caos. In Canti del Caos Antonio Moresco lega il linguaggio a una sedia elettrica, cala la manovella e il linguaggio non muore fulminato ma ne esce trasformato, vivo e morto allo stesso tempo, dilatato tra passato, presente e futuro, una cavia spaventosa e prodigiosa. Lo hanno già scritto da qualche altra parte che Lettere a nessuno, la prima parte, non è affatto un saggio ma è il più bel romanzo italiano sugli Anni Settanta? E La lucina: nel piccolo romanzo La lucina, sempre per dirlo con uno slittamento, alla Moresco, c’è come la storia del Piccolo Principe di Saint-Exupéry se non si fosse svolta nel deserto del Sahara ma in una casa isolata nel bosco.
Quanti libri ha scritto Antonio Moresco!, Moresco è gemmato, sta colonizzando l’editoria italiana, dalla microscopica alla macroscopica, è come la vegetazione infestante delle sue visioni più apocalittiche e ultimative. Non mi sono piaciuti tutti, alcuni suoi libri mi sembra di rileggerli in altri suoi libri, ma in ogni libro di Moresco c’è un affondo, anzi c’è più di un affondo: c’è un trabocchetto, e un ceffone. Moresco nei suoi libri, durante i suoi vagabondaggi notturni, letterari, finisce sempre per mollare un ceffone di sfida, anche in Il grido, un titolo tribale, c’è un invito alla colluttazione, al prendersi per la collottola, allora collottola sia. Questa volta con Moresco ci voglio litigare io.
Concludo la prima lettura de Il grido e furibondo prendo le scale di casa, poi prendo gli scalini pubblici che dalla parte alta della mia città conducono nella parte bassa e entro nel marchettino di Lin Hu Hu. Moresco in Il grido entra nel cesso pubblico e sotterraneo tenuto della russa forse ucraina Lyudmila, io per lottare con Il grido di Moresco entro nel marchettino diurno e diuturno del sicuramente cinese Lin Hu Hu e esigo: “Voglio un clone di Antonio Moresco”. In Moresco è come stare da qualche parte a mezzo tra una puntata di Futurama e il recente studio di Davide Sisto sull’estensione della vita nella morte all’interno della reteInternet che sostituisce sempre più qualsiasi rete soltanto neuronale; è come mi sento nel marchettino cinese adesso. È molto rifornito, sugli scaffali ci sono i cloni gonfiabili di chiunque, anche di Leopardi e della Dickinson. Il clone gonfiabile della Dickinson è molto venduto per le sue vaste labbra africane, per come le descrive Moresco che in L’adorazione e la lotta ha fatto rifluire questa sua visione o invenzione o rivelazione, che in Moresco fanno tutt’uno: il motivo della clausura della Dickinson, della sua vita separata; il mistero delle sue origini indicibili.
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In Moresco è così, cammini per pagine e pagine, provando l’angoscia del déja vu, come nelle mille pagine de Gli increati, e d’improvviso sei in un crepaccio imprevisto, mortale, nel punto dove eri convinto di esserci già passato un milione di volte, senza trovarci niente. La letteratura di Moresco è un labirinto che vive di vita propria, sfuggito al suo stesso architetto, che anzi ha finito con il rinchiudere l’architetto al suo interno e adesso l’architetto non riesce più a uscirne, e c’è da impazzire: come si fa a non poter uscire dal labirinto di cui si è stati l’inventore?
Il clone della Dickinson si vende a centinaia e centinaia di pezzi perché a molti piace poterlo profanare senza pagare pegno. Il clone della Dickinson ha salvato la vita a molti innocenti che, in mancanza del clone della Dickinson, sarebbero stati rapiti e abusati da coloro che invece si sono dirottati sul clone della Dickinson, almeno fino a questo punto. Ci sono molti cloni gonfiabili nel marchettino cinese, molti più di quelli con cui Antonio Moresco ha interagito all’interno del suo Il grido. A dirla tutta alcuni cloni il marchettino di Lin Hu Hu non li ha, non li vuole più nessuno. I cloni di Leopardi, Dostoevskij, Marx, Freud: non li vuole più nessuno. A esser fortunati se ne può rimediare qualche scorta di magazzino, in giacenza, scampati al macero, ma sono fuori produzione.
