Non è un saggio organico, metodicamente critico; è una “conversazione” che condivide con le incursioni dantesche di T.S. Eliot e di Borges un approccio obliquo, a tratti eretico e arbitrario, alla Commedia. L’autore di questa Conversazione su Dante è un poeta russo di origine ebrea: Osip Mandel’stam. La sua esistenza è ricoperta di cicatrici. Come Dante, la sua vita porta in sé le stigmate terribili del XX secolo. È un temperamento ontologicamente inquieto; un randagio che ama viaggiare, ogni volta tornando a disegnare una mappa di nomi e luoghi sempre identici; ma investiti di un’intensità lirica capace di trasformarli in tappe d’una geografia visionaria, fisica e spirituale. Mosca è il suo centro di quiete; l’Itaca fedele da abbandonare, per ritrovarla più bella ad ogni ritorno.
Questo poeta di piccola statura, dalle movenze goffe, soffriva come un flagello la condizione dell’uomo come animale sociale. Mandel’stam non concepiva che si dovessero avere legami col potere politico, con un‘istituzione che pretendeva di collocarsi al di sopra della libertà e della ragione umana. Avrebbe percepito l’investitura gramsciana di intellettuale organico come una tunica di Nesso; al contrario di Dante uomo, che, invece, non abbandonò mai l’abito politico, imparato a proprie spese nell’arena delle aspre lotte municipali; né la sua ostinata parola letteraria, nella Commedia come nei trattati e nelle Epistole, tradì mai la funzione profetica. Malgrado la mobilità geografica della sua vita, Mandel’stam non poté fuggire il potere del suo tempo; lo conobbe anzi nella sua forma più estrema: la dittatura staliniana. Nella sua officina poetica si condensano versi dotati di incisiva bellezza e politezza espressiva, mai scombaciata dal lievito etico che li nutre: “Col mondo del potere non ho avuto che vincoli puerili”. Sono versi che Pasolini ripeterà spesso.
È annodando queste giunture biografiche che possiamo ricostruire il sostrato, umano e intellettuale, che regge il debito d‘amore di Mandel‘stam per Dante. Seppur lontane nel tempo e diverse per contesti storici, queste due vite si richiamano. Le stringe una linea destinale che va sotto il comune segno dell’esilio. A parlarci di questa condizione non ci soccorrono solo i testi poetici; esiste una preziosa fonte documentaria che testimonia l’identificazione di Mandel’stam con il sentimento dell’esilio vissuto da Dante. Si tratta di una pagina autografa di incerta datazione: un cartiglio sul quale il poeta russo ha trascritto le prime terzine del canto VIII del Purgatorio, proprio le terzine che Sapegno ha definito “l’elegia dell’esule”. È un autografo parlante. A distanza di secoli, in pieno Novecento, Mandel’stam opera un ripiegamento: parla di sé attraverso Dante. Legge la Commedia e si ferma a trascrivere quei versi struggenti nei quali Dante intona il pianto elegiaco che punge di malinconia il cuore dei pellegrini d’amore: i “navicanti” delle incerte rotte dell’esilio, sospinti verso l’ignoto e condannati a sentire in lontananza il pianto musicale della “squilla”, la campanella dell’ultima ora che fa tremare l’aria di tenerezza e porta il ricordo dell’addio ai “dolci amici” in patria. Come in uno specchio, Mandel’stam fa suoi questi versi del Purgatorio, li metabolizza e li proietta nel suo canto lirico, prosciugandone l’afflato elegiaco in un timbro più fermo e desolato. Se ne ricorderà quando la sentenza di Stalin cadrà su di lui, più terribile d’una condanna a morte: tenerlo in vita ma isolato. Certamente l’esilio non era una condizione estranea all’esistenza errabonda di Mandel’stam, che si sentì da sempre esule in patria; ma quando essa non fu più naturale cifra di un destino e divenne espulsione e persecuzione di una politica dittatoriale, ostile al libero pensiero, aprì in lui una ferita insanabile, che lo porterà vicino al suicidio. Da questo humus nasce l’incipit forse più famoso della poesia mandel’stamiana: “Ho imparato la scienza degli addii / nel piangere notturno, a testa nuda”.
Questo poeta, nato nel secolo della caducità, delle dittature, dell’io straniero e plurale; nel secolo delle ferite inferte alla coscienza umana; della negazione della lezione illuminista; secolo di belve e di cane lupi; secolo della negazione della poesia e della sua impossibilità d’esistere dopo Auschwitz – questo poeta russo ha trovato il giro di parole non letterarie, ma completamente opache e metalliche, capaci di riassumere tutto il dolore del secolo. Cos’è la “scienza degli addii”? Non è solo il punto terminale di un secolo impoetico. È la formula di resistenza etica che il poeta oppone allo scialo del dolore e del male nella Storia. Commuove la testimonianza dei compagni del lager, dove Mandel’stam fu internato nel 1938. In questo spicchio di arcipelago Gulag si diffuse la leggenda di un poeta che non accettava di farsi ridurre a bestia e “consolava i detenuti cantando o recitando con il melodioso timbro di voce descritto da Lidija Ginzburg le sue traduzioni di Petrarca, vicino al fuoco…”. La “scienza degli addii” è la presa di coscienza che non esiste scrittura tessuta sulla gioia, perché la gioia parla una lingua povera e manchevole. Lo sapeva Mandel’stam e lo sapeva Dante. Si inizia a scrivere imparando la lingua del dolore e della perdita; guardando le cose da lontano, trafitti da una puntura malinconica. Cercando di assottigliare il peso di orfanità che ci abita. Cavando dall’esistenza una ‘scienza’ che nel poeta è ammaestramento del cuore in lotta contro l’aridità.
Nelle pagine della Conversazione la prima dimensione di analisi del poema dantesco è quella fonetico-musicale. L’orecchio di Mandel’stam è finissimo nel notomizzare e classificare sia la più piccola corolla di sillabe che l’ampia orchestrazione formale, propria del dettato di un intero canto. Terreno privilegiato e ricchissimo è lo sperimentalismo linguistico di Dante, la sua babelicità lessicale, che certo gioca a favore di un’analisi di questo tipo. Il discorso poetico, afferma Mandel’stam in queste righe d’esordio, si compone di due specie di suono: la prima di esse è “il cambiamento che possiamo percepire attraverso l’udito”, scorrendo la tessitura fonica del testo; la seconda è “il discorso vero e proprio, ossia l’attività che, sul piano dell’intonazione e della fonetica, viene svolta da tali strumenti.”. Suono e fonetica costruiscono un’orbita semantica di partenza, sulla quale l’analisi di singoli canti della Commedia allargherà all’assimilazione del testo a strutture musicali più complesse. Dante, “provetto forgiatore di strumenti poetici”, conosceva in sommo grado la scienza di trasformare e incrociare innumerevoli suoni attraverso le figurazioni del suo poema: i lottatori nudi e luccicanti che si avvicinano per battersi; i moscerini d’acqua che cedono il posto alle zanzare, e insieme alle lucciole danzano per la vallata; il rombo di urla e bestemmie che riempie l’aria nera del vestibolo dell’Inferno; il battere dei denti dei traditori, in nota di cicogna; l’affettuoso grido di Francesca; il virtuosismo scabro, ruvido, abrasivo del canto di Pier delle Vigne – sono solo alcuni sparsi esempi della prosodia dantesca come “tappeto” fonico percorso da infinite screziature. Il lessico di Dante, il suo genio combinatorio, i suoi inauditi neologismi, sono, per Mandel’stam, un modo per accedere all’officina poetica del poeta.
Il plurilinguismo continiano ritorna, seppur in forma più libera, nello stupore di questo poeta russo messo di fronte all’orchestrazione prosodica della Commedia: “lessico da astronauta, da concerto, da uditorio popolare, da predicatore”, mescidato all’infantile “cinguettio dei bambini”, al tecnicismo botanico, al sofisma teologico. Dante porta “la parlata italiana” del suo tempo “sull’arena mondiale”: “La più dadaistica delle lingue romanze si insedia così al primo posto in campo internstrumenti”. Mandel’stam prende le mosse dai mattoncini della lingua poetica. Dalle cellule sonore che si aggregano in sillabe, alle sillabe accordate in alchimie numeriche di undici. Senza questa minima radice non si coglie la portata dello sperimentalismo dantesco. Mandel’stam sposta l’analisi fonetico-musicale all’architettura di interi canti. Vuol penetrare nel loro intimo principio compositivo. Prende le mosse dai primi canti dell’Inferno. Dopo l’epigrafe parlante incisa sull’architrave della porta, Dante è messo dentro le segrete cose. C’è un vestibolo immerso nell’oscurità.