Certi cloni gonfiabili poi vanno esclusivamente su richiesta: chi mai può volere il clone di Emanuele Severino? Quello di Walt Whitman è per intenditori. Molto venduto il clone di Houllebecq, nonostante siano diffuse e condivise le critiche sul modello: particolarmente deperibile, pare. Uno su tutti s’è venduto sempre bene, il clone gonfiabile di Hitler è un long seller, un evergreen, se lo comprano tutti, anche i più insospettabili. Alle volte i clienti comprano due copie di cloni gonfiabili di Karl Marx, per nasconderci in mezzo la copia del clone gonfiabile di Adolf Hitler. I cloni gonfiabili più di grido non sono quelli promossi ne Il grido. Lin Hu Hu me li mostra, in primo piano sugli scaffali, con il suo italiano che si presta a malapena a qualche storpiatura. “Cosa fare vuoi con il clone di Antonio Moresco? Scegliti uno altro: il clone di Diego Fusaro, il clone di Asia Argento, il clone di Mimmo Lucano”. Io, incredulo “Il clone di Mimmo Lucano?” E Lin Hu Hu: “Questo è il nuovissimo, il richiestissimo; è di materiale inedito, prende subito il fuoco ma consuma lentissimo: puoi farci il rogo che dura tutta la notte; è atossico, ci puoi abbrustolire i wurstel e i marshmallow.” “Ma io non voglio il clone di Mimmo Lucano. Voglio il clone di Antonio Moresco!”.
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Scarto il bustone plastificato con il clone di Antonio Moresco lì per lì nel marchettino di Lin Hu Hu, che infatti mi guarda malissimo, “Cazzo fai, prima paga Moresco!”, ma non posso aspettare, devo cominciare il mio combattimento, non mi ci vuole neanche tanto fiato. Lo gonfio dal beccuccio posizionato al centro della testa e dopo cinque minuti, spompato io e turgido lui, ho davanti a me Antonio Moresco, magro, agguerrito, con il cappuccio calato sulla fronte. Chiudo la valvola e sono pronto a dirgliene ma appena lo tappo, attivandolo, Antonio Moresco si mette in azione, cammina cammina e esce dal marchettino, a passo di corsa. Io subito dietro a rincorrerlo, rassicurando Lin Hu Hu. “Ripasso dopo e te lo pago”. Lin Hu Hu non l’ha presa bene. “Fanculo tu, brutto pezzo di italiano!”.
Antonio Moresco ha preso la strada in salita, non so dove stia andando, ha molti più anni di me ma tra me e lui, tra me e il suo clone, sono io quello che arranca fin dal primo momento, che fatica stargli dietro. Gli urlo: “Un’altra volta il tuo livore, la tua rabbia, la tua esasperazione: quante volte ancora dovrai riscriverla, cambiando il personaggio dell’interlocutore ma forse nemmeno cambiandolo, cambiando ambientazione ma neppure cambiandola chissà quanto. Quante altre volte dovrai scrivere che siamo al salto di specie, nel momento della tracimazione, nel collasso e nella ignavia più totale, che siamo sul piano inclinato, che non stiamo capendo nulla di quello che ci sta succedendo? Quante volte scriverai ancora in un libro diverso lo stesso libro?”.
E Moresco, cioè il suo clone, con quella precisione autocitazionista che ne Il grido lo sgomenta tanto, come se i libri non fossero l’archetipo del clone per eccellenza, come se la cibernetica non stesse provando a inventare quello che la letteratura mette in pratica addirittura da prima dell’invenzione della letteratura stessa, dai disegnetti nelle caverne, dai vagiti del linguaggio, come il linguaggio non fosse lo strumento per forzare la sola eternità possibile, quella che dura fintanto che esisterà qualche essere alfabetizzato sulla terra capace di recepirla, come se non fosse stata la letteratura per prima a far esplodere la presunzione del voler sopravvivere alla propria morte: “Sì, lo so che l’ho già detto e l’ho già pensato e l’ho già gridato, però bisogna che lo dica ancora e che lo gridi ancora, perché è cruciale”.
Dove va così in fretta e così veloce, dove trova tutta quell’energia, qual è la sua urgenza? “E perché è cruciale che tu lo dica e gridi ancora?” gli faccio eco, affannando, chiedendomi dove stia andando, seguendolo in posti della città che non conosco, eppure credevo di conoscerla tutta la mia piccola città, e per i passanti che ci guardano dobbiamo essere ridicoli: un uomo anziano che vistosamente cerca di distanziare un uomo non più giovane che non si capisce cosa gli stia dicendo, e ancora più dietro un giovane cinese che manda improperi in direzione dell’uomo non più giovane, decidendo poi di desistere e di tornare indietro, tirandosi i capelli, blaterando “Fanculo brutto pezzo di italiano, fanculo, fanculo!”.