Dante personaggio è ridotto a cecità. Ficca l’occhio nel buio, ma non scorge nulla. La sua lingua poetica deve farsi porosa registrazione di suoni. Grida e lamenti; orribili idiomi, parole acute e irose che si slegano per l’aria fatalmente muta di luce. La sola bussola è l’orecchio. In questa notte senza tempo i sensi del pellegrino si azzerano e tutto si concentra nella tensione dell’udito. Mandel’stam ci restituisce il senso profondo di questa condizione del viaggio dantesco con una metafora di grande impatto e letterarietà: “Le forme di luce fendono a stento la via come denti.” Quando Dante varca le rosse mura turrite della città di Dite una vasta campagna punteggiata di arche roventi gli si apre davanti. Terra rossa di eretici tormentati in culle di fuoco. Si colloca qui l’analisi mandel’stamiana del canto X: l’episodio di Farinata degli Uberti e Cavalcante Cavalcanti, padre di Guido. L’orchestrazione dialogica del canto è, prima di tutto, “un denso calamizzarsi di forme verbali“, in tutto il loro spettro di risorse espressive: improntato al presente e al futuro è il tono fieramente sdegnoso del capo ghibellino; mentre la vena, accorata e malinconica, dell‘imperfetto sostiene la voce del padre che si leva a cercare il figlio; mentre il passato remoto e il condizionale passato sostengono la narrazione dei fatti, fino a sfumarli in un congiuntivo che conferisce loro una patina morbidissima di desideri. Sul movimento di questi tempi verbali si articola la schermaglia dialogica tra il capo ghibellino e il viandante di schiatta guelfa. In questo corpo a corpo verbale è incastonato l’intermezzo dolente di Cavalcante Cavalcanti, che “si dissolve come un oboe o un clarinetto, che hanno finito di suonare la loro parte”. Il suo compagno di pena, Farinata, senza scomporsi, può allargare il timbro del suo discorso in un “arioso”. Come lo sviluppa Dante nell’episodio? “Molto tempo prima di Bach, e in un’età in cui non si costruivano ancora i grandi organi monumentali, ma solo modestissimi prototipi embrioni del futuro mostro, un’età in cui lo strumento principe restava ancora la cetra usata per accompagnare la voce umana, l’Alighieri costruì, entro lo spazio verbale, un organo di potenza smisurata, e già si deliziava di tutti i suoi possibili registri e ne gonfiava i mantici, e lo faceva mugghiare e tubare da tutte le sue canne”.
La voce di Farinata proviene da un registro basso, ampio, rotondo (l’apostrofe a Dante suona voluminosa: “O Tosco…”); non si mescola al tremulo clarinetto di Cavalcante, ma prosegue insinuandosi in “un tondo finestrino acustico” e si libera in un monologo che ha la potente solennità di un organo. Leggere il poema dantesco con l’ausilio degli strumenti scientifici, chimici, biologici e geologici, intrecciati alla linguistica, alla fonetica, alla composizione musicale. Era questo l’ideale di un’ermeneutica-Ermitage coltivato da Mandel’’stam nella Conversazione su Dante. Accedere ai livelli profondi del testo poetico significa andare al fondo dell’“incessante metamorfosi del substrato di materia poetica, teso a conservare la propria unità e a cercar di penetrare all‘interno di se stesso” (p.83).
Nelle architetture della Commedia, Mandel’stam cercava la chiave del poema-poliedro, calibrato sulla perfetta unità tra poesia e struttura. L’intuizione critica capace di unificare tutte le precedenti lo raggiunge lungo l’itinerario di esule e viene raccolto dal poeta direttamente sulla superficie della terra. La moglie Nadezda ci racconta che a Koktebel’, in Crimea, tutti avevano la mania di raccogliere i ciottoli che la risacca spingeva sulla spiaggia. La pietra privilegiata di questo collezionismo naif erano le corniole. Nel villaggio, la corsa alla ricerca di queste pietre serpeggiava come passione comune, al limite della competizione. Un giorno, Nadezda e Osip camminano sulla spiaggia. Lui la segue in silenzio. Rimane indietro. Guarda ostinato i ciottoli sparsi sulla riva. Ma le sue tasche non si ingrossano di preziose corniole da mostrare durante il pranzo; si intestardisce a raccogliere certe pietre strane, anonime, scheggiate, più simili a scarti e residui che a tesori. La voce di Nadezda lo raggiunge: “Gettale, che te ne fai di quelle?”. Lui non l’ascolta. Passano altri giorni, forse mesi. A Koktebel’ i Mandel’stam riescono ad avere la carta e una risma di fogli grigi. Benedetto contrabbando! All’epoca dei loro pellegrinaggi da Leningrado a Mosca, tra Caucaso e Crimea, trovare la carta era un miracolo. Sulla carta grigia, simile probabilmente a quelle usate oggi per incartare alimenti, in una Crimea anni Trenta Osip comincia a dettare alla moglie la Conversazione su Dante, intercalando il ritmo orale della stesura con litigi e insulti. Ad un certo punto, racconta Nadezda, arrivò la frase: “chiede apertamente consiglio”. A chi? Proprio ai ciottoli di Koktebel’: per penetrare la struttura della Commedia. “E tu che dicevi, gettali!… Ora hai capito a cosa mi servivano?”. A Koktebel’ sappiamo che Mandel’stam passò settimane “d’assidua lettura dei poeti italiani”. Oltre a Dante, leggeva Petrarca, Ariosto e Tasso. Scrisse un ciclo di poesie dedicate all’autore dell’Orlando furioso.
Dobbiamo arrivare all’ultimo capitolo della Conversazione su Dante per trovare, incuneato nel vivo del tessuto argomentativo, l’unica scheggia scopertamente autobiografica del saggio: “Le pietruzze del Mar Nero gettate a riva dall’alta marea mi sono state di non poco aiuto mentre veniva maturando la trama concettuale di questa mia conversazione. Con molta franchezza ho domandato consiglio ai calcedoni, alle corniole, ai gessi cristallini, agli spati, ai quarzi ecc. Ho compreso allora che la pietra è una specie di diario del tempo meteorologico, una specie di grumo meteorologico. La pietra non è altro che il tempo meteorologico stesso, sottratto allo spazio atmosferico e nascosto dentro lo spazio funzionale. Per comprendere questo, bisogna immaginarsi che tutti i cambiamenti geologici e le stesse dislocazioni geologiche si prestino benissimo a venir scomposti in elementi del tempo meteorologico. La meteorologia è, al riguardo, più primordiale della mineralogia, l’abbraccia, la bagna, le dona antichità e significato”. E costruzione stratificata di pietra, di minuti cristalli, è, per Mandel’stam, il poema dantesco. Le metafore, le similitudini, lo snodarsi incatenato delle terzine, il corpo proto-meccanico di Gerione, le coreografie di danze e canti del Paradiso; l’unità di luminismo, fonetica e fluidi, le architetture orchestrate in forme musicali, la volumetria conica dell’Inferno, sono strati, fasce testuali di una geologia minerale nella quale i singoli canti ed episodi si muovono come “cambiamenti geologici”, “dislocazioni” suscettibili di altrettante infinite scomposizioni interpretative: “Leggere Dante è prima di tutto un lavoro interminabile, che a misura dei nostri successi ci allontana dalla meta. Se la prima lettura non dà che un po’ di affanno e una sana spossatezza, per quelle successive munitevi d’un paio di scarponi svizzeri ben chiodati”.