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Voglio Moresco sappia che io e lui dobbiamo considerarci fratelli. Lui considera suoi fratelli Dostoevskij e Van Gogh e Kafka, anche io considero miei fratelli Dostoevskij e Van Gogh e Kafka, dunque io e Antonio Moresco, io e il clone di Antonio Moresco che fila dritto davanti a me spinto da un impulso inspiegabile, siamo fratelli per interposti fratelli. “Perché, per esempio, a Severino rimproveri il linguaggio autogiustificatorio della filosofia, e della sua filosofia, se tu con il tuo linguaggio evocativo e esortativo, ipnotico e trascinante, fai la stessa cosa? Le tue parole sono fondate dal fatto che sono le tue parole, allora quello che critichi nella filosofia di Severino non è quello che dovresti criticare nella tua letteratura? Poi lasciatelo dire: che sorpresa! Dostoevskij, Freud, Marx, anche Priesley, Hawking, eppoi chi c’è? Emanuele Severino. Un colpaccio. Io non sono neppure tanto preparato su Severino, ho letto i suoi volumi sulla storia della filosofia, non mi sono spostato dalla sua anticamera…”.
Dove sta andando Antonio Moresco, il clone di Antonio Moresco? Perché non si ferma, non si siede per provare a ragionare, per dare un nome alle cose che dice e ridice, sempre di corsa, al punto di far nascere il sospetto che sia di corsa e elusivo proprio per evitarti di raggiungerlo e di costringerlo a dirti che insomma, cos’altro vuoi che ti dica? Che non c’è nulla da precisare, che è tutto lì, in quell’empito, in quello strepito, in quella impressione che non dura più del suo impatto psichico e epidermico assieme? Come se la letteratura non fosse altro che quella forza che ti cambia di stato, dalla inezia dell’inerzia all’esorbitante del movimento, dove poi conduca il movimento, eh, saranno pure problemi tuoi, cioè di tutti, quel che conta è abbandonare lo stato di inerzia.
O conta qualcos’altro? “Antonio Moresco, conta qualcos’altro oltre a questa idea che mi è venuta, della letteratura che non ha bisogno di nessuna leva per sollevare il mondo ma solo di darti un bel calcione nelle parti giuste, che ti faranno pure guaire di dolore ma che intanto ti sbloccano, ti lanciano, ti attivano, ti mettono nella vita che poi ti porterà nella morte ma tanto nella morte c’eri e ci sei e ci sarai già, quindi meglio confondere la morte con la confusione della vita?”, lo interrogo, sperando le mie parole lo raggiungano colmando la separazione che aumenta tra di noi, dimenticandomi di cosa gli sto domandando nel momento stesso in cui glielo domando, non saprei proprio domandarglielo allo stesso modo una seconda volta; mi è venuta lunghissima la domanda, mi ci sono perso.
Le parole di Antonio Moresco, del clone di Antonio Moresco, me le porta il vento. Lui le pronuncia davanti a sé e il vento le raccoglie e me le versa negli orecchi dai suoi palmi raccolti, come conchiglie svuotatemi nei timpani. Allora mi sente!, o è il clone a essere stato progettato in maniera potenziata? Così si spiegherebbe anche perché ha tanta resistenza, perché va dritto in salita come se fosse in piano, asciutto e deciso, mentre io sudo e non ce la faccio più e sono sempre più preoccupato per la vendetta che starà escogitando Lin Hu Hu nel suo marchettino in cui si vende di tutto e in quel di tutto quanti oggetti a cui cambiare la destinazione d’uso, facendone strumenti di tortura, dalle pinzette per le ciglia alle lampadine a risparmio di energia, dalle girandole per i balconi ai reggiseno in acrilico cento per cento. Le parole di Moresco sono: “L’aristocrazia, la vera aristocrazia è essere severi con se stessi e indulgenti con gli altri, mentre quelli come lei e come i suoi sodali sono invece indulgenti con loro stessi e severi con gli altri”.
Ma se è lui il primo a essere indulgente con la sua opera letteraria e severo con l’opera letteraria degli altri? E chi sarebbero i miei sodali? Perché il clone di Antonio Moresco si rivolge a me con le parole con cui l’Antonio Moresco del libro Il grido si rivolge a Ernst von Salomon incontrato durante uno dei suoi vagabondaggi? E chi è Ernst von Salomon, dove l’ha incontrato Antonio Moresco? Nel mondo scritto o nel mondo non scritto? In quale di questi due mondi che come tutti gli altri mondi fanno comunque parte dell’universo generale dell’immaginario, quello che comprende tutti i mondi e anche tutti gli universi, non soltanto il 5% di un universo solo, ma il cento per cento di tutti gli universi, e sarebbe ancora un unico universo immaginario, il mio. Quanti universi immaginari esistono al di sopra del mio immaginario? E al di sotto? È in un immaginario universale che avviene il vagabondaggio infinito di Antonio Moresco che non si arrende a nessun realismo, a nessuna condanna della specie, a nessuna estinzione della vita come l’abbiamo conosciuta, che vuole rimandare l’estinzione concordata nell’istante della sua apparizione, vuole ritardarla, farle opposizione, a costo di spostare tutto più in avanti, tutte le leggi della fisica e della chimica, sovvertire lo spaziotempo.
E come? Gridando? Cos’ha mai cambiato il grido di una frase scritta? Che effetto può avere la letteratura sul tempo prescritto all’esistenza del nostro sole, della nostra galassia, del nostro universo? Con la sua scrittura Antonio Moresco si vuole sottrarre alle leggi prescritte della durata della specie e prescritte non si sa da chi e non si sa quando, certamente da prima? Vuole riscrivere le leggi prestabilite, violare la violenza di certe costanti, di certe durate approssimativamente calcolate e impossibili da riprogrammare? O l’unica cosa che resta da poter cambiare è l’approssimazione del calcolo degli anni rimanenti, milione di anni in più milione di anni in meno?
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“Antonio Moresco, è questo che vuoi? Adesso però non so ridirlo come l’ho appena detto… Vuoi bucare la vescica del tempo, per provocare una fuoriuscita ancora mai pensata e tutto sommato impensabile, soltanto immaginabile quindi a sua volta ristretta nella membrana autistica e edonistica del combattimento estetico? Cosa cavolo vai scrivendo da decine di libri, me lo spieghi una buona volta?”. Il clone di Antonio Moresco non mi risponde più, mi ha distanziato parecchio, adesso però dovrà fermarsi per forza, è giunto a un vicolo cieco, a una sommità, o torna indietro o si butta di sotto, si schiaccerà sull’asfalto scaduto del tornante di sotto. Non vorrà mica…?
Ah, che sollievo. S’è fermato. Io mi piego sulle ginocchia, per riprendere fiato, sono esausto, mi ha sconvolto e oltrepassato, ma adesso cosa fa? Cos’è quel movimento di anche ossute e di mani farfuglianti sul davanti della patta? Ma s’è tirato giù le braghe a metà coscia! E sta pisciando nel dislivello, come un monellaccio, in pieno giorno. Ecco qual era la sua urgenza! Non la teneva più e s’è cercato il posto giusto per alleggerirsi, il più in alto a portata di scarpinata. E se becca il parabrezza di un’auto in transito casuale nel tornante di sotto? La farà sterzare bruscamente, provocherà un incidente, e sarà tutta colpa mia, sono io che l’ho insufflato e l’ho lasciato andare. Certo, potrei dare la colpa a Lin Hu Hu, quel clone gonfiato è ancora suo fino a scontrino contrario…
Che spettacolo grottesco! Il clone di Antonio Moresco raggrinzisce, il suo corpo sta diventando una sfilza di pieghettature, come il mantice di una fisarmonica che si richiude su sé stessa. Più piscia più rimpicciolisce, implode, s’affloscia. Sta pisciando fuori sé stesso!, la sua anima, cioè il fiato che io ci ho perso dentro. Si sta liberando di me che l’ho adulterato, ricombinato secondo l’idea che mi sono fatto di lui. Un clone non potrà mai essere uguale a colui dal quale è stato clonato quanto lo sarà a colui che ha studiato la tecnica della clonazione stessa, il suo procedimento. Chi crea, crea un modello, uno stile; quel che resta sono quegli effetti spiccioli denominati realtà. Sono questi i calcoli che vanno espulsi per sperare di stare meglio: quelli che invisibilmente ti sono entrati dentro per le vie più impensate, risalendo i condotti urinari o uditivi o ottici, puntando al cervello per colonizzarlo e soggiogarlo e clonarlo mentre tu, illuso, ti credi ancora vivo di vita tua.
E quando i calcoli si espellono, si sa, devi gridare, di dolore e di liberazione.
Antonio Coda