Nasce da questo retroterra il terzo livello di lettura del poema dantesco: la cristallografia. Lo spunto arriva a Mandel’stam dalla scienza che studia la configurazione strutturale dei cristalli; la loro storia, la loro formazione; il segreto dei loro rabeschi. È questo il filtro critico che carsicamente corre dentro la Conversazione e unifica lettura fonetico-musicale e riflessione sul realismo dantesco. Penetrare nella cristallografia della Commedia: è questo l’obiettivo estremo dell’esegesi mandel’stamiana. Bucare la superficie testuale come fosse “pietra” significa accedere alle cristallizzazioni del ’tempo’, ossia – fuor di metafora – alla combinazione delle terzine, poi dei canti, poi agli anelli di congiunzione degli episodi, poi ai monologhi. Dante fa della Commedia un poema di cristalli: scaglie luminescenti ritagliate dalla materia del vivente e collocate in uno “spazio funzionale”, la cantica, luogo dove i canti si muovono come “cambiamenti geologici”. Accedere alle strutture profonde della cristallografia del poema significa, per Mandel’stam, ricostruire il “diario” del processo creativo di Dante, perché ogni grumo geo-testuale è strato composito: pellicola del tempo della scrittura. In questo senso, scrive il poeta russo in un altro passaggio, i “brogliacci di Dante, va da sé, non ci sono pervenuti. Noi non abbiamo la possibilità di lavorare sulla storia del testo. Ciò non implica, naturalmente, che non ci siano stati dei manoscritti ricoperti di scrittura e di correzioni e che il testo sia sgusciato fuori già pronto come Leda dall’uovo o come Pallade Atena dalla testa di Zeus. […] Da secoli, ormai, si scrive e si parla di Dante come se egli si fosse espresso direttamente su carta bollata”. Ma l’assenza di autografi danteschi e di varianti capaci di immetterci nel laboratorio del poeta non rimane cruccio e perdita; ma per Mandel’stam è “cosa che non ci riguarda”.
Anche se i “brogliacci” di Dante non ci soccorrono nella ricostruzione della storia e della formazione del testo, le scalpellature del “martelletto geologico” del lettore ci portano dentro il “diario” del testo: attraversare l’intera cristallografia della Commedia – come suono, luce, realismo, figure retoriche, invenzioni di rime ecc.- significa approdare ad un diario della funzione e del meccanismo poetico; ad un tipo particolare di sguardo sul mondo, nel quale il tempo non fugge, ma resiste abbracciato, conficcato come minima scheggia, nel corpo del testo. La cristallografia della scrittura poetica diventa, nel contempo, cristallografia del metodo critico, anch’esso diario di bordo di un tempo da lettori. Tempo di pagine piene di parole raccolte come calcedoni, corniole, spati, quarzi, depositati con pazienza nella bisaccia per essere ricongiunti nel secondo tempo della riflessione ermeneutica. Mandel’stam ha trovato nella cristallografia l’elemento di raccordo, il medium capace di condurre a unità gli altri due livelli entro una cornice esegetica armonica, disposta nella libera forma della ‘conversazione’. Una ’conversazione’ lampeggiante di flussi di coscienza, di intuizioni, di collage di parole-minerali; di versi citati e di associazioni di linguaggi. E la conformazione dei cristalli è diventata tutt‘uno con il “dire” del lettore critico.
Mandel’stam ha configurato la Conversazione su Dante, la sua struttura interna, come un cristallo di rocca. Ha trasformato lo scavo della parola nel testo in un “martelletto geologico”, capace di condurci “all’interno del cristallo di rocca”, per mostrarci: “lo spazio di Aladino che vi è celato, il carattere di lampione, di lampada, di gocce pendenti da un lampadario, che è proprio delle stanze da pesci racchiuse in esso”. Il lettore mandel’stamiano della Commedia deve camminare sul testo come un geologo su di un terreno di sabbia e rocce. Chinarsi a raccogliere un sasso, in assoluto silenzio. Imparare “le venature, l’opacità, la granulosità”, la sovrapposizione di rocce; una coloritura, un deposito calcareo. E poi scegliere un punto nevralgico in cui conficcare il martelletto, in direzione di oscure vene profonde. Il finale della Conversazione su Dante non è un confine chiuso. È anch’esso diario di un tempo, quello dell’interpretazione testuale, assimilabile ad un processo cristallografico aperto a infinite aggiunte. Da questa disponibilità illimitata all’ascolto del testo prende le mosse l’ammaestramento ad un’altra scienza: la “scienza della poesia”. “Il lettore va messo al suo posto, e insieme a lui il critico che egli nutre. La critica, in quanto arbitraria interpretazione della poesia, non deve più esistere, deve cedere di fronte ad una obiettiva ricerca scientifica, alla scienza della poesia”.
Davide Pugnana